Andrea Accardi , “la poesia è il tentativo di logicizzare un’incongruenza”

Andrea Accardi, nato a Cagliari nel 1984 è cresciuto a Palermo. Si è laureato in Letterature e filologie europee all’Università di Pisa nel 2008, e sempre a Pisa ha conseguito nel 2012 un dottorato in Letteratura francese studiando il dramma di Maurice Maeterlinck. Attualmente insegna Lettere alle scuole medie a Palermo. Fa parte della redazione del sito letterario Poetarum silva. Nel 2019 ha pubblicato con Ladolfi editore Frattura composta di un luogo, una narrazione in frammenti a cui presto seguirà, sempre con Ladolfi, Frattura composta di un nome. Piace introdurre la nostra intervista con alcune suoi emblematici versi da Nosferatu non esiste:

[…]

Da piccolo
guardavo la luce cambiare
tra le persiane, come uno strappo
di tempo che nessuno ricuce.
Nel buio ora sento i topi brulicare
sobbalzare, divorare tutto.
Bisogna dare ali
a questi topi.

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?
La mia prima poesia (in realtà la prima che ho considerato accettabile, e quindi un testo di meno di dieci anni fa) è legata a un cuscino che ho comprato a Bruges in un negozio di oggettistica varia. Sul cuscino era ed è ritratto un cane, un carlino nero e aggrottato, ma in abiti umani, serissimi, ufficiali. Tutti abbiamo presente questa tipologia di quadri, credo di tradizione britannica, che raffigurano animali in tenuta di gala e sbeffeggiano quindi i nostri ritratti alteri e in pompa magna. Una specie di corto circuito umoristico, in cui ho sentito subito qualcosa di strano e potente che sembrava avere a che fare con la poesia, e cioè lo sguardo minaccioso e opprimente dell’autorità (soprattutto interiore) messo a tacere, reso docile, addomesticato. Da quella rassicurazione improvvisa e folgorante è nato un testo intitolato “A proposito di un cane in livrea”, che è diventato anni dopo, insieme ad altri, il rovescio e l’appendice del libro che conosci, Nosferatu non esiste, che spero venga presto pubblicato, se non altro per smentire il titolo. Il cuscino ovviamente ce l’ho ancora.

Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?
Non c’è un dovere, si tratta pur sempre di una percezione personale strettamente legata alla mia esperienza e al mio gusto. Però mi capita spesso di ripetere tra me e me gli ultimi versi del quarto preludio di T. S. Eliot, “The worlds revolve like ancient women/ gathering fuel in vacant lots”, che ho conosciuto in due traduzioni, “anziane che raccolgono legna in spiazzi vuoti” o in “terreni da vendere”. Non so esattamente la ragione, ma è un’immagine che mi dà uno strano struggimento, forse perché l’io è presente solo come sguardo, e quegli spiazzi vuoti, desolati assomigliano a quelli che anche io ho intravisto, come tutti, magari da un vetro di finestrino, senza poi metterci piede. Sempre in quella serie di straordinarie poesie, i Preludes appunto, Eliot scrive anche: “si pensa a tutte le mani/ che alzano ombre scure/ su migliaia di stanze ammobiliate”. È questo che mi colpisce in lui come in altri autori, l’indagine sul quotidiano misterioso, sui “locali inibiti”.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?
In realtà proseguo la risposta di prima. Penso a un altro poeta classico del ‘900, Borges, e a una sua poesia molto bella che si intitola “Limiti”. A un certo punto in quel testo dice che a Sud c’è più di un portone logoro, vietato a chi parla “come se fosse una litografia”, e che abbiamo chiuso per sempre delle porte, ed esistono specchi che non ci rifletteranno mai. In un autore di questi anni che ammiro molto, Andrea Inglese, ho ritrovato un tormento/godimento simile, senza l’enfasi metafisica di Borges, quando scrive ad esempio: “Ci sono zone dell’appartamento/ inabitabili” oppure “Questi asfalti […] più misteriosi e fondi/ degli abitacoli delle auto in sosta”. In fondo è questo senso di esclusione e di estraneità rispetto alle cose e al mondo che ho provato a rendere nei due libretti in prosa che ho finora pubblicato, Frattura composta di un luogo e Frattura composta di un nome, che in parte realizzano una sorta di biografia dissociata, dove la scrittura segue gli spostamenti di qualcuno, un tu generico, all’interno di una mappa, in un contesto urbano ridottissimo e comunque non percorribile né conoscibile integralmente. L’ultima sezione del Nosferatu proponeva la stessa cosa ma su scala molto più vasta, in uno scenario di grandi città contemporanee, dove la nostra presenza spettrale vacilla e si perde, in una vampirica confusione della memoria e del desiderio.

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
Posso dare soltanto una risposta empirica e personale. Alcuni testi che ho scritto sono nati da un’immagine concreta, reale, che si presentava però da subito sotto il segno del paradosso, della contraddittorietà. Era già il caso del cane in livrea, ma ad esempio mi è capitato di fotografare – e scriverne di conseguenza – una porta murata al di sopra della quale era rimasta, consumata ma leggibile, la scritta “APERTO”. La poesia è stata quindi per me, in più occasioni, il tentativo di logicizzare un’incongruenza. Se però allargo l’immagine fino a farla esplodere, mi accorgo che l’incongruenza, lo scarto, il fuori sincrono riguarda il rapporto stesso che abbiamo con le cose e con il mondo, e la poesia diventa allora un modo e un linguaggio per provare a capirci qualcosa in più.

Quando una poesia può dirsi compiuta?
A me capita spesso di scrivere prima i finali. Quindi, rovesciando la domanda, mi chiedo più spesso quando una poesia possa dirsi… iniziata. Non è solo una battuta, intendo dire che per me i testi, quando riescono, lo fanno perché è arrivato il “loro momento”, in qualche modo li abbiamo già scritti, si è per così dire compiuta una necessità interna, che a volte lievita per anni. A quel punto la stesura vera e propria può durare giorni, settimane, o anche avvenire rapidamente.

La poesia necessita più di ascolto o di essere ascoltata?
Mi sfugge un po’ la domanda, e quindi vigliaccamente la salto.

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
Non pare che ne abbia uno, in effetti, ma questo, come è stato più volte constatato, sembra dipendere da ragioni meno estetico-letterarie che storico-sociali. In realtà ho scoperto in questi anni poeti straordinari, anche tra i miei coetanei o giù di lì. Talmente tanti che qui non ne nomino nessuno. Ed è quindi strano che una scena così ricca, articolata e stimolante si riveli in fin dei conti autofagica e chiusa in sé. D’altronde, se anche la poesia avesse una visibilità e un ascolto molto più larghi non riuscirei comunque a immaginare il suo incarico in termini sociali, ma questo è un limite mio. In effetti non lo percepisco come un problema.

La parola poetica per preservare la propria efficacia comunicativa deve “esprimersi” usando il linguaggio del tempo in cui nasce e vive?
Non credo che l’attualità di una poesia dipenda solamente e strettamente dalla lingua che si dà, e farla diventare la semplice cassa di risonanza delle parole “del tempo in cui nasce e vive” può risultare al contrario un’operazione stucchevole. Sono molti i fattori in gioco che fanno di un testo, di un libro di poesie una plausibile chiave di lettura del presente. E le zone più moderne della lingua hanno bisogno di essere riscattate da un progetto, una struttura, un’idea forte, altrimenti è inutile.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori a scegliere una tua poesia (citando la fonte) e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Allora, il testo che scelgo si intitola “La colpa” ed è nato quasi di getto, con Giudici nelle orecchie e confondendo apposta Kafka. Te lo propongo perché ha un finale che mi sembra dire qualcosa di importante per me, ma che io stesso non riesco a definire bene. Anche questa poesia è stata poi incamerata dal progetto successivo di Nosferatu non esiste, e il sentimento della colpa è infatti uno dei cardini su cui faccio girare la mia riformulazione ossessiva del vampiro. In effetti ho provato a fare di Dracula una specie di prototipo del nostro presente, una riflessione figurale, in versi, sul desiderio e sulle sue infinite mancanze. A questo proposito, ti dico anche, parlando di percorsi e allargando il quadro, che tutta l’idea del libro è nata a partire da suggestioni innanzitutto cinematografiche prima che letterarie, e in particolare dal Nosferatu di Herzog. In quel film c’è una scena in cui Harker assiste all’alba da pellegrino, tra le montagne, mentre fa a piedi la strada verso il castello del conte. Da lì ho subito pensato questi due versi: “Albumi d’alba, riflessi, screzi./ La trasparenza dei Carpazi”. Il libro è stato anticipato da molti frammenti di questo tipo, che hanno aspettato parecchio prima di poter essere inseriti in una struttura unitaria e ampia. Ma avevo anche già chiaro che altro materiale pregresso ed eterogeneo sarebbe tornato in gioco, come se in fondo non aspettasse altro che una figura centrale intorno a cui organizzarsi. Sul sito letterario per il quale scrivo, Poetarum silva, ho tenuto per qualche anno una rubrica assai diradata e irregolare, intitolata “Cartoline persiane”, dove immaginavo il ritorno ai giorni nostri dei persiani illuministi, con dichiarata riduzione comica e una sempre maggiore propensione a prendere fischi per fiaschi. La traiettoria del “mio” persiano, che toccava anche Palermo, la mia città, è stata così ripercorsa dal “mio” Nosferatu rivisitato, in una continua interferenza tra il biografico e il letterario. Non solo la nave presa dal maleficio non approda più in Gran Bretagna o in Germania, bensì a Mondello, ma proprio come in due di quelle cartoline il vampiro prima visita un luogo che dovrebbe essergli congeniale, e cioè la Cripta dei Cappuccini, ma se ne esce di fretta perché non sopporta la polvere; poi incrocia il Festino di Santa Rosalia, con la città in deliquio, e lo scambia per un effettivo ritorno della peste. Sono uscito un po’ di traccia rispetto alla domanda, ma era per dire come certi testi, nati con altre intenzioni, diventano poi l’anticipazione e il presupposto dei testi successivi, con i quali si organizzano insieme. Ecco “La colpa”:

LA COLPA

Ho sognato di avere una colpa.
Avevo fatto a qualcuno qualcosa,
da qualche parte, in qualche tempo.
In una grande stanza ossequiosa,
uguale a mille altre stanze
di uffici, consolati, conventi o ambasciate,
tutte le persone che avevo conosciuto nella vita,
se pure tra loro sconosciute,
mi indicavano col dito,
indicavano proprio me,
tra tutti i colpevoli
il più colpevole che c’è.
Io mi disperavo,
domandavo perdono,
se ho fatto qualcosa, non c’è stata volontà,
e se c’ero dormivo buono buono.
Visto che le facce diventavano minacciose,
rinunciai ad ogni coraggio:
“È stato K., l’ho visto,
si è trasformato in scarafaggio
ed è scappato sotto la porta.”
Così rassicurati, cominciarono ad uscire,
lentamente, come un corteo di paese.
Ma sentivo che sarebbero tornati,
o almeno così speravo,
perché senza quella colpa addosso
non avrei avuto più scuse.

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