A vista d’uomo: su “La gentilezza dell’acero” di Alessandro Quattrone

Parlare della poesia di Alessandro Quattrone non è cosa facile, ma potrebbe soccorrerci Daniela Pericone con una sua lirica, dove si chiede “come possa fiorire, dal bianco, / variopinto mosaico d’amore.” (Dal bianco, Passo di giaguaro, p. 86).
Con la sua acutezza abituale, Daniela Pericone ha trovato – magari inconsapevolmente – la vera essenza della poesia di Quattrone, e non c’è nulla di meglio, come definizione della lirica quattroniana, che questo variopinto mosaico d’amore.
Vorrei fare una piccolissima precisazione o premessa. Non parlerò qui del libro come professore o come critico, né tanto meno come poeta; ne parlerò soltanto come un semplice lettore e cercherò di svelare con parole semplici quello che – almeno per me – è il mistero della scrittura poetica. È una specie di sciarada dove il mio intero – che è la gentilezza dell’acero – è un paesaggio. E io, lettore, mi ci avventuro, scopro in un angolo della pagina una porta ed entro. Non ci vuole molto, la porta è aperta, non devo scassinare nulla, solo prendere un bello slancio e aprirmi all’avventura, e soprattutto guardare. Già il titolo della raccolta con queste due parole potrebbe essere la porta d’ingresso. Il paratesto dice che in questo “mosaico d’amore” che è la poesia di Quattrone, due sentimenti, due luoghi dell’anima sono onnipresenti: la natura e la gentilezza, ossia due cose che nel mondo odierno vengono guardate con suspicione.
Una volta dentro il paesaggio, il lettore si lascia trasportare dallo sguardo del poeta, che conduce la danza. Seguire lo sguardo di un poeta ci consente di vedere, a nostra volta, delle cose che altrimenti non saremmo in grado di cogliere: nuvole, stagioni, fiori, farfalle, anziani, foglie, uccelli, alberi. Per esempio un acero. E la sua gentilezza. Ma, avverte Quattrone: “Non bisogna soffermarsi troppo / a guardarlo, perché c’è una bellezza / che non sopporta di essere posseduta / se non dalla brezza e dal cielo” (p. 44).
La bellezza non si imprigiona, la bellezza non si cattura o, se qualcuno riesce a catturarla – pittore o scrittore, musicista o uomo normale – è solo per un attimo fuggente, che dobbiamo e possiamo prolungare unicamente con l’aiuto della memoria, con i ricordi: “[…] vecchi amici che hanno fame / di passato […]” (p. 66).
Tuttavia si può constatare una certa ambivalenza in questo sguardo: da una parte l’insistenza rischia di essere esiziale, dall’altra l’indifferenza può uccidere questi esseri viventi, questi “amici sconosciuti”, per citare un titolo di Jules Supervielle, che, in parte, abbiamo già elencato: “Se volgi altrove lo sguardo, / le cose si lasciano andare / alla loro esistenza malata […]” (p. 46). Ambivalenza che ritorna appunto con tutto il lessico o il sentimento di minaccia che si legge tra le righe (ma non troppo tra). Non a caso una delle sezioni del libro parla di “amuleto smarrito”.
Quindi il benessere della passeggiata in questo paesaggio lirico rischia troppo spesso di essere intaccato dal malessere.
Ma tutti gli elementi disforici vengono distratti dalla bellezza silenziosa degli amici (l’amuleto-empatia sicuramente) e il lettore può procedere serenamente. La poesia di Alessandro Quattrone è una poesia amabile, in un mondo che ha dimenticato il senso di questo aggettivo (“l’oltraggiosa indifferenza delle strade / al nostro bisogno di sosta […]”, p. 84) perché va di fretta, troppo di fretta, e si chiude nel proprio individuale egoismo. Forse sta proprio lì il segreto empatico della lirica quattroniana, questo sentimento della bellezza della natura, osservata, svelata e recitata dopo essere stata scritta, opposto a un mondo moderno distratto, aggressivo e a volte feroce nella sua brutalità.
Questa antitesi tra il punto di partenza dell’universo e quello di arrivo del poeta è sicuramente l’ingrediente che permette un’alleanza (una specie di risultanza-esultanza che il lettore scopre man mano che va avanti) tra anima e corpo, tra esseri e cose, tra sguardo e non detto, tra parole e versi. Senza grida, senza baccano (“Muoviti piano, non fare rumore, / muoviti al buio […]”, p. 100). Nell’insopportabile demenza della vita moderna ci conforta il fatto che un albero mormori il nostro nome (abbiamo ancora un nome come le cose, come gli esseri), ci fa voltare e fermare e ci offre la sua amicizia.
Il poeta Franco Arminio ha scritto, in un articolo del Fatto Quotidiano, che per guarire i malati bisognerebbe immaginare anche “un ministero dello sguardo” aggiungendo che i poeti devono necessariamente entrare nella categoria delle medicine dolci e alternative, come la musicoterapia. Così la poesia (significati e significanti: senso e musica) ti accompagna attraverso il paesaggio, rurale o cittadino, poco importa, e le parole del poeta diventano la giusta traccia per guidare i tuoi passi. Potremmo parlare, rispolverando un vecchio termine dannunziano sublimato da Gozzano, di vergiliato. Un vergiliato dove il buon ufficio del poeta mantovano è tenuto da Alessandro Quattrone attraversando paesaggi in una sorta di carrellata cinematografica, dove lo sguardo del lettore segue quello della sua guida. Entrambi guardano la luna e non il dito. È proprio questo sguardo intenso, questo modo di guardare il mondo, che rende ricca la poesia di Quattrone, entrare in profondità nelle cose per andare oltre. Se la bellezza non si coglie subito perché vi è un alfabeto da imparare, il poeta ci aiuta a cogliere l’essenza e la fragilità delle nostre esistenze, rafforzate proprio da questa bellezza colta, qua e là, nei diversi paesaggi che attraversiamo.
Ritroviamo nei versi di Alessandro Quattrone il paesaggire di Andrea Zanzotto e l’abitare poeticamente il mondo di Hölderlin via Heidegger; respiriamo lo stesso profumo intenso di transustanziazione laica con il mondo che ci circonda.
Seguiamo in questo vergiliato che è diventata la lettura della silloge il poeta con la sua andatura, le sue esitazioni, le sue certezze; ogni lirica apre nel cuore e nella mente del lettore una nuova strada da prendere, anche se ci sembra di riconoscere i luoghi, questa nuova passeggiata sembra differente e più accogliente: «[…] la felicità esiste / da qualche parte, e a volte ci sfiora […]», p. 59.
Così anche il lettore che attraversa la vita-paesaggio nelle tante domande che la poesia ha fatto nascere in sé, può approfittare, a sua volta, della gentilezza dell’acero che gli offre un po’ della sua ombra dove riposare e la sua bellezza come viatico necessario per assaporare gli istanti di pace. L’acero a sua volta prende il posto del poeta (anche qui vi è sovrapposizione o transustanziazione) e il vergiliato diventa arboreo. I passi di entrambi, poeta-albero e lettore, trovano infine il giusto ritmo per percorrere insieme le strade del mondo, non più ostile ma quasi rassicurante.
Leggendo la poesia il nostro sguardo diventa più profondo, le sensazioni si acuiscono, i sentimenti si abbelliscono. Questo è il segreto della poetica quattroniana. Persino il leggero disappunto perché il libro si conclude, lascia in noi un sentimento benevolo perché sappiamo che, se lo vogliamo, dopo la lettura, per fortuna, rimane la rilettura.
Infine, vorrei trattenere come quesito due punti che a mio avviso sono centrali: da una parte la bellezza e la disponibilità della natura, dall’altra il nemico. Chi è il nemico o, piuttosto, chi sono i nemici della Poesia? Dovremmo incominciare a individuarli meglio. Comunque diceva Paul Eluard “diciamo no a quelli che ci combattono”.
E infine il gioco di parole tra l’acero e lacero. Tra lo straccione e l’albero. Che comunque a sua volta dopo aver espresso al massimo la propria bellezza è destinato a lacerarsi. Come l’uomo?
Questi due quesiti sono per l’autore che probabilmente potrebbe anche obiettare che la poesia non dà risposte.

Entrare in un museo non per guardare
ma per essere guardati dai ritratti
di personaggi illustri consapevoli
della loro evidente dignità.

Entrare per sottrarsi ai volti anonimi
che assorti per la strada non ti vedono,
e apprendere che tuttavia c’è un modo
per conservare intatto anche uno sguardo.

 

*

La ruggine del cancello rosseggia
scura alla luce. Si sgretola
da secoli la pietra del castello,
si scheggia, raffredda la pace
dei muri, raggela la voce
del turista che austero accarezza
gli spigoli smussati, lisci, e sale
per scale strette, ripide, più in alto,
sulla cima della torre che sorveglia
la valle deserta di nemici.

 

*

Visto da lontano, il faggio
si distingue tra le piante
per il colore delle foglie
e per l’innocua potenza del suo impeto.

Non bisogna soffermarsi troppo
a guardarlo, perché c’è una bellezza
che non sopporta di essere posseduta
se non dalla brezza e dal cielo.

*
Il continuo vagare nel traffico
per le vie della grande città
di sabato pomeriggio, quando è tutto
una frenesia di acquisti e distrazioni,
la ricerca ossessiva di un parcheggio
libero, che ci liberi dal tempo
e dall’angoscia di non avere un posto
riservato nell’universo,
l’oltraggiosa indifferenza delle strade
al nostro bisogno di sosta,
fanno di un appuntamento una vendetta
che nessun nemico ha mai meditato.

 

*

Al grido degli oggetti
sobbalziamo allarmati:
ma non c’è pericolo,
tutto procede come sempre,
tutto è giuramento di pace,
promessa di qualcosa
che ci è sempre mancato.
E se gli oggetti gridano,
se gli alberi, i marciapiedi,
i cancelli, le panchine
rabbrividiscono all’eco
di un lontano tumulto,
non è il caso di allarmarsi,
non è il caso di sprecare
un batticuore:
dovremmo riservarlo
per la prossima parola d’amore
che a stento pronunceremo,
o forse a tradimento
ci sfuggirà mentre guardiamo altrove.

*
Se l’acero ti ferma
non è per disturbarti.
Se ti offre la sua amicizia
non è per solitudine.
Se ti chiede il nome
non è per dimenticarlo.

 

 

Alessandro Quattrone, La gentilezza dell’acero, Passigli, 2018

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