«Nell’attimo goduto/ Colgo l’eternità/ Nell’incompiutezza/ Vivo la perfezione/ Nell’indifferenza/ Di tutti gli orizzonti/ È possibile la trasmutazione», versi rivelativi di Alessandro Camilletti scelti dalla raccolta “Vivo e invisibile”, poesie 2009 – 2023, pubblicata da “peQuod”. «Vivo e invisibile è la chiusura di un cerchio, di un percorso artistico iniziato nel 2009. La silloge è costituita infatti da una selezione di liriche scritte nell’arco di quindici anni, molte delle quali già edite come testi del progetto musicale “Psycho Kinder”», dichiara Camilletti. Questa poesia, leggiamo nella nota introduttiva di Giampiero Neri con il quale conveniamo, “si caratterizza, alla prima lettura, per una sua pronuncia seria, ferma e insieme energica, che non si cura dell’ornamento e mira all’essenziale. Rilettura dopo rilettura, si rimane sempre più ammirati e consapevoli della sua forza”. Camilletti percuote l’anima, focalizza «l’eterno conflitto/ dell’indivisibile/ in cui l’uomo/ si smarrisce». Immortala il presente universale puntellato dalla solitudine come da eccessivi «protocolli», dalla «marcia violenta/ dei nostri disordini», dalle «infinite ripartenze», dall’indisciplinato «tutto e subito», dallo «strazio di giorni non vissuti», da «un magma di pensieri» inesprimibili. Rifugge il «guinzaglio», le «giornate fotocopia», il livellamento, la diffusa (e riflessa) «banalità» (e, con essa, il male che ne consegue), invitandoci alla consapevolezza, ad allontanarci, «Dalla libertà di essere liberi/ Non più di mezz’ora al giorno/ (salvo imprevisti)».
Qual è stata la “scintilla” che ha portato il tuo “Vivo e invisibile”?
Vivo e invisibile è la chiusura di un cerchio, di un percorso artistico iniziato nel 2009. La silloge è costituita infatti da una selezione di liriche scritte nell’arco di quindici anni, molte delle quali già edite come testi del progetto musicale Psycho Kinder.
Nel “chiarore di una penna”, le parole bastano alla poesia?
Le parole possono essere strumenti potentissimi come inutili. Dipende molto da chi le pronuncia e da chi le ascolta (Gorgia affermava che “se anche qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile agli altri”). Così come un dipinto che a un certo tipo di pubblico può sembrare privo di significato, a taluni può trasmettere un senso metafisico o spirituale altissimo.
Qual è (o quale dovrebbe essere) la lingua ideale della poesia?
La lingua ideale dovrebbe essere quella che fondendo sensazioni e intelletto provi a indicare la verità.
La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica?
La forma è importantissima. I versi, a mio avviso, devono scaturire da un momento epifanico ed essere poi levigati con molta cura. Le parole vanno ridotte al necessario e questo può richiedere poche ore ma talvolta anche giorni, se non mesi, di decantazione.
Si può parlare di vera poesia quando sentiamo che l’ispirazione e il ritmo di un testo sembrino quasi possederci. Il ritmo è fondamentale. È ciò che caratterizza un rituale e che quindi ci connette al sacro.
Ad oggi, dove sei stato condotto dalla poesia? Qual è stato l’insegnamento?
“Conosci te stesso” penso sia il faro che guida da sempre chi intende la poesia come atto di ricerca e necessità di verità. Io sono sempre in cammino, convinto che ci siano diversi stadi di consapevolezza ma allo stesso tempo che la conoscenza umana non potrà mai giungere a un sapere definitivo. Ogni progresso materiale sembra privarci di qualcosa di spirituale o, più genericamente, di porzioni di “umanità”. Nel divenire, nella dimensione che abitiamo con i nostri corpi mortali, viviamo un gioco che è stato, è e sarà sempre a somma zero.
La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?
La poesia, così come la musica o l’arte figurativa, può essere una chiave d’accesso a particolari stati di coscienza, un ponte tra il visibile e l’invisibile.
Tuttavia trovo che buona parte della produzione contemporanea sia poco più di un esercizio di stile e che in alcuni casi testimoni più autocompiacimento e narcisismo che sete di verità o di metafore universali.
Un po’ come sta accadendo da diversi anni alle altre arti, avverto un decadimento qualitativo determinato dall’utilitarismo, dal commercio, da un eccesso di pubblicazioni.
Ci sono ormai migliaia di concorsi letterari, un infinito traffico di interazioni sui social (reciprocità talvolta imbarazzanti) e una continua ricerca di notorietà che poco ha a che vedere con ciò che – secondo me – dovrebbe portare gli uomini a scrivere (penso alle esistenze tragiche di Mandel’štam, di Trakl o di Pound, alla solitudine di Emily Dickinson, al sofferente esilio di Dante ecc.).
Naturalmente dal momento che si decide di pubblicare un’opera è del tutto legittimo che ci sia anche il piacere di diffonderla. Ma per una serie di meccanismi tristemente mondani ho la sensazione che le voci attuali più originali e autentiche siano spesso da ricercare ai margini.
“Viveva nell’orrore/ Per evitare errori”, con i tuoi versi per chiedere: la poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta?
La vita terrena per me è per sua natura un’orfanità incolmabile. Credo che tutti noi, più o meno consapevolmente, abbiamo qualcosa di irriducibile che desideri andarsene da questa dimora provvisoria e tornare “a casa”.
Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal tuo libro – (chiedo gentilmente di riportala) – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
“Non più fine, l’uomo
Finisce in protocolli.”
Ho scritto questo distico nel 2020, in piena emergenza sanitaria. Come tutti, ho vissuto il periodo legato alla pandemia con grande inquietudine.
Da un lato c’era il dispiacere per le sofferenze che tanti ammalati stavano provando e per chi perdeva o rischiava di perdere un familiare o un amico, dall’altro lato un profondo avvilimento nel vedere la vita umana ridotta a mero dato biologico.
Macabre dirette televisive in cui venivano snocciolati numeri su contagi e morti, assenza di un dibattito reale sui principali media, politiche di sicurezza talvolta ricattatorie e spesso controproducenti proprio per la salute e il benessere mentale, delazione da parte di cittadini terrorizzati, assenza di riti funebri dignitosi, scarsi aiuti alle attività commerciali più colpite dalle chiusure e altre aberrazioni mi hanno spinto a scrivere questi due versi.
Una società “tecnica” e sempre più razionale, nella foga di ottimizzare le risorse e di automatizzare i processi, rischia di perdere di vista le esigenze e le peculiarità che ci rendono “umani”.
Ho avvertito come tutto quello che abbiamo costruito con secoli di civiltà possa andare distrutto in pochissimo tempo e diventare un misero simulacro.
Trovo che questa poesia rappresenti anche la nostra attuale condizione di “numeri” immersi in una routine sempre più soffocante, tra eccesso di burocrazia e rigidi schemi comportamentali.
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Alessandro Camilletti (Recanati, 1982) vive a Montecassiano e lavora a San Severino Marche, presso un istituto di credito. Nel 2005 si laurea in Analisi delle politiche pubbliche con una tesi su Nietzsche. Dal 2009 è voce e autore delle liriche di Psycho Kinder, progetto musicale con cui tra il 2011 e il 2021 ha pubblicato in CD diversi album, EP e singoli, coinvolgendo musicisti di culto del sottosuolo italiano (come Lino Capra Vaccina, Deca, Maurizio Bianchi, Giovanni “Leo” Leonardi ecc.) e raccogliendo unanimi consensi di critica.
Per saperne di più su Psycho Kinder:
https://www.ondarock.it/italia/psychokinder.htm
https://www.dissipatio.it/postpunk-metafisico-psycho-kinder-camilletti/
la foto in copertina è tratta da una performance live eseguita al Circolo Dong di Macerata il 18/01/2025
(la versione ridotta di questa recensione-intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 05.05.2025, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).