APOTROPAICO
Me ne si faccia dono,
verrà mondo il mio viso.
Assecondo il prodigio
del verso apotropaico;
la parola fu data,
altro, non oserò.
Struscio carni di Muse
perverso nel Parnaso,
odo armonie di un dio:
l’occhio muoverà il creato!
E varcherò redento
sulle nuances d’aurore,
in sorrisi inebriato.
La parola fu data,
altro, non oserò.
EPILOGO
Ma voi concedetevi il beneficio
del credo: croce e chiodi all’avanguardia.
Venero il detrattore dello spirito.
È la volontà sovvertita in fede,
rifonda e incalza l’animo:
dal lemma ho l’alto riaggrappato, il cuore
svezzato dal losco credo, schiudersi
eterno sui sibili dello zefiro.
IL CANTO DELL’ETERNITÀ
Addio
ai drappi
di tutte le epoche!
Le brame
del primordio,
l’orfiche vie
fulgenti
seguitavo veglio.
Nelle prolifiche
fattezze
a te o anima
della dea
è cara l’ombra,
scinta dalle arimàniche
parvenze
il selciato d’afrori
mondani
si fa esente.
Addio
ai drappi
di tutte le epoche!
Ove eterni
slanci,
il tedio perpetuo,
agli orizzonti
immoleranno.
Benché i soli
prosciughino
l’ebbrezze,
eromperà trafitto
il rivo del
costato.
Addio
ai drappi
di tutte le epoche!
Origliamo
l’intangibile,
origliamo
l’impensabile:
non più le esequie
della gioia
ne le sbronze
eucaristiche
e ne le strambe
danze.
Dell’eternità,
il canto
oltre le vesti
senza pudore
udiamo.
Addio
ai drappi
di tutte le epoche!
NOZZE DI CANA
Nozze di Cana o Musa,
mia sposa ottenebrata;
tramutato è il sangue,
screziato s’è di china.
Nel seno posseduta
oscillava il tuo velo
strascico; sì randagia
sorte in cotanto zelo.
Orlo di rupe: a tergo
sovente il maestrale!
un sol gracile anelito
e via su, quale piuma
disciolta al bacio etèreo.
Tramutato ora è l’animo,
eterno sgocciolio:
come d’azzurro, petalo
gravito, decaduto.
VATE
Notte immensa teatrale:
la vegeta necropoli di stelle,
un invocare ai Dioscuri immortali
gli estri dissolti sui lattei sentieri.
SUPPLICHE DELLA NOTTE I
Sussurrerò nelle sperdute sere che il cielo mi è donna.
E lì, sulle più strambe ma pur lucide follie lambirò il
suo ignudo seno puntellato consumandoci come
granelli in un vento peregrino. Madre Venere, alta
lucifera, annuisci agli aditi per i tersi baccanali, su di
noi esuli di amori mondani.
SUPPLICHE DELLA NOTTE II
Io non ho mai fatto tesoro di nulla! Quindi ora non
sono che un veterano ignaro delle proprie contese che
osserva i volti rimbambiti delle metropolitane. Ah, la
mendacità di quegli abbracci inestricabili che faranno i
cappi ai loro stessi cuori! E per questo che mi sono
chiamato perverso nello spirito, perché la carne non
può conoscere peccato.
SUPPLICHE DELLA NOTTE III
Dopo che piovve il silenzio, insudiciato accantonai le
domande in un angolo del firmamento. E il sole
stranamente ripigliò a risplendere, sebbene la notte
fonda oppiasse le sue più lucenti veglie. Dio riprese
come consuetudine il suo scintillio.
Lettura di Dario Matteo Gargano
Una crestomazia potrebbe ancora riservare sorprese abbaglianti in un orizzonte poetico che quasi ormai s’è reso prevedibile e previsto in tutta la sua natura? Leopardi – o qualcun altro dei grandi nomi – non s’è ancora distaccato dal grembo febeo di un Parnaso esigente, e forse sarà fonte ispirativa eterna per molti aedi e anche figli di Orfeo. Per molti poeti, intendo invero “molto pochi”: e in questa congrega eletta e ristretta ricade l’estro compositivo di Francesco Conti, che potrebbe rendersi internazionale in veste di Francis Earls, così come Francis Bacon veniva volentieri italianizzato in Francesco Bacone. La statura compositiva evidente talvolta potrebbe manifestarsi anche attraverso il solo richiamo del nome. Ma in realtà, per scavare in questo giovanissimo autore è giocoforza leggerne con cura materna la carica espressiva, il magnetismo del logos stesso, presenti in ogni sua lirica. Originario di Niscemi un borgo che si distende in una di quelle lande quasi derelitte e ancora troppo indomite della Sicilia, Francesco Conti, ne diviene aperto spirito poetico atto a riceverne il magnetismo quasi nascosto, fino a manifestarne e cantarne un peana ora augurale ora crocifiggente, quasi alla Pieter Bruegel, nei suoi toni. Andrea Zanzotto o Dino Campana, potrebbero facilmente ritrovarvi in Francesco Conti un architetto appassionato e ammaliante del verso. L’esasillabo quasi molto costante in Apotropaico celebra il matrimonio magico del poeta con la parola, con il logos, che lo eleva in una torre d’Avorio quasi mistica, ora meditativa, ma piena di tensione, dove sembra risiedere una ricerca troppo dimenticata della musicalità geometrica del verso. Sì, e non è solo il senario il luogo di culto dell’espressione del Conti, ma lo stesso decasillabo, talvolta obbligato, a rendere aulica Epilogo, epitome quasi nietzscheana di un divenir poetico dell’artista. Lo stesso autore poi, esige libertà, una libertà scalzante che impera ne Il canto dell’eternità […] ove eterni/ slanci/ il tedio perpetuo/ agli orizzonti/ immoleranno […], così da ristabilire un affare esistenziale forse ancora non chiuso del tutto, anche se crudele e spesso inatteso, dove il poeta ora si ferisce, ora ferisce l’ostacolo stesso spesso piegato e fuso dall’incandescenza aulica della sua parola. Il corpo è la vagina dell’anima, scriveva il conte di Zenevredo nelle sue Note Azzurre, e adesso il Conti rende manifesta la tensione erotica femminile nell’identità del cielo stesso – per ammissione – sessualmente fatto donna in Suppliche della Notte I. Ci si potrebbe perdere e forse soffrire di una labirintite interiore e poi risalire attraverso un editto riscattante anche in numerosi altri versi, versi sapientemente architettati come fossero la riedizione di un canone policleteo trasposto in forma scritta e poetica. Ma rimane sempre il dubbio per cui valga la pena vivere, o morire in versi, per un certo verso. Questo l’invito alla lettura di Francesco Conti.