Samir Galal Mohamed, “ai giovani consiglierei un approccio desacralizzante al testo poetico”.

Maestrie

Samir Galal Mohamed (Sassocorvaro, 1989, nella ph in copertina di Andrea Sanarelli) è un poeta italiano di origini egiziane. La sua silloge Fino a che sangue non separi compare in Poesia contemporanea. XII Quaderno Italiano (Marcos y Marcos, Milano 2015). Suoi testi e interventi appaiono regolarmente in riviste cartacee e on line. Attualmente vive a Milano, dove insegna filosofia e storia nelle scuole superiori. Il suo primo libro, Damnatio memoriae, è stato appena pubblicato – febbraio 2020 – per Interlinea Edizioni (Novara), nella collana Lyra Giovani a cura di Franco Buffoni.

Ci parli del tuo libro d’esordio? Qual è stata la genesi?

Dopo l’esperienza del Quaderno di poesia Marcos y Marcos (2015), ho ripreso a scrivere disordinatamente, e a pubblicare testi – online e su riviste cartacee – in maniera dispersiva. Una volta raccolti una dozzina di componimenti, mi sono confrontato con Franco Buffoni sulla possibilità di un mio inserimento in uno dei volumi della collana Lyra Giovani, per Interlinea. C’è poco da fare, e questo eliminerà dalla percezione collettiva parte della componente squisitamente disinteressata del mestiere dello scrivere, ma senza un margine di progettualità editoriale risulta incredibilmente difficile pensare e comporre poesia – almeno per me. Sì, si scrive comunque, per tenersi in esercizio e, soprattutto, per condurre la propria ricerca linguistica: tuttavia, sprovvisti di una destinazione, anche aleatoria, i testi soffrono almeno quanto chi li scrive di un vagabondaggio forzato. Non appena si è prospettata l’idea di una forma-libro, e che, per inciso, non corrisponde alla certezza della pubblicazione, allora ho intrapreso il lavoro di organizzazione testuale, severamente, ossessivamente. Del resto, non conosco nessuno che scrive una lettera non apponendo un destinatario.

Nella tua scrittura sembra molto presente uno stato di emergenza, “un diffuso stato di allarme”, per dirla con le parole di un poeta della tua stessa collana, Antonio Lanza. Quanto, questo, se è vero, influenza la struttura del tuo linguaggio, la sua forma e i contenuti?

Questo diffuso stato di allarme, questo stato di agguato perpetuo, prima di riflettersi sul linguaggio, si riverbera, anzitutto, sulla vita – evidentemente. Questi tempi interessanti – nella ormai celeberrima formula zizekiana – non hanno privato i suoi abitanti delle contraddizioni, delle angosce, della precarietà. Di recente, si è tornati a discutere di un articolo del Guardian del 2006, il cui titolo ammonisce causticamente, ma realisticamente: “Want to get rich quick? Don’t try writing”. Ora, se è vero che non si scrive per diventare ricchi, e velocemente, credo di poter raccogliere un sentimento abbastanza diffuso affermando che, al contempo, non si scrive di certo per aggravare la propria condizione sociale.

Cosa ti è più prezioso dell’infanzia, e se qualcosa di quegli anni pensi abbia dato corpo anche alla tua visione poetica?

In scrittura, l’infanzia, da intendersi in qualità di riserva presente del passato, è preziosa relativamente alla sua potenziale capacità di procurare dolore, o piacere. Durante la veglia, però, e cioè durante la vita attiva del presente al di fuori dell’esperienza della scrittura, l’infanzia riveste un ruolo non dico marginale, ma in parte inoperoso. Certo, questa irradia l’esistenza in ogni istante, le offre e rammenta pratiche e discorsi, ma all’essere umano contemporaneo non sono concessi troppi momenti di riavvolgimento e ruminamento. La scrittura (mi) serve anche a questo.

Rispetto all’insegnamento di filosofia e storia nei Licei, in che modo questo vivifica la scrittura in versi e invece quanto della poesia si trasferisce sul tuo approccio come docente?

Beh, in generale, immagino che un docente di filosofia e storia che possegga anche una formazione letteraria, e poetica, possa offrire agli studenti ulteriori strumenti di comprensione, e di critica. Questo, ovviamente, vale per tutti i docenti e le discipline. Per esempio: teniamo conto che, in Italia, la filosofia è insegnata specialmente in quanto storia della filosofia e dei filosofi, quindi i percorsi multidisciplinari e trasversali, con intrecci indissolubili tra scrittori, artisti, scienziati, filosofi ed eventi della storia, dovrebbero essere fortemente perseguiti e incoraggiati. A volte, poi, sottopongo all’attenzione degli studenti un mio testo in maniera anonima, oppure celandolo dietro a un nome fittizio, e chiedo loro di commentarlo. Sono spietati.

Cosa consiglieresti ai giovanissimi che intendono avvicinarsi alla poesia?

Consiglierei di pensare alla poesia come a uno dei tanti, tantissimi, linguaggi praticabili; consiglierei, per quanto possibile, un approccio desacralizzante al testo poetico. Occorre invitare alla presa di confidenza con l’oggetto-libro di poesia come se si stesse maneggiando un qualsiasi altro prodotto culturale. Lo spessore – la rilevanza – di un prodotto culturale non è dato dalla sua categoria di appartenenza, o classificazione, né è dato una volta per tutte rispetto a quella stessa categoria. Poesia, ovviamente, non equivale a spessore, rilevanza, sacralità. Se i giovanissimi – come si sostiene da più parti – hanno progressivamente perso confidenza con la poesia, e con la poesia contemporanea, non si comprendono precisamente le ragioni per le quali, gli stessi, non l’abbiano persa con l’arte contemporanea, con il cinema contemporaneo, con il romanzo e, in certa misura, con il teatro. A scuola, di fatto, i giovanissimi leggono e studiano tantissima poesia. Mi chiedo allora se non si siano verificati importanti problemi di comunicazione e trasmissione del sapere poetico negli anni. Infine, suggerirei loro di seguire – visto che, oggi più che mai, è possibile grazie ai social e alle riviste online – i critici e la critica letteraria contemporanea. Ogni ambito ha i suoi specialisti, dunque mi pare ragionevole, anche per ciò che concerne la poesia, la letteratura e, più in generale, le arti, ripagare gli stessi con un modesto sforzo di attenzione.

Ti va di consigliare ai lettori dei libri significativi nel tuo percorso, sia per ragioni sentimentali, affettive, intime, che per ragioni intellettuali, speculative, filosofiche, esistenziali?

Più che una serie di testi significativi, raccomanderei – per i giovanissimi che non l’hanno ancora incontrato – un autore significativo, la cui opera è interamente significativa: non si tratta di un poeta, ma di Ludwig Wittgenstein, uno dei tantissimi che, in qualche misura, ha segnato la mia formazione intellettuale e morale. I suoi testi sono un compendio straordinario di ricerca del rigore cognitivo e linguistico, e di slancio morale. Nella sua opera troviamo il dubbio e l’angoscia, la volontà sistematizzante e la carica distruttrice, la severità metodologica e una freschezza mentale incomparabili. Un gigante illuminante e misterioso, sensibile e generoso, chiarissimo e oscuro: nell’esplorazione del suo corpus capita frequentemente di imbattersi in una pagina – una soltanto, magari, ma rigorosissima – sopra la quale si è destinati a trascorrere anni, a lasciar trascorrere anni. Un amico, fuori dalla portata, e per questo meritevole della nostra massima considerazione, di tutto il nostro affetto.

Potresti scegliere una poesia di un autore che apprezzi particolarmente, e una tua poesia alla quale sei particolarmente legato?

Ho deciso di proporre una notissima quartina tratta da La via del rifugio (libro omonimo, 1907) di Guido Gozzano, un autore che ho letto e amato moltissimo da ragazzo. Questo poeta periferico, trattato indegnamente, con il suo provincialismo sobrio, la sua ironia discreta, ha costituito una presenza tiepida, amicale, attraverso la quale, negli anni, ho cercato rifugio – senza mai trovarlo pienamente – dalla provincia. «Ma dunque esisto? O strano! /vive tra il Tutto e il Niente / questa cosa vivente / detta guidogozzano!». Infine, c’è un testo, nel libro, che credo possa sintetizzare felicemente l’intervista. Qui ricorrono, con intensità diverse, luoghi a me cari, la dimensione dell’infanzia, quello stato di dolore in quiete al quale si è fatto cenno, un’espressione spinoziana ripresa da Wittgenstein, il filosofo austriaco stesso, ed è, eccezionalmente, una poesia composta di getto, in alcuni minuti – evento più unico che raro nella mia pratica scrittoria.

Dalla casa di famiglia

Dalla casa di famiglia in cui siamo tutti morti,
la sola in cui io riesca ancora a riposare,
separata com’è dai fatti del mondo.

Percorro il paese nel tempo di questa poesia:
coglierlo in volo sub specie aeternitatis,
trovare ristoro nelle particole non consacrate.

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