“tre domande, tre poesie”
Qual è o quale dovrebbe essere (dal tuo punto di vista) la lingua ideale della poesia, la forma quanto incide sull’essenzialità della parola poetica e in che modo la vita diventa linguaggio?
Non penso che si debba scrivere guardando a una lingua ideale, con precetti stilistici cui aderire o conformarsi, ancor meno se intesi a seguire questa o quella linea poetica. La lingua non può che rispecchiare la personalità del poeta: la sua specificità si costruisce nel tempo della sua vita, dalla prima lallazione dell’infanzia alla parola stratificata della maturità, passando attraverso il filtro dei sentimenti e delle esperienze, della memoria e della conoscenza. Così la voce del poeta, nel gioco combinatorio tra le percezioni originate dalla realtà esterna e quelle del suo mondo interiore, si impone per la riconoscibilità del suo linguaggio. Tuttavia questo linguaggio, perché si tratti di poesia davvero compiuta, deve contenere una forza interna propulsiva, un lampeggiamento, un’intuizione in grado di spostare la linearità delle aspettative. In questo senso, e a maggior ragione, la forma, il significante è fondamentale e inscindibile dal contenuto: lo stile è la fibra del poeta, una trama inestricabile di lingua e vissuto.
La poesia è tale se diventa portatrice di una visione che non è individuale (bensì sovraindividuale); qual è la tua opinione in merito?
Il punto di vista del poeta, la sua messa a fuoco di un’esperienza o di un’idea hanno un portato irrisorio se rimangono limitati all’esercizio minimo del suo vissuto. Penso che nell’atto creativo sia imprescindibile quello che Susan Sontag descrive come «il desiderio di trascendere se stessi […] – nel senso che tutto ciò che si desidera e si rispetta acquista una dimensione morale quando assume le caratteristiche di un’arte, di un imperativo, di uno scopo o di un ideale». La poesia è un valore se il particolare diventa universale, se la visione è assunta come moltiplicazione di prospettive, se la parola è sostenuta dal sentimento di appartenenza a una condizione comune.
Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo “La dimora insonne” (perché questo titolo?); di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
Innanzitutto mi preme ringraziarti per questa occasione di dialogo e riflessione sulla poesia, e insieme ringraziare chi avrà voglia di leggere e stare per un po’ in compagnia dei versi. La dimora insonne è il mio ultimo libro, edito da Moretti&Vitali nel 2020. Il titolo del libro è anche l’incipit di una poesia, che a sua volta dà il titolo a una delle quattro sezioni in cui è suddiviso. La dimora è la porzione di spazio in cui ci sentiamo protetti, il luogo in cui scegliamo di sostare o permanere, un riparo che ciascuno edifica con i materiali più consoni al proprio temperamento. Per quel che mi riguarda, le parole della scrittura sono una consuetudine amata e necessaria, perciò la dimora può anche simboleggiare la lingua, alludere alla poesia stessa. È insonne perché bisogna essere disposti, per preservarla, a una cura vigile e presente, che non si arrenda all’avanzare del buio e alle ombre.
Ecco tre poesie, più di altre legate a questa visione.
*
La dimora insonne
consegue il suo silenzio
riposano le carte
mansuete – i suoi labirinti
sono roghi di penombra,
preludio d’ultimo
abbaglio, tenebrore.
*
Non oltre indugiare
al commiato, radunare
pochi resti, rasura di carte,
sembianti – ritrarsi alle rive.
Un albero una stanza
la saldezza dei monti
che ammansisce lo sguardo
alla neve, ancora trascrivere
il buio, i suoi trasalimenti.
Disporre dell’orma
che non trattiene e fuga
l’agguato dell’ombra,
negare l’istinto
di orfeo.
*
Era nato, aveva dita
minuscole e occhi sgranati
sporgeva dal bordo
del cuscino – l’espressione buffa
da adulto che la sa lunga – scorrevo
sul volto come un desiderio
volevo salvarlo – da chi da cosa
da che spavento? La stanza
era chiara, solo nell’aria
un disappunto a presagire
il salto nel vuoto – d’istinto
la mano scosta il bicchiere
dall’orlo del tavolo. Si vive
da esperti in cadute, senza avviso
o cautela che preservi, il tonfo
è un sasso nello stomaco,
un rimbalzo di uccelli alle pareti
– lo scacco senza eco, non prevista
la replica.
La poesia Era nato, aveva dita nasce da un sogno. Sognare a mio avviso ha a che fare sia col sonno che con la veglia; tra le molteplici facoltà della mente è la più libera, la più visionaria, la più autentica. I sogni non mentono mai. Sono la soglia che ci permette di affacciarci sul nostro abisso, senza precipitare, anzi offrendo l’appiglio di uno sguardo rivelatore sui nostri fantasmi. Tornando al testo, ai primi versi appare la figura di un bimbo appena nato (un adulto in miniatura), il cui ingresso nel mondo è colto da una prospettiva inusuale: «sporgeva dal bordo / del cuscino», vale a dire in una posizione precaria, come precaria, e fragile, è la vita di ognuno. L’io/soggetto lo osserva dall’interno di una stanza, in apparenza accogliente e luminosa, se non fosse per una minaccia sottesa da cui vorrebbe proteggerlo: il primo germe della paura di vivere, e di cadere («un disappunto a presagire / il salto nel vuoto»). Fin qui la descrizione di una scena precisa, benché portatrice di un’atmosfera onirica, poi una sorta di consuntivo sulla condizione umana, su un destino comune di cadute e fallimenti, di schianti senza preavviso, e soprattutto senza possibilità di replica. Imparare a vivere potrebbe significare diventare «esperti in cadute».
Daniela Pericone (nella foto di Antonio Sollazzo), è nata a Reggio Calabria. Ha pubblicato i libri di poesia Passo di giaguaro (Ed. Il Gabbiano, 2000), Aria di ventura (Book Editore, 2005), Il caso e la ragione (Book Editore, 2010), L’inciampo (L’arcolaio, 2015), Distratte le mani (Coup d’idée, 2017), La dimora insonne (Moretti&Vitali, 2020). È presente con poesie, prose e interventi critici su riviste, siti e blog letterari. È inclusa in diverse opere collettive, tra cui la rassegna Viaggio Meridiano, a cura di G. Lauretano, in «Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea», 7 (Raffaelli Editore, 2019), l’antologia Maternità marina, a cura di Silvia Rosa e Valeria Bianchi Mian (Terre d’ulivi edizioni, 2020). Sue poesie sono tradotte in diverse lingue. Cura eventi e reading con enti e circoli culturali. Scrive testi di critica letteraria e collabora a riviste e siti dedicati alla letteratura (L’EstroVerso, Laboratori Poesia, Poesia del Nostro Tempo).