Chi?
Questo è il mio trentesimo libro. Nato sempre dalla volontà di creare un linguaggio d’arte, un suono vivo, personaggi, immagini prelevate dalla memoria lungo il cammino della vita. La storia di “Cantavano all’altalena” appartiene al tempo dei pendoli, a un oscillare immaginario suggerito dalla tradizione garganica degli sciamboli, al canto delle cummari Marietta e Rosaria, vicine sulla tauledda per evocare il passato, il presente e il futuro. Si narra della famiglia Viscio, del salicornieto sul lago di Varano, degli idrovolanti portati dalla Prima Grande Guerra. Dei Cerasa di Vico, degli agrumi in partenza per l’America, del giardino e della farmacia dei Cordillo di Rodi. Tutti luoghi di una terra dimenticata, quasi un’isola nel mare, fino a quando, come scrive la Storia, Mussolini diede al Promontorio del Gargano i binari di una ferrovia.
Cosa?
“Cantavano all’altalena” – edito dalla casa editrice pugliese Florestano per la cura di Roberta Magarelli, sapiente per formazione musicale e fine gusto letterario – è un romanzo poetico e visionario a più fili e personaggi. All’oscillare principale delle due comari, s’accordano altre altalene, appese agli ulivi a segnare la vita di donne, madri e fanciulle, destinate a vivere l’amore come abbandono e speranza, tradimento e rassegnazione, preghiera e sacrificio, passione e dolore. Anche gli uomini di questa storia oscillano per sentimenti e intenti, nel desiderio di sapere o non sapere, lavorare la terra o prendere il mare, partire o rifugiarsi in preghiera nella Foresta Umbra, suonare la musica delle tarantelle o il jazz, nel sogno di un altro dondolare, a tempo di swing. I temi creano trame di sentimenti. Passa l’amore provato per la prima volta nella fanciullezza, la gelosia, il tradimento. L’amore taciuto e quello dichiarato, il desiderio e l’amore coniugale. Il senso dell’attesa e del dolore, il mistero della morte, il bisogno della preghiera. La voglia di sapere, la passione per la musica, il viaggio per mare, la solitudine delle terre dimenticate. Altro ancora troverà il lettore se vorrà fidarsi, abbandonarsi all’oscillare del narrare. Quando un autore inventa un personaggio attinge dalle anime del mondo, battezza creature forse esistite, forse sognate.
Quando?
Riporto per esteso la prima pagina del romanzo, l’autentica ispirazione che ha guidato l’invenzione narrativa. Ho vissuto tre anni sul Gargano viaggiando su corriere solitarie nella notte. La solitudine, la voce della penna ha guidato tutto questo:
«Qui non passa il treno?» Chiesi a un vecchio seduto davanti a un ramo di zagara illuminato dal sole. Dipingeva un muro, tagliava un limone senza togliere la buccia. «Il treno torna con l’estate, se tornerà.»
L’uomo mi offrì un tocchetto di quel limone.
«Chi arriva a Rodi deve pensare d’essere in una fiaba.»
Accettai l’assaggio insieme al consiglio di quelle parole strette, come suona l’accento di quelle parti di Puglia.
Il pittore allungò il coltello, indicò una scala ritagliata tra le case arroccate, bianca nel bianco.
Nel salire si contavano in lentezza i gradini, seguendo il tempo della gente che abitava il paese. Qualche donna s’affacciava ad appendere il bucato, vestita di nero, più nera nel bagliore acceso sulle pietre. Il profumo del sapone accompagnava i miei passi devoti alla bellezza del mare e all’alito della poesia, tra parole di preghiere, ghirlande di agrumi e corone di stelle poste in capo al manto celeste di Maria Vergine, l’ombra di un pergolato in attesa di fiorire, aggrappato in parte a porte serrate da chiavistelli sdentati. Su quel legno ferri di cavallo inchiodati tra il muschio ingiallito, con le punte in alto a intimare il demonio e la sfortuna, a dire a entrambi di non bussare mai da quelle parti. Accoglievo i segni di una solitudine terrestre, disegnato com’era da millenni lo Sperone del Gargano sulle carte geografiche.
L’ultimo tratto di scale e sarebbero finite, guidandomi tra cortili e chiese aperte a cedere incenso alla mattina.
«Ricordati di me», si leggeva su pietre murarie, sotto crani sbalzati nella calce. Parlava agli uomini la Morte, approfittando del silenzio generoso ad accogliere ogni non detto, infrangeva se stesso in quel monito scolpito e che una volta letto giungeva in eco all’uomo.
Rodi mi accoglieva in inverno, nella stagione in cui il Promontorio era abitato solo dai propri paesani. Coglievo dai forni le fragranze di un pane grande come luna piena, dei taralli chiusi ad anello. I colori della frutta in ceste e venduta in piazza sotto la torre di un campanile che portava al cielo l’ottagono di Federico II e la croce di Cristo.
Poche botteghe aperte in quella piazza e una farmacia davanti alla quale stava della gente.
«Andate… voi andate a vedere.» Disse una donna.
Sotto il caduceo sbalzato in una formella di ceramica era scritto: Farmacia Cordillo.
Spinsi la porta a vetri ed entrai.
Sedie e tavolini attendevano chi si sarebbe seduto a discutere dei fatti del giorno o di faccende personali in una lingua zoppa e segreta.
La stanza era arredata da teche, cassetti e mensole di legno occupate da vasi officinali. Una parete s’apriva in altre due stanze a inventare un luogo di conversazione. Sui muri ritagli di giornali con Benito Mussolini. Insegne e quadri a custodire le cartine rotonde usate per avvolgere le arance e i limoni in partenza per l’America. Sotto un grammofono, un grande giglio rosso con vecchi dischi dell’era del jazz. In un angolo l’elica di un biplano, la corda di un’altalena appesa alla trave di una porta che dava su un cortile coperto da un tetto di buganvillea.
Prima d’arrivare sul Promontorio avevo letto tanto di quella terra a me sconosciuta, soprattutto degli sciamboli, canti d’altalena, d’amore e dispetto, invenzioni di poesie popolari, tramandate da donne che penzolavano davanti alla porta di casa. La storia che volevo scrivere stava tutta in quella stanza, dovevo solo affidarmi al pendolo dell’immaginare.
Lasciare apparire comare Rosaria e comare Marietta.
Dove? Perché?
Questo libro nasce dalla necessità di capire luoghi, l’umano di uomini, donne ragazzi prelevati da un tempo lontano eppure presente. L’immaginazione ha un grande potere: sedimenta, irrora, ravviva, trasforma il vissuto. Fondamentale per me è stato il bisogno di raccontare la bellezza di un luogo isolato, la vita semplice di piccoli paesi, di gente che porta il sigillo autentico d’una terra meravigliosa. La percezione di ritmi popolari e jazz, segni e semi d’espressione e incantamento. La letteratura ha bisogno di storie come queste. Basta gialli dozzinali, pubblicazioni confezionate dagli editor per rendere più che mai merce un libro. In questo nostro millennio scandito da banalità diffuse grido e canto al vento il valore dello stile. Un libro è soprattutto scrittura, parola creata e creante.
Scelti per voi
Canta il tempo dell’altalena
«Odonì, odonà… Dondola l’altalena, Rosaria sa che Marietta vede il futuro quando il balzo della corda vola in avanti, al pari di come lei raccoglie il passato nell’oscillare indietro, fedeli l’una all’altra al tempo dei pendoli.
Tiene nel conto Rosaria, negli anni e nei secoli, delle vite di tutte le sante donne della Montagna del Sole, vissute in leggende dette e ridette. Quelle leggende così diventano vere. Rosaria le conserva e Marietta le sparge in semi cosciente di ciò che in germoglio possono narrare e rinarrare.» (p. 19)
«I primi a partecipare al “metodo Fuschillo” furono proprio loro. Sedevano sul carro, vicini alla coda del cavallo a suonare il clarinetto e la tromba, seguendo il volere arcano delle note. Annunciavano l’arrivo del maestro nelle campagne correndo a chiamare i figli dei contadini.
Il maestro li disponeva a formare una fila volta a procedere verso la cucina di turno. A quel punto chiedeva alle donne di casa acqua e farina da impastare come pasta di pane. Spiegava loro come fare dei bastoncini e piegarli a comporre lettere da cuocere in forno. Fuschillo non segnava una differenza tra maschi e femmine. In quel gioco semplice e nutritivo coinvolgeva tutti, dimostrava come lo studio fosse necessario quanto il pane. Giovava la fatica dell’impasto e rispettare il tempo della lievitazione ovvero dell’assimilazione necessaria a una pratica manuale da segnare poi nella memoria.
Dalle mani alla testa, faceva intendere Fuschillo ai bambini.
Domenico e Leonardo erano i primi a finire l’impasto, a stendere lettere e numeri senza errore. Provarono anche alcune donne, abili com’erano a fare “orecchiette”, “troccoli” e “laine”.
Una volta cotte era con quelle lettere che si capiva come comporre il proprio nome. Il premio per chi non sbagliava era poi mangiare i “taralli dell’alfabeto”, come furono chiamati dal maestro.» (pp. 96-97)
«Gli sposi lasciarono la festa. Corsero verso il lago fatto d’argento dalla luna. Annunziata vide nudo Antonio. Non sapeva come era fatto un uomo, scoprilo le mise voglia di ridere. Lui le andò vicino, le slacciò il corpetto nel fruscio di una brezza tra le canne. Annunziata avvertì il brivido delle lunghe foglie sulla pelle, per pudore si coprì il seno a reggerlo con le mani. Antonio la teneva per i fianchi, la spinse nel giaciglio baciando quella prigione inventata dalle dita.
La sposa allora aprì le braccia e rise del tempo passato a resistere a quell’uomo.
Rimasero nel capanno una settimana, a rispondere con i loro corpi al richiamo degli uccelli, ai nitriti dei puledri in corsa sul Monte Calvo.
Antonio portò lassù la sua sposa come promesso.
Salirono con il carretto nel momento in cui il sole riscaldava di più la terra.
«Corri Nunziatì che non ti vede nisciuno.»
Si ritrovò scalza tra l’erba alta, a ridere del brivido delle spighe di gramigna sulla pelle, criniere sottili incurvate dal vento fresco. Antonio la inseguiva.
Arrivarono con il fiato grosso a una radura.
Tre cavalle in posa parallela vegliavano sul riposo di tre puledri stesi sull’erba a riprodurre quell’assetto. Perfetta la distanza tra i musi beati, le orecchie e le code immote. Guardavano le cavalle le loro creature, accogliendo nello specchio della pupilla anche un uomo e una donna in cerca di delizia e quiete.
Antonio s’adagiò su Annunziata, la coprì di calore e amore.
S’amarono in un lungo bacio, a non disturbare i cavalli. Ciascuno occupava un posto tra erba e cielo. (pp. 134-135)
*
“Cantavano all’altalena” di Lina Maria Ugolini, sarà presentato, a Catania, da laFeltrinelli giovedì 17 ottobre 2024, alle ore 18.
Lina Maria Ugolini, figlia e nipote d’arte lavora sulla scrivania del nonno fiorentino, appartenuta a Luigi Napoleone Re D’Olanda. Forgiatrice di linguaggi e forme impugna quotidianamente la sua penna a spina di rosa. Molti cappelli le fanno compagnia nell’arte del passeggio e del pensiero, ardito in leggerezza nel costruire romanzi e fiabe, poesia e saggi creativi pubblicati con vari editori tra cui rueBallu (premio Andersen 2016), Gremese, Ensemble, Splēn, Villaggio Maori, Siké, Giazira, Ensemble, Kalòs, Saecula, Edizioni del Foglio Clandestino, Akkuaria, Nous, Florestano Edizioni.
Nata e cresciuta tra musica e teatro inventa progetti di scrittura, didattici e di divulgazione musicale. In qualità di drammaturga collabora con il Teatro Massimo Bellini, la Camerata Polifonica Siciliana, Musicainsieme a Librino, Cartura, Marionettistica Fratelli Napoli, Piccolo Teatro della Città, Compagnia GoDoT.
È docente titolare di Analisi delle forme poetiche (nonché autrice del rispettivo manuale), Tecniche di elaborazione per la poesia per musica, Storia del teatro musicale e Drammaturgia musicale al Conservatorio “Vincenzo Bellini” di Catania; Storia del jazz. Ha insegnato al Conservatorio “Umberto Giordano” di Foggia sez. Rodi Garganico, al Conservatorio “Antonio Vivaldi” di Alessandria. Ha al suo attivo numerosi testi andati in scena e performance poetiche per voce e musica. Parla di libri sui social indossando il cilindro dell’Onesta signora Pickwic.