Apnea: le ‘favole’ ironiche e surreali di Massimo Caccia e Alice Zanin

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Massimo Caccia, Senza titolo, 2015, smalto su tavola.

 

C’erano una volta le favole. C’era la volpe stizzosa che denigrava l’uva perché non era in grado di accaparrarsela e poi c’era la formica un po’ petulante che puniva la cicala per aver trascorso l’estate a cantare (cicala, confessiamolo, che aveva tutta la nostra simpatia). Erano gli animali personificati di La Fontaine, simboli di vizi e virtù umane, nati per insegnarci che cos’è bene e che cosa è male. Poi i tempi sono cambiati, e anche le favole. Così oggi nemmeno più i film della Disney riescono a separare il bene dal male. Ha fatto irruzione qualcos’altro: l’ironia. E l’ironia è un’arma interessante. Stimola il senso critico, risveglia il pensiero indipendente. Ecco allora le favole ironiche di un cantastorie dei nostri tempi, Massimo Caccia, e quelle leggere e surreali di Alice Zanin. Se resta del passato la personalizzazione dell’animale, per il resto tutti i punti di vista sono stati ribaltati. Che cosa ci insegna, ad esempio, quel pesce sfortunato che ha visto bene di mangiarsi un pesciolino attaccato a un amo? Che emozione ci comunicano i suoi occhioni spalancati dalla sorpresa in quell’oceano blu così ben definito nello spazio quadrato del dipinto, immobilizzato nelle campiture piane e nei contorni scuri? La lezione, forse, è che il pesce grosso, a furia di mangiare quello piccolo, finisce male? O magari che di tutte le situazioni bisogna guardare ogni angolazione per coglierle nella loro completezza? Massimo Caccia ci dà degli spunti, dei frame da una storia di cui si è già compiuto l’antefatto e di cui noi siamo invitati ad immaginare la conclusione. E’ una storia semplice, all’apparenza, ma in realtà densa di insidie e trabocchetti, una storia che si presta a mille letture diverse per ognuno di noi, perché ognuno di noi ha un vissuto che immancabilmente a questa storia si aggancia. E allora se il gorilla che fissa negli occhi il pesce rosso come un consumato ipnotista nella mia mente diventa un gioco di riconoscimento e di accettazione delle differenze, magari per qualcun altro ha significati completamente diversi. Così come la sventurata chiocciola che si trova a scivolare lungo un rasoio o la tartaruga in bilico sul muso di una foca. Quello che tutti hanno in comune è quel senso di sospensione, di apnea. Non solo per la perfezione estetica della tecnica, capace di creare una sorta di sottovuoto mentale, ma proprio per quei piccoli cortocircuiti tra animali o tra l’animale e l’oggetto. Quelle di caccia sono le fulminanti favole di un La Fontaine 2.0, create utilizzando l’ironia in dosi calibratissime e progettando architettonicamente piani e spazi. Immagini di una grazia ipnotica e sconcertante, specchi in cui, bene o male, si ritrova ognuno di noi.

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Alice Zanin, The Balloon, 2015, Cartapesta, tessuto, plastica, cera nera e materiale organico.

Forse l’identificazione non scatta con la stessa immediatezza davanti agli animali di Alice Zanin. Lì per lì siamo troppo presi dall’incanto. Quel senso quasi Liberty della stilizzazione, quell’estetica elegante e leggera ci rapiscono ancora prima della caccia al tesoro rappresentata dall’epidermide dell’animale che, anche quando è colorata, mantiene in trasparenza la materialità originale della cartapesta e dunque le parole – se si tratta di carta di giornale – o le immagini suggestive di una mappa geografica. La dimensione di queste sculture è quella del volo e così, librate, ce le presenta l’autrice. Appese al soffitto o montate in piccoli teatrini dell’assurdo sigillati in teche di plexiglas. Anche qui si crea un cortocircuito, ma se quello di Caccia è immediato come un calembour, quello di Alice è sottile e lento come la metafora di una poesia. Una poesia di André Breton, dove l’elefante levita sotto un vecchio paralume con le frange o segue il volo di un aereo; dove un ibrido tra un cavallo e un ippocampo sorvola due tazzine da tè; dove un’antilope rosa si lancia in un balzo da una sedia che sta in bilico sopra un mucchio di nidi d’uccello. Gli equilibri sono sempre precari, come se bastasse un soffio di vento a modificare l’istante, e questa consapevolezza ci lascia incerti, col fiato sospeso per la paura che anche il nostro respiro possa turbare la perfezione. Nelle teche quel pericolo è scampato: chiusi in un’apnea senza tempo, gli animali di Alice ci deliziano nella loro danza senza un senso, senza un perché, bellissima e incantevole proprio per quella sua perfetta assurdità.

In bilico tra sincerità e ironia, tra gioco e confessione, Alice Zanin e Massimo Caccia si raccontano così in questa intervista.

Perché avete scelto come soggetti gli animali?

Massimo: “Non è stata una scelta pensata. È stato quasi un processo naturale. All’accademia, oltre che sulla pittura, ho lavorato a lungo anche sull’ incisione e lo stile era molto sintetico. Mi è venuto naturale dunque cercare uno stile diretto e semplice anche nella pittura. Da qui si è sviluppata la mia tipologia di lavoro. Il protagonista dei miei primi lavori era un personaggio inventato, tutto giallo: una figura a metà tra umano e animale con una specie di becco. Ho lavorato per anni con questo personaggio e le situazioni che si creavano erano più umane che animali. Poi il lavoro è cresciuto, è cambiato e alla fine mi sono reso conto che per mettere in scena le dinamiche che mi interessavano, dei soggetti animali si prestavano molto di più rispetto alle figure umane. Creavano un cortocircuito più interessante proprio perché le situazioni nelle quali si trovavano erano, invece, tipicamente umane”.

Alice:All’inizio, da autodidatta, lavoravo la terracotta. Per circa cinque anni ho realizzato figure umane, erano bianche e molto allungate. Alla cartapesta sono arrivata in modo del tutto casuale: mi serviva realizzare un’opera (si trattava di un cavallo) molto grande e in poco tempo. È stato così che ho pensato all’anima in ferro da ricoprire con la carta. Quando ho visto il lavoro finito, il risultato estetico mi è piaciuto moltissimo e di conseguenza ho iniziato a lavorare sempre di più con la cartapesta. Ho mantenuto, dal punto di vista formale, l’allungamento della figura, e la struttura in ferro mi ha dato la possibilità di fare progetti molto più accurati per creare l’effetto che volevo. La scelta del soggetto è stata dunque parzialmente dettata dal materiale che ho deciso di portare avanti. L’altra principale motivazione attiene all’ironica connessione umano/animale che desideravo inizialmente imprimere al mio lavoro: la parola umana della carta da giornale a costruire animali senza parole. Procedendo in questa direzione potrei forse dire che da un ermetismo stampato e leggibile sto provando a crearne uno situazionale, in cui il travestimento delle superfici si trasformi in travestimento interpretativo”.

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Massimo Caccia, Senza titolo, 2016, smalto su tavola.

I lavori di entrambi, pur avendo nell’immediato un impatto visivo molto leggibile e per certi versi anche rassicurante, in un secondo momento lasciano un senso di spaesamento proprio per le situazioni che mettono in scena. Potete spiegarci come vengono pensate?

Massimo: “L’idea mi può venire in qualsiasi momento: da un viaggio, un libro che leggo, una frase che capto, una sensazione. Partendo da lì, la cosa che mi interessa è raccontare piccole storie. Storie aperte. Quindi congelo la situazione, il momento clou della narrazione. Il motivo per cui tutti i miei lavori sono Senza titolo è perché mi piace l’idea che quel fotogramma susciti un’interpretazione assolutamente libera. Lo spettatore dovrebbe domandarsi: come si è arrivati fin qui? E ora dove si va? Quello che fornisco io è un punto nel mezzo della storia.

Penso che i miei lavori si prestino a diversi livelli e a diversi tipi di lettura. A un bambino, magari, possono apparire rassicuranti (Massimo Caccia è autore di diversi libri illustrati per bambini ndr) e dunque lui ne dà una lettura, un adulto probabilmente ne dà un’altra. Qualcuno definisce i miei lavori inquietanti, del resto i piccoli cortocircuiti che creo mettendo in relazione due animali o un animale e un oggetto, sono proprio scelti perché mi piace creare situazioni che non siano tranquillizzanti. Il momento fermato nell’immagine è quello in cui sia il personaggio che lo spettatore restano col fiato sospeso in attesa di capire che cosa accadrà”.

Alice: “Io ho sempre lavorato sulla leggerezza. I lavori che considero più riusciti sono quelli sospesi. Per questo di recente ho cominciato a usare le teche, per poter riproporre questa sospensione e questa situazione installativa all’interno di un formato piccolo. Inoltre la teca si presta a un ulteriore scopo: creare una distanza tra il lavoro e chi guarda. Mi piace l’idea di lasciare lo spettatore perplesso e l’opera libera nello spazio è troppo vicina: la si può toccare, non c’è un filtro, un blocco. Io invece desidero che ci sia. A creare una presa di distanza sia fisica che mentale. Ed è una distanza necessaria perché anche nel mio caso sono situazioni in cui non è ben chiaro quello che sta succedendo. Se Massimo Caccia crea delle sospensioni del momento, delle piccole apnee, la mia si potrebbe definire più un’apnea interpretativa. Volutamente l’interpretazione non è fornita dall’opera o dal titolo, e forse proprio non vuole esserci. Le mie idee vengono come immagini visive e volutamente non le rielaboro completamente. Di fatto la prima ad essere stupita sono io. E lo rimango. Ecco, vorrei che di fronte all’opera lo spettatore guardasse con questo distacco mentale e si domandasse un perché. Non vorrei necessariamente che se lo spiegasse o che arrivasse ad una soluzione”.

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Alice Zanin, Baghdad let’s dance, 2015, cartapesta, cartine geografiche, pelo, lacca, cerchio di fuoco anni 20.

Vi sentite più dei cantastorie o dei cronisti della quotidianità?

Alice: “Una cantastorie. Ma una cantastorie situata nel teatro dell’assurdo… sono la cantatrice calva! Volendo suscitare una perplessità, la situazione umana è inscenata da un animale che spesso interagisce con un oggetto fuori contesto. O magari, se è in contesto, lascio al titolo il compito di tendere un tranello. Scegliendo di basare tutto in una dimensione di assurdo e di apnea, in ciascuna opera qualcosa è surreale o fuori dal reale. Io non amo la realtà e quindi, rifuggendola, l’unica altra dimensione che trovo è quella della storia”.

Massimo: “Mi sento un po’ in mezzo alle due cose, un po’ sospeso. Le mie sono un po’ favole raccontate e un po’ situazioni del presente. Diciamo che sono entrambe le cose: un cantastorie che racconta storie della quotidianità, comuni a tutti”.

Se doveste identificarvi in uno dei vostri animali, quale sarebbe?

Alice: “Non potrei mai realizzare l’animale che sento più vicino a me. Ci sarebbe poi una forma di imbarazzo nei suoi confronti…”.

Massimo: “Io mi riconosco nei miei lavori e credo di essere un po’ in tutti gli animali che dipingo. Mi assomigliano. La perplessità e lo stupore, in fondo, sono un po’ i miei”.

Alice: “Forse effettivamente anch’io mi riconosco in tutti. Perché sono tutti in bilico”.

*

A due anni esatti dall’ultima mostra insieme a Varese, Massimo Caccia e Alice Zanin sono di nuovo protagonisti alla galleria Punto sull’Arte di Varese di una doppia mostra personale dedicata agli animali – Inaugurazione sabato 7 maggio dalle 18 alle 21. Nata in parallelo con un’altra doppia personale – che nello stesso periodo vede Zanin e Caccia anche a Biella, a Palazzo Ferrero – questa mostra si snoda intorno alla riflessione sul nostro rapporto con gli animali, non tanto quanto altro da noi, ma piuttosto come riflesso delle nostre paure, delle nostre ansie e delle nostre idiosincrasie; attraverso due autori diversissimi per temi e linguaggi, sebbene simili nella scelta di un tono pop e di una decisa stilizzazione formale. Le giraffe, le zebre, i levrieri in cartapesta di Zanin raccontano una fisicità stilizzata fino quasi all’annullamento del sé che si traduce in una leggerezza soave. I musi allungati, gli arti affusolati, spesso librati in aria, improvvisano danze in installazioni lievi e fortemente concettuali che rimandano alla vita circense. Immediati, grafici, scanditi in cromie potenti, gli animali dipinti da Caccia regalano invece gustosissimi scorci di umana quotidianità. Colti in situazioni emblematiche, in simbolici dialoghi con oggetti incongruenti, sono lo specchio di quelle piccole e grandi frustrazioni di cui è costellata la nostra esistenza. Testi critici di Alessandra Redaelli; Edizioni Punto sull’Arte. 

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Massimo Caccia, Senza titolo, 2016, smalto su tavola.

Massimo Caccia nasce nel 1970 a Desio (MI). Frequenta l’Accademia di Brera a Milano diplomandosi in pittura nel 1992. Impegnato principalmente in ambito pittorico, espone in numerose mostre personali e collettive e in fiere di settore. Protagonisti delle sue opere sono animali immortalati nelle più assurde situazioni, posti in relazione con oggetti quotidiani su fondali uniformi, spesso monocromatici. Oltre a dipingere, crea titoli di testa per cortometraggi, disegna scenografie e realizza marionette. Nel 2001 realizza un’animazione per la campagna pubblicitaria natalizia di TELE+. Nel 2007 crea la graphic novel Deep Sleep (Grrrzetic Editrice), e nel 2009 inizia la collaborazione con la casa editrice Topipittori che porta alla pubblicazione di tre libri illustrati. Nel 2012 viene selezionato da Miroglio TEXTILE, per il progetto “Metri d’Arte” dove, lavorando a stretto contatto con i designer, realizza dei tessuti d’artista presentati in anteprima a Parigi in occasione di Premiere Vision. Attualmente collabora con il Corriere Della Sera realizzando illustrazioni per il supplemento domenicale laLettura. Nei tempi morti prende oggetti comuni (tavoli, sedie, divani) e li trasforma in animali. Vive e lavora a Vigevano (PV).

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Alice Zanin, P. Sarpi, Teatime in Chinatown, 2015, plexiglass, cartapesta, passamaneria, filo, smalto, resina, tazzine in ceramica.

Alice Zanin nasce nel 1987 a Piacenza. Autodidatta di formazione, sperimenta diversi mezzi espressivi fra cui anche la pittura, fino a scegliere di concentrarsi pressoché esclusivamente sulla tecnica della cartapesta a partire dagli inizi del 2012. Nella prima parte della sua produzione (la serie dei “verba volant scripta…”) l’autrice costruisce attraverso animali di parole un ironico discorso sull’idea di effimero, transitorio e mutevole al quale la componente verbale nel suo valore umano è assolutamente riconducibile. Raggiunge nel tempo risultati più minuziosi e raffinati eliminando le parti testuali dei quotidiani dalle coperture dei pezzi, allo scopo di ottenere superfici più lievi, come epidermici giochi di colore per mezzo di accordi cromatici tra le carte. Attualmente il lavoro dell’artista, pur restando a tutti gli effetti scultoreo, tende all’installazione soprattutto in termini espositivi, costruendo un dialogo tra opere e oggetti sulla base del registro dell’incongruenza o dell’associazione di idee. Le scelte quasi “automatiche” degli oggetti infatti, sovente, conducono ad un travisamento della loro convenzionale destinazione d’uso, ottenendo tra questi e il soggetto animale una relazione oscillante tra il reciproco imbarazzo e una galante ironia. Ha realizzato mostre personali e collettive e ha partecipato a fiere in Italia. Sue opere fanno parte di collezioni private in Italia, Austria e Venezuela. Vive e lavora a Podenzano (PC).

 

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