#1Libroin5W
Chi?
Giuseppe Giunta ha 50 anni e fa il correttore di bozze. In una sola notte, in una redazione di un quotidiano milanese, racconta la storia del suo dramma familiare a Riccardo Armeni, giornalista di cui si fida. Torna indietro nel tempo di 40 anni e fa i conti con se stesso e con la sua terra d’origine: la Sicilia.
Ha deciso di scoprire una verità dolorosa, per troppo tempo nascosta dai silenzi dei genitori Michele e Angela, e dall’omertà.
Cosa?
Cosa accadeva nelle piccole comunità siciliane degli anni ‘70 quando dovevano fare i conti con l’amore di due ragazzi vissuto alla luce del sole? L’omofobia e lo sguardo tenacemente rivolto al passato sono due scogli insormontabili per Saverio Giunta (il fratello della voce narrante, Giuseppe) e per il giovane Matteo “dagli occhi bistrati di nero”, “u puppu co’ bullu” che non fa mistero della propria omosessualità.
Quando?
L’idea del romanzo nasce molti anni fa, quando per caso riscopro “il delitto di Giarre” al quale “Il silenzio dei giorni” è liberamente ispirato. Nella realtà il fatto di cronaca venne decisamente rimosso per molto tempo: due giovani omosessuali vennero ritrovati uccisi nel 1980, ancora abbracciati, ai piedi di un pino marittimo. Non è chiaro se si sia trattato di omicidio o suicidio. Ma è comunque una morte addebitabile al rifiuto sociale e familiare di un amore (per così dire) “diverso”.
Dove?
La storia si sviluppa a Giramonte Etneo, comune a economia agricola che nella realtà non esiste, ma che di fatto propone un fedele ritratto della provincia siciliana degli anni ‘70; un paese né buono, né cattivo, ancora risparmiato dalla modernità, dove il tempo scorre lento ai piedi dell’Etna.
Perché?
Perché la letteratura permette di raccontare le dinamiche della realtà senza i (doverosi) vincoli del giornalismo e della saggistica e con una notevole libertà di narrazione. Scrivere di diversità e di sopravvivenza al dolore, di “non detti” familiari e di incapacità del prossimo ad accogliere l’altro, è più che mai necessario.
Scelti per voi
“Ero felice? Eravamo felici? Ancora oggi non saprei rispondere. Al mio taccuino, anche quell’estate del 1972, consegnavo pezzi dei miei tredici anni, galoppando dentro le pagine con una foga violenta. Avevo sete di vedere, di capire. Ma non sapevo di preciso cosa.
Il tempo trascorreva più velocemente, grazie a quel contatto segreto con me stesso. Mi piaceva scrivere, e il mio quadernetto dalla copertina blu a quadretti verde scuro era molto più che un diario.
Quei fogli supplivano ai viaggi che temevo di non poter mai fare ma di cui forse non sentivo neppure il bisogno, tanto li sentivo lontani dalla realtà.
Eppure quei fogli mi aiutarono a crescere.
Il futuro era roba per adulti: che se ne preoccupassero i grandi, procurandosi il loro dolore. A me era il presente che interessava più di ogni altra cosa. Erano i giorni trascorsi a scuola e a casa, nelle strade di Giramonte e con gli amici. Sapevo che ogni evento, anche minuscolo e insignificante, avrebbe potuto rivelarsi utile il giorno dopo, o un anno dopo. Avevo sviluppato un insolito talento per la mia età: mettere insieme le cose accadute, le cose dette o pensate, per osservarle con attenzione. Poi riuscivo a legare tutto e a collegare le storie. Era un gioco divertente e mi faceva sentire grande, potente.
Trascorrevo buona parte del tempo a rileggere le pagine precedenti, tutte minuziosamente contrassegnate da date, orari, circostanze di scrittura, persino qualche cimelio: una cartolina di San Domenico Savio ricevuta in estate dal compagno di banco che trascorreva le ferie a Zafferana, dai salesiani, o un manifestino della Democrazia Cristiana che mio padre portava in casa per accontentare Licciardello, o una vecchia pagella.
C’era soprattutto un ritaglio di giornale che raffigurava la Lucia de Il segno del comando. I capelli di quell’attrice televisiva misteriosa che si stringeva in uno scialle da zingara mi apparivano soffici e curati come quelli di mia madre.
Fu in un mercoledì di fine giugno che, leggendo e rileggendo, mi accorsi che mancava qualcosa: le ragazze non avevano mai abitato in quelle pagine. Neppure per sbaglio.
Non me ne vergognavo. La verità era che per quello, per lo svelamento del mistero femminino, intendo, mio padre faceva e disfaceva tutto da solo. A me e a Saverio non rimaneva spazio per chiederci come fossero le donne nella loro oscura intimità.
Le donne abitavano buona parte del suo cervello ogni giorno, ogni minuto. Ne parlava per ore, a casa, fuori, al lavoro, con gli uomini, con le altre donne. Le sue femmine belle o brutte, giramontesi o forestiere, giovani o vecchie, ingombravano le nostre giornate, anche solo a parole. Non c’era bisogno di cercarne altre.
Mio padre poteva fissarsi con un’ottantenne o con una ventenne, indifferentemente.
Della prima avrebbe indagato la morale dei quarant’anni precedenti, da donna sposata, la qualità della figliolanza, la condotta durante la prima e la seconda fase della vedovanza. Della seconda le frequentazioni, le aspirazioni paterne a un eventuale matrimonio, i fidanzati veri o presunti, e soprattutto, la nomina, la nomea, l’opinione che della donna avevano gli altri compaesani. E di tutt’e due le fattezze. Sopra ogni cosa i fianchi e le cosce, le cui misure svelavano al mondo i vizi e le virtù, doti materne o di grande buttanaggine.
Mio padre parlava di soldi, prima di tutto. E poi di donne. Di quelle degli altri, è chiaro. Forse era questo che lui e il professore comunista condividevano senza che alcuna barriera culturale potesse dividerli.
Sia chiaro: mai avrebbe alluso a eventuali tradimenti. Era un uomo d’onore che portava rispetto alla moglie. Avevamo, io e Saverio, l’impressione che in questa continenza ci fosse qualcosa di forzato che lo faceva soffrire. Spesso ridacchiava al ricordo di sue vecchie fiamme, prima di fidanzarsi con mia madre. Tutte belle, tutte sode, a giudicare dalle minuziose descrizioni che faceva, e pronte a farsi sbucciare come un’arancia dalle sue mani esperte.
Mai belle quanto sua moglie, però. Meno che mai pure e sagge come la sua Angela, che meritava la sua adorazione incondizionata e perciò lontana mondi e galassie dalla condotta poco meno che meretricia delle altre.
La nomina, rosario quotidiano della vita giramontese, credo laico di una fede professata da molti, passatempo innocente di signore e signorine, non era solo una fissa di mio padre.
Quando qualche volta ascoltavo annoiato i discorsi degli operai, la nomina era l’asse portante alla quale i dialoghi si aggrappavano disperatamente, così da non dover mai cambiare strada”.
Rosa Maria Di Natale, giornalista professionista, vive e lavora a Catania. Il fiuto per le storie della realtà l’ha avvicinata sin da giovanissima al giornalismo, quello per le storie immaginate l’accompagna da quando ha memoria di sé.
In questo blog indaga una terra di confine: quella ibrida tra letteratura e giornalismo o tra reportage e narrazione o tra autobiografia e invenzione. E lo fa mettendo insieme libri e contenuti multimediali.
Collabora con il Gruppo GEDI e Repubblica Palermo ed è nel gruppo italiano di ONA (Online News Association) .
Ha vinto il “Premio Ilaria Alpi” nel 2007 con una video-inchiesta auto prodotta, “Hotel Librino”, che le è valso anche il Premio “Pro bono veritatis” intitolato a Rosario Livatino, nel 2011.
Per oltre un decennio è stata cronista nella redazione del Giornale di Sicilia di Catania e ha collaborato con Il Sole 24 Ore Sud e Radio 24.
È stata docente a contratto di Giornalismo, comunicazione e Nuovi media all’Università di Catania e ha pubblicato Potere di Link – Scritture e letture dalla carta ai nuovi media (Bonanno, 2009) sul rapporto tra scrittura letteraria e fruizione digitale.
Ha fondato e coordinato il blog Data Journalism Crew, per il quale nel 2012 ha vinto il Premio Donnaèweb (sezione Press). Nel 2017 ha fondato il team EmPress media e News, con particolare attenzione al Social Journalism e ai podcast.
Promuove e coordina gruppi di lettura in presenza e sul web, tra cui “Letture italiane in corso” su Twitter e Instagram.
Ha pubblicato il suo primo romanzo nel maggio 2021: “Il silenzio dei giorni” (Ianieri edizioni). È una storia liberamente ispirata al “delitto di Giarre” del 1980, quando due giovani omosessuali furono trovati uccisi mano nella mano ai piedi di un pino.
Email: rosamariadinatale@yahoo.it