Angoscia (Voce per una enciclopedia psicologico-poetica)

nicola-ghezzani

lo scrutatore d’anime

 

L’angoscia del cuore e della mente

La parola «angoscia» deriva dal latino anguis, che significa «stretto», cui è connesso il verbo angere, «stringere». In prima battuta, dunque, una riflessione (etimologica e psicologica) sull’angoscia suggerisce che la vita ha bisogno di spazio, uno spazio che consenta i movimenti vitali e con essi la crescita e lo sviluppo. E suggerisce che, qualora questo spazio sia negato, qualora si riduca di dimensioni, si stringa e stringendosi costringa l’individuo che lo abita a stringersi con esso, allora la vita soffre, patisce e si sente vicina al suo opposto: alla morte. L’angoscia è il sentimento che prelude all’intuizione della morte. Quante persone avvertono con questa drammatica intensità che la propria vita e la propria mente sono venute a trovarsi in un vicolo cieco esistenziale ed ora languiscono in preda appunto all’angoscia, in un paesaggio del cuore in cui tutto appare fermo e sembra che non esista alcuna via d’uscita? E quante altre ancora, pur non avendo mai sviluppato una coscienza di questa condizione di prigionia, ne vivono tuttavia i sintomi, cioè le conseguenze, e sono come animali colpiti dal fulmine (secondo un aforisma di Eraclito), stupiti e ammutoliti di porsi per la prima volta domande sulla compiutezza della propria vita e sul grado effettivo della propria libertà? In quanto intuizione della fine della vita (cioè della fine di quella libertà che ci fa sentire vivi), l’angoscia è strettamente collegata all’ansia e al panico. All’ansia, perché l’ansia segnala l’avvistamento di un pericolo e l’angoscia a sua volta è il segnale del pericolo più temuto: la morte. Chi ha disposizione a provare angoscia vive infatti in un’ansia perpetua; l’ansia è lo sfondo sul quale a tratti appare, lampeggia, la figura carica di senso dell’angoscia. L’angoscia è altresì vicina al panico perché talvolta con essa si materializza, diviene concreto, l’oggetto temuto: l’idea della morte, di un «nemico» che si accinge a strapparci il cuore dal petto, a succhiarci via l’anima dal corpo soffocandoci. E questa materialità del nemico può produrre panico, terrore puro, la perdita di controllo sulle reazioni corporee. Del resto il termine medico «angina» (sia nella sua identità semplice che in quella complessa, come in angina pectoris) ha la stessa radice: àngere, stringere. E risalendo alla lingua greca, se àchos è appunto angoscia, agchòne (leggi: anchòne) è il laccio che stringe e soffoca. Sicché l’angina è quella sensazione di restringimento della gola che accompagna il soffocamento e, come angina pectoris, è quel senso di angosciosa oppressione al petto, di costrizione fatale, sovente accompagnata da emozioni di angoscia e di panico, che può anticipare il grave insulto cardiaco.    

Il segno del serpente

Fin qui, dunque, l’angoscia segnala l’intuizione del restringimento, della limitazione delle facoltà vitali, per cui l’esplicazione della vita e della libertà (di agire, di pensare, di amare) che la fa stare nel mondo viene gravemente mutilata e minacciata di scomparsa. Riconoscersi e persistere in un «senso chiuso», in una condizione esistenziale senza aperture sul desiderio e sulla trasformazione, rischia di uccidere l’anima. Ma l’angoscia ha anche una strana parentela col serpente. Per citarne uno, l’angue è un serpente d’acqua. Risalendo nell’etimologia del suo nome, troviamo che anche l’angue trova le sue origini nelle antiche radici indoeuropee agh e angh che significavano appunto l’atto dello stringere e dello strangolare. Ed è da tale radice che derivano le parole greche echis, vipera e egchelis (leggi: énghelis) anguilla. (In tedesco, la vipera è unc, l’angoscia – di heideggeriana memoria – è angst). La parentela col serpente – indicata da questi antichi termini – è di carattere dinamico, nel senso che esistono serpenti i quali sono constrictores, ossia «stringitori», nel senso che essi avvolgono la loro preda in tenaci spire per soffocarla prima di inghiottirla. Ma è anche una parentela morfologica, legata cioè alla forma dei serpenti: essi sono stretti, sottili, e si muovono sinuosamente, per vie anguste e insidiose. L’angoscia, dunque, è anche il serpente che morde la vittima instillandogli il suo veleno, un micidiale composto chimico che paralizza i muscoli della respirazione provocando un’atroce morte per soffocamento. E in senso più figurato e poetico è – per lo stesso motivo – il ri-morso, la serpe che morde il cuore e l’avvelena col tormento della colpa. La gola ha uno spasimo incontrollato, l’alito vitale si blocca come un bolo al suo interno e non riesce a defluire, la sensazione di morte è spaventosa e istantanea. Il cielo si chiude, il tramonto s’immobilizza, si pietrifica, la notte non riesce a calare e il giorno non va più via; il mondo, ristretto in uno sguardo, pare divenire la bara del tempo. Angoscia vissuta nel corpo e angoscia vissuta nella mente, nell’anima. Nel cuore e nel cielo appare il segno del serpente. Coloro che vivono nell’angoscia (di natura ansiosa, panica o depressiva) scoprono presto che essa non è uno stato di natura, ma che deriva da un agente attivo, qualcosa di cattivo (un serpente…) che ha loro morso il cuore, che ha instillato il suo veleno. Un persecutore che li minaccia dall’interno – interno del corpo, interno della psiche. Ora, essi, le vittime, hanno qualcuno con cui combattere. Gli antichi ambivano controllare la potenza del terrore prima che si mutasse in angoscia. Terrorizzati dalla guerra, dalla potenza che sprigionava dalle loro e dalle altrui furie omicide, dalle urla terribili levate nell’atto della violenza assassina, si accorsero che il perfetto dominio della paura incute timore all’avversario, al nemico. Nacque così nel mondo greco-miceneo la figura di Medusa, la dea della guerra. Le labbra e le fauci sporche del sangue delle vittime trucidate, il volto di Medusa è sovrastato da serpi in perpetuo movimento che vivono sul suo cranio al posto dei capelli. I guerrieri imparano a incidere la sua immagine su elmi e scudi: hanno ormai dominato la paura, e scagliano contro il nemico – che tremi lui come un coniglio di fronte al cobra! – la loro fredda determinazione a uccidere. Hanno vinto il panico, sono fuori d’ogni possibile insorgenza dell’angoscia. Forse la ritroveranno da vecchi o magari da morti, se da vecchi saranno abbandonati, e quando saranno morti il loro nome non rifulgerà nella memoria dei posteri.                

Metamorfosi

Ecco insomma che l’angoscia trova le sue metamorfosi: da sintomo della minaccia e della costrizione, attraverso il segno del serpente – del suo veleno sottile e insidioso e del suo scatto micidiale – si muta nel suo opposto, in una vis polemica, una virtù guerriera, che restituisce all’individuo la pienezza della sua dignità. Col superamento dell’angoscia e il suo rivolgimento nel contrario, l’individuo scopre a quale vastità di comunione si destina colui che sceglie di essere libero. La soppressione, l’uccisione (più o meno simbolica) di ciò che limita la libertà personale, lungi dall’essere una mera cattiveria, un peccato d’odio, è – in queste e in altre storie – l’atto che porta il soggetto a scoprire nuove dimensioni dell’esistenza. La libertà si rivela allora come la vera e l’unica misura dell’amore.

L’anima libera è la più grande

C’è una poesia di Montale, intitolata all’anguilla, che è una delle più belle del secolo scorso. La vediamo l’anguilla, anguis come il serpente, mentre «risale in profondo, sotto la piena avversa, / di ramo in ramo e poi / di capello in capello, assottigliati, / sempre più addentro, sempre più nel cuore / del macigno (…) /». Si tratta di lei: «l’anguilla, torcia, frusta, / freccia d’Amore in terra / che solo i nostri botri o i disseccati / ruscelli pirenaici riconducono a paradisi di fecondazione (…) / la scintilla che dice / tutto comincia quando tutto pare / incarbonirsi (…)/ puoi tu non crederla sorella?». Sottile come i passaggi che è costretta ad attraversare, sinuosa come la sensualità stessa della vita, l’anguilla – nei versi del poeta – è la vitale rappresentazione della volontà naturale di rinascere allorché tutto sembra perduto. Laddove l’angoscia evocava il sentimento della fine, della morte, ecco che nella stessa famiglia di parole compare d’un tratto la vivacissima anguilla. La riflessione sulle radici etimologiche dell’angoscia ci rivela dunque quello che già Freud aveva descritto come Il significato opposto delle parole primordiali (1910). Nello scritto Freud ricordava come nel sogno non vi sia la rappresentazione del «no», dell’opposizione, la quale vi viene raffigurata attraverso un’immagine, talvolta un’immagine contraria. Nello scritto, giungeva alla conclusione che le parole fondamentali nascano grazie al senso di un contrasto e di un opposto, che quindi esse contengono una cosa e la sua contraria e che in principio solo l’enfasi con cui le si pronuncia o la loro collocazione nella frase le rendono intelligibili. Un esempio antico è quello di Varrone: lucus a non lucendo: la parola bosco (in latino lucus) deriva – dice lo scrittore romano – dall’idea che nel bosco non arriva alcuna luce. Un esempio attuale potrebbe essere in italiano la parola «mostro»: che pur significando una cosa negativa, tale da meritare d’essere nascosta, viene invece a mostrarsi e detta in un certo modo può al contrario esprimere un complimento: un mostro di bellezza, un mostro di genialità! Proviamo ad applicare la stessa logica alla famiglia di parole che stiamo qui esaminando, evocata in rapporto all’angoscia e all’angustia, ed ecco che il risultato ci premia. In italiano abbiamo una parola aulica per rappresentare la grandezza solenne di un luogo e insieme la grandezza d’animo di qualcuno (dunque l’opposto della ristrettezza di ciò che è angusto): quest’aulica parola è «augusto». Essa deriva dal latino augùstus il quale nasce sulla radice àug che è anche nel verbo àugeo, cioè «accresco» e, in senso figurato, «rendo insigne, grande, famoso»; la stessa radice che si incontra, in greco, nel verbo àuxo o àugso, che anche qui significa «accresco, innalzo, esalto». A sua volta, e sempre in greco, questa radice sembra essere implicata in augè: luce, splendore, raggio. Una breve ricerca ci spiega che la radice àug deriva dall’allargamento di ug e og che si trova nel sanscrito ogsvan e ogas, dove significa, rispettivamente, «forte» e «forza». Augusto, dunque, significa grande, maestoso, venerando, sacro – e per estensione significa anche forte e nobile. Sebbene il suo significato sia opposto, la somiglianza con le radici etimologiche che portano ad angustia e angoscia è impressionante. La miseria di ciò che è angusto e vive nell’angustia, si ribalta nel suo opposto ed evoca lo splendore ciò che vive nella grandezza della maestà e della luce ed è augusto! Infine, seguendo gli intrecci fraterni delle parole, accanto a questa nuova famiglia, troviamo anche «augure» – il sacerdote che osservando il volo degli uccelli e ascoltando il loro grido vaticinava il futuro –, anch’esso termine che deriva dal latino àugere, aumentare, cioè rendere augusto, consacrare. Scopriamo allora che gli auguri si ponevano in contatto con gli dei osservando in cielo (il vasto, maestoso, augusto cielo) il volo degli uccelli. Ed ecco la nuova rivelazione: «uccello» in latino è àuis (o àvis), da cui l’italiano arcaico augello. Così, grazie alla parola «uccello» (àuis), torna alle nostre orecchie il suono àu della radice àug. E uccello in sanscrito è vis, plurale vaias, e rimanda a vami, cioè «spirare», «soffiare», da cui il greco afo, che significa anch’esso «soffiare» e infine àetes per «vento» e il latino àer per «aria». Gli uccelli e il loro volo esprimono sin nel nome la loro parentale con l’aria e il vento, e si associano per estensione allo spirito o anima, che si considerava una sola cosa con il respiro che passa per i polmoni e che ci mantiene in vita. Attraverso la radice àug, dunque, che evoca l’espansione e la crescita, siamo risaliti fino al concetto dell’aria, l’elemento primo attraverso cui respirando ed espirando si percepisce la presenza o l’assenza della vita. E così torniamo al corpo e all’angoscia. Quel «ah!» che accompagna il respiro e, assieme, la contrazione che trattiene il respiro nei polmoni nell’atto in cui si teme di perdere per sempre l’aria che ci dona la vita, quella contrazione che lo sguardo di Medusa genera nella mente atterrita dalla potenza del nemico, è lo stesso «ah!» di gioia che esprime la liberazione dall’angoscia e l’estasi di chi vede la grandezza della vita libera o la propria stessa grandezza, iscritta una volta per tutte nel grande, sublime alito del cosmo. In sintesi: l’uomo che scopre la felicità d’esser vivo attraverso il piacere dell’alito d’aria inspirato coi polmoni, e che dà luogo a tutte quelle potenti esperienze che abbiamo ritrovato nei concetti di augusto, augure e augurio, fino all’espandersi dello spirito vitale e al volo degli uccelli nel cielo è lo stesso uomo che scopre che la contrazione del respiro e dell’anima per effetto della paura, contrazione avvertita come angoscia, la quale lo sommerge col presentimento della fine. In senso inverso, questo stesso uomo impaurito e angosciato può scoprire che l’atto meditato o violento che lo libera dall’oppressione è quello che lo porta a rinnovato contatto con la gioia della vita restituita a se stessa. Egli ha fatto sua la violenza subita, la ha assimilata e come un’arma l’ha rivolta contro il suo oppressore. E così, dalla costrizione dell’angoscia, siamo passati di colpo alla vastità liberatoria della gioia. Ogni anima deve trovare la sua giusta dimensione, il suo spazio; e se non lo trova soffre, patisce. E vive e si ribella e lotta per raggiungere con la libertà l’estasi dell’apertura, la gioia definitiva del pieno dispiegamento. L’anima libera è la più grande. 

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