NUOVO INIZIO – Estratti
(https://www.gianlucadandrea.eu/ipertesto/)
In copertina Gianluca D’Andrea, foto Dino Ignani.
Dalla I PARTE – LO SPETTACOLO DELLA FINE
I.
Nella capsula, l’aria viziata
non era ancora stata incanalata
nel tubo di espulsione.
Guardavo in apprensione
eppure con distacco
l’acqua intoccabile dopo
che l’ultimo strato si era dissolto.
Fuori dalla piccola sfera
non avrei sopportato l’aria
se non per qualche ora.
Due o tre, secondo i dati acquisiti
alla console. L’acidità dell’atmosfera
era visibile all’orizzonte; la nebulosa
gialla copriva metà della visuale
e gradualmente la prospettiva
si restringeva, diminuiva l’opacità.
Un senso di spossatezza accompagnava
la curiosità di vedere ogni evento –
solo con la giusta attenzione
avrei avuto la possibilità
di ricostruire i particolari
nella memoria. Dal vivo,
per così dire, senza il filtro
dello schermo se avessi registrato.
Mi addormentai comunque. Al risveglio,
dopo qualche ora, potei constatare
che l’evento era ancora in corso.
Mi feci ricadere sul letto rigido
posto dietro la console, come
in ogni capsula, e provai a ricordare
l’origine dei fatti.
IV.
Un ottantanove infinito, un ottantotto…
il nastro girava sulla stessa scena:
Ben Johnson batteva Carl Lewis,
Carl Lewis battuto da una bomba
mai esplosa. No, occorre osservare
bene, ricominciare (dalla console
nella mia capsula): Ben Johnson
abbatte il record del mondo,
la creazione dell’uomo supera l’uomo,
lo spirito olimpico è in esubero, lo spirito.
Giunge al tracollo lo spirito.
La realtà dice di polizie scientifiche
e di controlli scientifici e risultati scientifici, ecc.
Osservo lo scatto della scienza,
lo sprint della chimica, l’impatto organico
sulla linea della sostanza, sull’organon
risonante di tempo che sposta il traguardo
e lo oltrepassa. Il corpo sacro dello sport
è superato, nasceranno altri fenomeni
come fulmini e ultimi scenari
della storia. La storia della fine
inaugurata dal figlio della sfortuna
a discapito del figlio del vento,
con un’audacia che rende merito all’assenza,
all’adattamento, alla selezione
innaturale dei nuovi vincitori.
Seul 1988 – Finale 100 metri: https://www.youtube.com/watch?v=_SKlNUbyhwA
VII.
«È spaventoso pensare che mio papà impugnasse gli elettrodi per la tortura con le stesse mani con cui mi accarezzava», racconta Analía, 34 anni, figlia di Eduardo Kalinec. Per tutti era Dottor K, uno dei più feroci aguzzini, condannato all’ergastolo nel 2010. «All’inizio non sapevo, poi non volevo vedere, alla fine ho aperto gli occhi», spiega Analía.
Questo era su Dagospia del primo dicembre duemiladiciassette ed era un rimbalzo da un articolo di Filippo Femia per “La Stampa”.
Il rimbalzo conta e il fatto che resti oltre lo scandalo
la notizia e le associazioni suscitate, i fantasmi del tempo –
dell’Argentina il velo biancoceleste –
non esiste altra storia se non quella di un individuo
e la quantità di informazioni incamerate.
Dottor K, mi fa pensare a mosche e scarafaggi, scarti
reietti, eppure lui ha nome e soprannome, e gli elettrizzati?
I morti affogati e imbottiti di Pentothal (altro nome
della morte buona e pietosa) e lanciati – pesi morti – e schiantati
e disidentificati e sparpagliati e discomparsi e mancanti e anestetizzati, ecc.
Tutto gestibile ancora meglio dalla console, perché è accaduto
e ho ancora un po’ di tempo per fare le mie ricerche, aspettare
e guardare e leggere e informarmi e incamerare e quantificare
e potenziarmi, e lavorare su nuovi aggettivi, ecc.
È spaventoso pensare che il corpo svelato sia così puro e tenero
e abbia una chimica così complessa, un’emivita così prolungata…
raddoppiata e dimezzata tendente al vegetale – la forma di vita perfetta.
Alba celeste che non sorgerai più come la videro gli scomparsi di allora
o i calciatori e gli insetti, alba che finisci in un tempo che vuole
rinnovarsi e perpetuarsi in altri cicli, alba naturaleinnaturale, darwiniana
e rituale, alba che induci al canto meccanico ogni essere digitale
prima di comprendere e neutralizzare anche la scomparsa.
XIV.
Verso sera, al tramonto, mentre
la luce aranciata si mescolava
allo strato fuligginoso dell’atmosfera
e ombre giallastre s’imponevano
nello spazio come aureole di luce
lunare, alla console suonava
un video anni Ottanta di Fiordaliso.
La nota accattivante del paesaggio
risiede nel contrasto tra l’assenza
e il desiderio: tu non ci sei
anche se sei presente
e io ti urlo contro, anche in absentia,
che desidero fare l’amore con te.
Prendermi il tempo per creare, nell’ozio,
il tempo della relazione che annulla
ogni scansione.
Poi, la vita ricominciava a battere
l’altro desiderio, l’allontanamento
definitivo da te. Ora, sono fuori
dal panorama, nel riflesso dimensionale
di un vetro, appoggiato a una balaustra
a guardare, attraverso il vetro,
la luna, la sua faccia di rena sbiancata,
il pallore della tua distanza
attendendo la prossima tempesta
canticchiando di quel che non voglio,
osservandolo.
XXIII.
Sembrava non guardare ma percepiva
esplosioni di luce – non il calore –
perché l’orizzonte picchiettava di bagliori
i vetri della cabina. La console distante
emanava i suoi colori e parole.
Un unico linguaggio fatto di segnali,
intermittenze, quasi la progressiva
scomparsa del corpo di ogni oggetto,
un alone, un’ombra come
nelle vecchie immagini di Hiroshima.
Ogni frammento di realtà rimaneva
sospeso ma al riparo da ogni minaccia,
eppure un pericolo imperscrutabile
sembrava incombere e provenire
dai bagliori. Ma lui era rannicchiato
al centro del corridoio, contro il pavimento
tiepido, su alcune lastre metalliche,
sfiorato dalle ombre dei corpi.
Il loro carattere era un insieme
di immagini latenti, scandite
in uno scenario che lui avrebbe voluto
occultare, ignorando o dimenticando i dettagli.
Il vero scopo di questo gioco a nascondere
sembrava risiedere in una volontà
passiva che non cercava indizi
e non credeva in alcun mistero.
La luce ormai blandiva
la capsula e i bagliori si attenuavano
mentre un’altra sera arancione
riempiva lo spazio e un senso
di raccoglimento emanava,
come in un riflesso concreto,
dallo schermo della console.
XXVIII.
Dalla luce indifferente e dorata
al tramonto dei sensi
nel cuore del desiderio, ecc.
Sdraiato sul letto dietro la console
osservo un tramonto terrestre.
La steppa confonde e disorienta,
i suoi odori provengono da ricordi
industriali ed erbe innominabili
suscitano un approccio tattile e un calore
estinto s’insinua nella distanza dal mondo
del prima. Il viola ostile
che si appressa ai campi e la bruma
sulla striscia aerea che avvolge
lo sguardo scende da un cielo immutabile.
Poi, come in una notte d’estate,
l’imbrunire trasforma il paesaggio,
la comunione crepuscolare e mediterranea
dei corpi in un riverbero, nel canto basso
all’orizzonte di una sfumatura dorata,
la fine nuda che chiude ogni riflesso.
XXXIII.
Aveva raggiunto un anfratto
il mio cielo coperto
il mio cosmo contratto
conservato come fossile
sotto strati sovrapposti
d’informazione. Come quando
in un punto della storia
aspettai in silenzio
di trovare l’analogia giusta
con questo cielo in cui vaga
ogni capsula-pianeta roteando
sul suo centro in miriadi
di traiettorie, ecc.
Sarà il giorno in cui l’uomosolo (uomosole) vedrà la dolcezza avvolgerlo come presenza effettiva del proprio desiderio. L’immersione nel desiderio sfilaccia il corpo-truciolo, ogni membrana finge di essere corazzata nella fortezza della propria solitudine, mentre si è soltanto riconosciuto un mondo aperto nel mondo (anche per questo è rincuorante viaggiare da soli). Questa cosa umana è nel cuore della sua sensazione, dolce,
dolce sconfitta che allarga il cielo,
il cosmo-pneuma-osmosi
dal chiuso della capsula (dallo schermo una canzone dolce)
Sinéad O’Connor – Nothing Compares 2U
alla vecchia atmosfera grigio-celeste che infrange la nebbia come un oggetto disumanizzato, come un verso cantato sottovoce con i suoi conati liquidi, per raccogliere nel tempo
l’imbroglio di forme e aggeggi –
quelli che tolgo
quelli che indosso –
il vapore che ogni tanto impatta
la vista nel suo affaccio
nel vuoto costellato di rosa
fulminei e albe ponderose
e richiami di arancio e blu
immensi che si riducono
allo scarto di un battito,
all’eco dello spazio
alla relazione
che nella solitudine
ci conforma.
Dalla II PARTE – NUOVO INIZIO
I.
La sensazione di raggiungere una casa è fondante in ogni esistenza. Collegabile alla necessità di protezione che caratterizza l’infanzia, è la divisione distintiva (forse la più pura) tra dentro e fuori. Sentirsi dentro o fuori dalle situazioni, nel mondo o ai suoi margini, dipenderebbe dalle capacità di accoglienza o vicinanza di un rifugio, della distanza o vicinanza alla sicurezza. La casa è una dimensione tattile, si pensi al nido, e anche olfattiva, che si radica nella personalità e ne determina l’adattamento. Non parlo di un’appropriazione del sé attraverso la casa, ma di un riassetto germinante del vuoto d’esperienza che definisce l’infanzia.
Tornavo con gli occhi alla strada
la rivolta intima che sento
affretta i passi di un sentire interno.
La soglia profuma di fughe
quotidiane, desiderio di accoglienza
il calore rilassato di una nuova energia.
Colmare il vuoto è la zona più intima di un processo continuo, di una curvatura che ci avvicina a e allontana da un centro che è pura ipotesi.
Mi riconosco in questa ipotesi e attraverso la soglia.
VII.
La casa era sempre più distante nella sua memoria, come la parete dal cui squarcio era emersa una dimensione di passaggio. Il transito all’unico senso possibile. Una caduta nei ricordi o negli incubi profondi della coscienza.
Ma perché la donna immane lo perseguitava? Perché quei corpi maciullati?
La paura si dileguò in un attimo di consapevolezza, una percezione estatica attenuava il raccapriccio. Prima di vedere tuffarsi quell’istante nel tempo che ne annullava la percezione, ogni suono, ogni odore erano già trasformati nel resoconto di un’allucinazione. Per questo la paura era scomparsa, imprigionata nel ricordo, eletta a residuo dell’eterno, senza scelta.
X.
Un sorriso radioso,
quello della figlia,
un sole di giugno
che apre al tepore,
a un calore più intimo.
La potenza dell’estate
si protrae nel futuro,
attiva il dubbio, il disagio
di un inizio che disegna
in fretta la sua fine. Il suono
argentino delle voci e i passi
sordi che oscillano vicini,
distanti, vicini, mentre
anche la luce s’inargenta
e la superficie fresca
della parete riverbera
ogni nota del cammino
ambivalente sulla sua mano
che già sente
il contatto.
XIII.
È un mondo di rami
la nostra solitudine.
In questo momento
l’ombra si prolunga il giorno si arresta.
Evapora la mia bambina,
sui dorsi delle colline lampeggiano
volti, le linee assumono forme
mostruose. Non finiscono
mentre il mondo si restringe
e i volti oscillano tra i rami.
Guardo ancora un po’ l’ombra
avvitarsi sui volti in attesa
che termini l’attesa
in un esordio confidente, vorticoso.
XX.
Era sempre più difficile ristabilire un contatto, era come se la crepa avesse risuscitato altri luoghi e memoria e percezione fossero sempre più confuse. Restava il fatto di trovarsi in casa, intravedendo un percorso. Tra le soglie era riuscito a percepire la crepa, un accesso all’altrimenti irrintracciabile cammino della sua psiche. Pensò al viaggio virtuale, alla capsula e alle visioni aperte, ai cunicoli che costruivano il racconto, addensando il passato e il presente. E ora? La realtà crepata presentava altri cunicoli e i sogni scaturivano spontaneamente. Forse era sempre stato quel dispositivo che riceveva informazioni, le accumulava per reinterpretarle. La continuità relazionale tra il suo organismo e le strumentazioni adesso era precisata dall’inconsistenza del luogo. Per questo, le immagini dell’esperienza onirica nella capsula si accavallavano ai ricordi del suo passato, lui era l’interfaccia di accumulo e ritrasmissione, quello che chiamava mondo interiore era un mondo d’immagini.
XXXI.
Non era accaduto niente
la terra, il suono attutito della terra umida
i passi, il ritmo della terra.
Camminava col suo carico mentre i primi raggi cadevano sull’orizzonte brunito,
le stelle invisibili della rovina
ne sentiva le ultime intermittenze, i loro bagliori sonori
il resto era percepibile anche se nascosto, era nei primi riflessi che si arrendeva a essi
per raggiungerli come una casa.
Proseguiva al loro interno, dentro una nuova ombra, si arrendeva alla strana ospitalità senza dominio
piega dopo piega, crepa dopo crepa.
XXXIII.
Iniziò a nevicare.
Quando il cielo si oscurò cadde
un improvviso silenzio.
Sulle colline invernali a stento percepiva
le pieghe di massi granitici.
Qui tutto è nuovo e diverso,
si disse, mentre pensava ad altre colline
disseminate di massi bianchi
in una terra riarsa e spaccata
come ossa calcinate
in un vasto deserto.
Cumuli d’oro dominavano
nei riflessi dell’alba
come sfiorati da una polvere
impalpabile. Il disco del sole
s’impennava e lui non desiderava andare
oltre, non c’era niente più in là del mondo in cui un giorno il mondo avrebbe potuto trasformarsi
e, chissà, sparire.
Tutto andava, ma non individualmente.
Fasci di luce mattutina scendevano come frecce dalle nubi e il sole
illuminava la superficie vitrea del mare.
NUOVO INIZIO – Estratti
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