“Non scusarti per quel che hai fatto” di Mahmud Darwish, a cura di Sana Darghmouni e Pina Piccolo (Crocetti).

Nella memoria è abolito lo scorrere di qualsiasi tempo: la mente è tutta rivolta a rammemorare quel che l’esistenza ha disperso o estirpato dalle radici. E tuttavia, se lo spazio della memoria viene a coincidere con quello della perdita di Sé e della lontananza dai propri orizzonti esistenziali, l’irreversibilità dell’esperienza vissuta appare come unica sostanza del presente. È la condizione simbolo dell’apolide mancare di una lingua capace di collocare entro fisse coordinate psicologiche i frammenti della propria storia umana, politica e culturale. La lingua appartiene a un orizzonte di assenza e di miraggi, di orme e di attese. In tempi come quelli in cui viviamo, la voce del poeta palestinese Mahmud Darwish, raccolta nel volume edito da Crocetti “Non scusarti per quel che hai fatto”, a cura di Sara Darghmouni e Pina Piccolo e con premessa di Monica Ruocco, declina proprio l’esperienza di un deserto interiore che è relazione assidua con quella lontananza di cui sanguina la ferita alle radici stesse dell’esistenza. Con l’espulsione di massa dei palestinesi e la fondazione dello Stato di Israele nel 1948, il villaggio natale del poeta viene sfollato e distrutto. In esilio tra l’Europa, l’Egitto e il Libano, Darwish non rinuncia alla militanza politica, venendo per questo più volte incarcerato: dal 1987 al 1993 fa parte dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina; dopo gli accordi di Oslo ritorna nella sua terra, vivendo tra Amman e Ramallah. La sua poesia assume pertanto una forte ambivalenza: è da un lato la poesia di un esule, la cui identità è ferita alle radici dal rovinoso conflitto israelo-palestinese; dall’altro invece è il suggello di una voce che si è vista eletta al canto per restituire patria alle parole:

Il ritmo mi ha scelto, ma io sono un groppo in gola
sono il flusso rigurgitante del violino, ma non il violinista
sono in presenza della memoria
l’eco delle cose parla attraverso la mia bocca
e io dico…
Ogni volta che ascolto la pietra sento
singhiozzare in me
il tubare di una colomba bianca:
fratello! Sono la tua sorella minore,
così verso in suo nome le lacrime delle parole
e ogni volta che, sulla strada per le nuvole,
vedo il tronco dell’albero dei rosari
sento palpitare in me
il cuore di una madre:
sono una divorziata,
così maledico in suo nome la cicala delle tenebre.
E ogni volta che su una luna scorgo uno specchio
vedo l’amore fissarmi come un demone:
sono ancora qui
ma tu non tornerai a essere come ti avevo lasciato
non tornerai, e io non tornerò.
Così completato il suo ciclo
rimango un groppo in gola al ritmo…

Coltivare una relazione con la lontananza significa affondare nella grammatica della propria interiorità. La condizione di apolide spinge il poeta a interrogarsi sulle radici della lingua, per provare ad abitarla e offrire dimora alle tante cose del mondo perse, smarrite:

Ho la saggezza del condannato a morte:
non possiedo niente perché niente mi possieda,
scrissi il mio testamento con il mio sangue:
“Confidate nell’acqua, oh abitanti del mio canto”.
Poi mi addormentai imbrattato e coronato dal mio
domani…
Sognai che il cuore della terra è più grande
della sua mappa,
e più chiaro dei suoi specchi e della mia forca.
Sognai una nuvola bianca che mi portava più in alto
come fossi un’upupa, e il vento le mie ali.
E all’alba fui svegliato dal mio sogno e dalla mia lingua
dalla chiamata della guardia notturna: “Vivrai un’altra
morte,
cambia le tue ultime volontà,
l’esecuzione è stata rinviata una seconda volta”.
Domandai: “Fino a quando?”.
Disse: “Aspetta ancora per morire di più”.
Dissi: “Non possiedo niente perché niente mi possieda”.
Scrissi il mio testamento con il mio sangue:
“Confidate nell’acqua
oh abitanti del mio canto!”.

La poesia è sempre permeata da un bisogno di regressione a un’origine verginale, materna, dove sia abolito lo scorrere di qualsiasi tempo e si divenga pura percezione senza confini politici validi a circoscrivere l’espressione dell’esistenza:

Un altro giorno verrà, un giorno femmineo,
alla metafora trasparente, compiuto,
diamantino, di visita nuziale, soleggiato,
fluido, allegro. Nessuno sentirà
alcun bisogno di suicidio o di migrazione.
Poiché ogni cosa, fuori del passato, è naturale e vera,
sinonimo dei suoi attributi originari.
Come se il tempo oziasse in vacanza… “Prolunga il bel
tempo
della tua grazia. Illùminati nel sole dei tuoi seni di seta,
e aspetta l’arrivo della buona novella. Poi,
potremo crescere. Abbiamo ancora tempo
per crescere dopo questo giorno…”
Un altro giorno verrà, un giorno femmineo,
dal cenno canterino e dal saluto e verbo azzurri.
Tutto è femmineo fuori del passato,
l’acqua scorre dalle mammelle della pietra.
Nessuna polvere, nessuna siccità, e nessuna sconfitta.
E le colombe dormono in un carro armato abbandonato
quando non trovano un piccolo nido
nel letto degli amanti.

L’esilio è un’esperienza i cui effetti si rinfrangono anche nel rapporto con l’identità e lo scorrere degli anni. Nel testo a seguire, il ricordo dei vent’anni provoca nel poeta un senso di straniamento rispetto al qui e ora: il passato come riverbero di un’identità nella quale l’esule Darwish non può riconoscersi poiché esule anche da quel tempo:

A casa di mia madre la mia foto mi guarda
e non smette di domandare:
sei tu, ospite mio, me?
Eri tu ai miei vent’anni,
senza occhiali
né valigie?
Bastava un buco nel muro
perché le stelle ti insegnassero lo svago di fissare
l’eterno…
(Che cos’è l’eterno? Dissi a me stesso.)
E tu, ospite mio, sei ancora me com’eravamo una volta?
Chi di noi due ha rinnegato i propri lineamenti?
Ti ricordi lo zoccolo di quel cavallo testardo sulla tua
fronte
o hai impiastrato di trucco la ferita per apparire
bello davanti alla fotocamera?
Sei tu me? Non ti ricordi il tuo cuore trafitto
dal vecchio flauto e dalla piuma di fenice?
O hai cambiato il tuo cuore quando hai mutato il tuo
percorso?
Dissi: ascolta, sono te,
ma sono saltato giù dal muro per vedere
che cosa sarebbe accaduto se il destino invisibile mi
avesse visto raccogliere
con delicatezza le viole dai suoi giardini pensili…
Avrebbe potuto salutarmi e dire:
torna sano e salvo…
e sono saltato giù da questo muro per vedere
ciò che ci è celato
e per misurare la profondità dell’abisso

La “profondità dell’abisso” è la misura dell’esilio. La consapevolezza di non appartenere a nessun luogo, se non ai rovesci del “destino invisibile”, riguarda anzitutto una risonanza del sentire, che è percezione di non-smarrimento e conoscenza di sé nell’assoluto della lingua, spesso connotata con attribuzioni materne:

Non scusarti per quel che hai fatto, mi dico in segreto.
Al mio altro ‘io’ dico:
eccoli, i tuoi ricordi, tutti visibili:
la noia di mezzogiorno nella sonnolenza di un gatto
la cresta del gallo
la fragranza di salvia
il caffè della madre
la stuoia e i cuscini
la porta di metallo della tua stanza
la mosca attorno a Socrate
la nuvola sopra Platone
il diwan al-Ḥamāsa
la foto del padre
l’atlante dei Paesi
Shakespeare
i tre fratelli, e le tre sorelle
gli amici dell’infanzia, e gli indiscreti:
“È lui?”. I testimoni non sono d’accordo:
“Forse, sembra lui”. Domandai: “Chi è?”
ma non risposero. Sussurrai dunque al mio altro ‘io’:
“È quello che eri una volta tu… io?”. Ma distolse lo
sguardo da me
e i testimoni si rivolsero verso mia madre per farle
testimoniare
che fossi lui… e lei si preparò per cantare
a modo suo: “Sono la madre che lo ha generato,
ma è stato il vento ad allevarlo”.
Allora dissi al mio altro ‘io’: “Non scusarti se non con tua
madre!”.

Le forti connotazioni politiche della poesia di Darwish si sostanziano dunque di un immaginario che elegge l’esilio personale a condizione universale. E infatti, Monica Ruocco in prefazione osserva:

Nonostante la prospettiva abbastanza diversa da cui parte Darwish rispetto alle precedenti raccolte, non mancano i rimandi ai grandi temi della poesia palestinese da sempre presenti nella sua poetica. Primo fra tutti è quello della memoria che diventa un vero esercizio di resistenza e anche l’unica arma per chi è stato privato o continua a vedere minacciata, rischiando di perderla, la propria esistenza fisica, la propria identità, la propria storia. A proteggere il poeta dall’oblio sarà un altro simbolo importante della Palestina, l’albero di ulivo, in questo caso due ulivi secolari di nord-est in cui Darwish trova i semi del suo canto. Oltre a questi non mancano i riferimenti agli uccelli, simbolo di un anelito alla libertà e del viaggio: “il mio corpo è una piuma e uccello è la vastità”; e a quei cavalli “caduti dalla poesia” e “periti per le distanze”. In questa raccolta il nome “Palestina” ricorre soltanto una volta in maniera esplicita. Mahmud Darwish la nomina nella struggente “Come un misterioso accadimento”, in cui il poeta trasforma la causa palestinese da esclusiva pertinenza del mondo arabo in una “questione” universale (…) Tuttavia, la Palestina intesa come “terra” e luogo geografico tangibile rimane il cuore del “Mediterraneo” arabo. È dalla Palestina che Darwish guarda alle città arabe rievocate qui: Tunisi, Beirut, Baghdad, Damasco, Il Cairo, città a cui il poeta è arrivato “come gabbiano e ho montato/ la mia nuova tenda”. È dalla sua Palestina che Darwish rende omaggio ai grandi poeti e autori arabi del passato e di tempi più recenti, dal già citato Abū Tammām e al-Ma arrī, fino a al-Sayyāb, Amal Dunqul, Salīm Barakāt, che fanno parte di un patrimonio universale che comincia da Omero e arriva fino a García Lorca.

Il legame tra il sentire poetico e la sua rappresentazione linguistica ha bisogno di radicarsi, in Darwish, in una geografia simbolica dove possa riverberarsi l’orizzonte culturale e identitario di pertinenza. Il modularsi del canto è segnato da questa origine:

Ritrovare la propria casa originaria in Palestina è, quindi, per Darwish, chiudere un cerchio per ricongiungersi con il proprio io e con quella patria di cui la storia ha cancellato l’esistenza e che ancora oggi, mentre scriviamo, lotta costantemente e invano contro l’oblio e l’indifferenza mondiali. Infatti, la dimenticanza e l’oblio non riguardano soltanto il poeta in quanto individuo, ma soprattutto il poeta in quanto parte di una “questione” collettiva. Nonostante la prospettiva abbastanza diversa da cui parte Darwish rispetto alle precedenti raccolte, non mancano i rimandi ai grandi temi della poesia palestinese da sempre presenti nella sua poetica. Primo fra tutti è quello della memoria che diventa un vero esercizio di resistenza e anche l’unica arma per chi è stato privato o continua a vedere minacciata, rischiando di perderla, la propria esistenza fisica, la propria identità, la propria storia. A proteggere il poeta dall’oblio sarà un altro simbolo importante della Palestina, l’albero di ulivo, in questo caso due ulivi secolari di nord-est in cui Darwish trova i semi del suo canto. Oltre a questi non mancano i riferimenti agli uccelli, simbolo di un anelito alla libertà e del viaggio: “il mio corpo è una piuma e uccello è la vastità”; e a quei cavalli “caduti dalla poesia” e “periti per le distanze”.

Si tratta di un’idea di origine che il poeta può solo immaginare, in quanto irredimibile lungo l’asse del tempo e violata dalla mano dell’uomo. Da qui deriva la capacità di cogliere dalle rovine dell’esistenza l’impulso vitale necessario a rifondare una geografia inviolata, quella dell’umano in grado di riconoscersi in uno sguardo innocente:

E abbiamo un paese senza confini, come la nostra idea
dell’ignoto, largo e stretto. Un paese…
quando camminiamo nella sua mappa si restringe per noi,
trascinandoci verso un tunnel cinereo, e gridiamo
nei suoi labirinti: ti amiamo ancora. Il nostro amore
è una malattia ereditaria. Un paese… quando
ci bandisce verso l’ignoto… cresce. Crescono
i salici e gli aggettivi. Crescono la sua erba
e le sue montagne azzurre. Il lago si allarga
nel nord dell’anima e nel sud spuntano le spighe.
Il frutto del limone brilla come una lanterna
nella notte del migrante. La geografia brilla
come un libro sacro. La catena delle colline
si fa un luogo di ascesa verso l’alto.
“Se fossi stato un uccello mi sarei bruciato le ali,” dice
l’esiliato
a sé stesso. Il profumo dell’autunno diventa
l’immagine di quel che amo… La pioggia leggera si infiltra
nella siccità del cuore e l’immaginazione si apre
alle sue sorgenti, diventando luogo, unico
e vero. E tutto da lontano
ritorna campestre e primitivo, come se la terra
si stesse ancora creando per incontrare Adamo, che
scende
al piano terra dal suo paradiso, poi dico:
“Quella è la nostra terra laggiù incinta di noi…
Quando siamo nati?

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