«Amore mio, nei vapori d’un bar / all’alba, amore mio che inverno / lungo e che brividi attenderti! Qua / dove il marmo nel sangue è gelo, e sa / di rifresco anche l’occhio, ora nell’ermo / rumore oltre la brina io quale tram / odo, che apre e richiude in eterno / le deserte sue porte? … Amore, io ho fermo / il polso: e se il bicchiere entro il fragore / sottile ha un tremitìo tra i denti, è forse / di tali ruote un’eco. Ma tu, amore, / non dirmi, ora che in vece tua già il sole / sgorga, non dirmi che da quelle porte / qui, col tuo passo, già attendo la morte!». L’antica e bellissima “Alba” nella quale – sovviene Zanzotto – è già scoperto il richiamo dell’eros/nebbia, schiude «Il ‘Terzo libro’ e altre cose» di Giorgio Caproni (Giulio Einaudi Editore). Una scelta di versi quasi interamente tratta dal «Terzo libro del Passaggio d’Enea» e che, come introduceva lo stesso autore nell’edizione einaudiana del 1968, vuole essere la ricostituzione di un volume che «mancò d’uscire al netto nella sua propria e precisa fisionomia, e che isolato e riorganizzato nella sua intima struttura, e infine tutto in sé concluso, mi piace oggi riconsiderare, con sufficiente distacco, come indicativo a me stesso della direzione – credo rimasta determinante – della mia ricerca negli anni che pressappoco corrono, piccole appendici e digressioni a parte, dal 1944 al 1954». Un libro che, come osserva Enrico Testa nella prefazione, «pare presentarsi come un arcimboldesco ritratto di Giano: guarda, da un lato, ad una fase poetica trascorsa e annuncia, dall’altro (e non solo con i pochi testi nuovi), le forme e le più rilevanti armoniche semantiche della produzione a venire». Un libro che, coniugando abilità metrico-stilistica a intelligibilità dei sentimenti, raffigura la “condanna” del poeta al cospetto della guerra («Io come sono solo sulla terra / coi miei errori, i miei figli, l’infinito / caos dei nomi ormai vacui e la guerra / penetrata nelle ossa!… »). «In una biografia non ricca di eventi qual è quella di Caproni – scrive Luigi Surdich nel saggio in calce alla raccolta -, la guerra è l’evento per eccellenza, l’evento assoluto, l’evento fondativo della sua poesia, dal momento che il dramma che più radicalmente investe la sua esistenza e che invade storicamente e psichicamente il poeta non si sottrae alla trasposizione letteraria». Una costante coscrizione, una chiamata alla scrittura («oh versi! oh danno!») la quale, specchiando la sciagura storica («anche nell’angoscia del suo incombere»), restituisce un Caproni che appare «oltre che il lucido e rastremato e geometrizzante poeta del vuoto e del nulla all’opera nei libri finali, anche un poeta dell’amore, della sua corporeità, desiderio e tensione». Ed ecco che irrompono in chiusura questi versi illimpidenti: «La terra come dolcemente geme / ancora, se fra l’erba un delicato / suono di biciclette umide preme / quasi un’arpa il mattino! Uno svariato, / tenue ronzio di raggi e gomme, è il lieve, / lieve trasporto di piume che il cuore / un tempo disse giovinezza – è il sale / che corresse la mente».
due poesie scelta da «Il ‘Terzo libro’ e altre cose» di Giorgio Caproni (Giulio Einaudi Editore).
DIDASCALIA
Fu in una casa rossa:
la Casa Cantoniera.
Mi ci trovai una sera
di tenebra, e pareva scossa
la mente da un transitare
continuo come il mare.
Sentivo foglie secche,
nel buio, scricchiolare.
Attraversando le stecche
delle persiane, del mare
avevano la luminescenza
scheletri di luci, rare.
Erano lampi erranti
d’ammotorati viandanti.
frusciavano in me l’ idea
che fosse il passaggio d’Enea.
(1954)
VERSI
La notte quali elastiche automobili
vagano nel profondo e con i fari
accesi, deragliando sulle mobili
curve sterzate a secco, di lunari
vampe fanno spettrali le ramaglie
e tramano di scheletri di luce
i soffitti imbiancati? Fra le maglie
fitte d’ un dormiveglia che conduce
il sangue a sabbie di verdi e fosforiche
prosciugazioni, ahi se colpisce l’ occhio
della mente quel transito, e a teoriche
lo spinge dissennate cui il malocchio
fa da deus ex machina!…Leggère
di metallo e di gas, le vive piume
celeri t’aggrediscono – l’acume
t’aprono in petto, e il fruscio, delle vele.
T’aprono in petto le folli falene
accecate di luce, e nel silenzio
mortale delle mobili cantilene
soffici delle gomme, entri nel denso
fantasma – entri nei lievi stritolii
lucidi del ghiaino che gremisce
le giunture dell’ ossa, e in pigolii
minimi penetrando ove finisce
sul suo orlo la vita, là Euridice
tocchi, cui nebulosa e sfatta casca
la palla morta di mano. E si dice
il sangue che c’ è amore ancora, e schianta
inutilmente la tempia, oh le leghe
lunghe che ti trascinano – il rumore
di tenebra, in cui il battito del cuore
ti ferma in petto il fruscio delle streghe!
Ti ferma in petto il richiamo d’ Averno
che dai banchi di scuola ti sovrasta
metallurgico, il senso è in quell’ eterno
rombo di fibre rotolanti a un’ asta
assurda di chilometri, sui lidi
nubescenti di latte trovi requie
nell’ assurdo delirio -Trovi i gridi
spenti in un’ acqua che appanna una quiete
senza umano riscontro, ed è nel raggio
d’ ombra che di qua penetra i pensieri
che là prendono corpo, che al paesaggio
di siero, lungo i campi dei Cimmeri
del tuo occhio disfatto, riconosci
il tuo lémure magro (il familiare
spettro della tua scienza) nel pulsare
di quei pistoni nel fitto dei boschi.
Nel pulsare del sangue del tuo Enea
solo nella catastrofe, cui sgalla
il piede ossuto la rossa fumea
bassa che arrazza il lido. Enea che in spalla
un passato che crolla tenta invano
di porre in salvo, e al rullo d’ un tamburo
ch’è uno schianto di mura, per la mano
ha ancora così gracile un futuro
da non reggersi ritto. Nell’ avvampa
funebre d’ una fuga su una rena
che scotta ancora di sangue, che scampo
può mai esserti il mare (la falena
verde dai fari bianchi) se con lui
senti di soprassalto che nel punto
d’ estrema solitudine, sei giunto
più esatto e incerto dei nostri anni bui?
Nel punto in cui, trascinando il fanale
rosso del suo calcagno, Enea un pontile
cerca che al lancinante occhio via mare
possa offrire altro suolo – possa offrire
al suo cuore di vedovo (di padre,
di figlio – al cuore dell’ ottenebrato
principe d’Aquitania), oltre le magre
torri abolite l’ imbarco sperato
da chiunque non vuol piegarsi. E,
con l’ alba già spuntata a cancellare
sul soffitto quel transito, non è
certo un risveglio la luce che appare
timida sulla calce. Il tremolio
scialbo del giorno in erba, in cui già un sole
che stenta a alzarsi allontana anche in cuore
di quei motori il perduto ronzio.
(1954)