L’organo della poesia e la sua condizione di minorità: Alessandro Fo e Flavio Santi
In questa puntata di Chiedimi ancora ad essere messi a confronto sono due poeti che conoscono il valore della tradizione, traduttori e accademici, e per i quali scrivere e conservare memoria, dandole nuova occasione, sono operazioni indissolubili.
«Mi avviene spesso», dice Alessandro Fo, «di pensare alla poesia come a una sorta di organo – nel senso dello strumento musicale – dotato di innumerevoli registri: ognuno è la differente voce di un poeta. Quando poi tu suoni la tua musica, impieghi ora l’uno ora l’altro di questi registri, più o meno consapevolmente».
Flavio Santi confessa: «amo i poeti più in ombra, che il canone colpevolmente dimentica. […] La poesia è anche (o forse soprattutto) una condizione di minorità, sta dalla parte dei deboli, dei folli, dei diseredati».
Buona lettura!
Rossella Pretto e Marco Sonzogni
L’ultima opera poetica edita di Alessandro Fo è Esseri umani (L’Arcolaio 2018), è prevista per Einaudi (marzo 2021) la nuova raccolta Filo spinato; quella di Flavio Santi è Mappe del genere umano (Scheiwiller, 2012).
CINQUE DOMANDE AI POETI: ALESSANDRO FO (1955)
1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di “segno” che “s’innerva” e lo descrive con queste parole: “sangue tuo nelle mie vene”. Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?
Direi l’aspirazione alla bellezza.
2.
In una delle sue canzoni più celebri, the man in black, Johnny Cash, dice di aver visto un’oscurità (‘and that I see a darkness’). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?
Disgraziatamente, direi che ce l’abbiamo tutti i giorni davanti agli occhi: l’oscurità del cuore umano – cuore di tenebra. Non è facile scriverne dribblando la retorica. In un certo momento mi è capitato di soffermarmi a cercare di ritrarre quella bellezza di cui alla precedente risposta, per come mi sembrava di vederla in certi tratti di persone incontrate lungo i percorsi della vita. Rubando l’espressione alla Vita nuova di Dante, mi sono messo così a tentare di disegnare Figure d’angeli (ora per la maggior parte raccolte nella mia silloge Mancanze). Poco tempo dopo ho iniziato invece a sentire l’opposto bisogno di fermare nei versi le infinite varianti del male, da quelle di piccolo cabotaggio, a quelle più mostruosamente eclatanti. Con una venatura di sarcasmo, intendevo porre questa galleria cui aspiravo sotto l’insegna Esseri umani. Strada facendo ho dovuto constatare che l’impresa era superiore alle mie forze: non riuscivo – se non forse molto raramente – a dare veste poetica convincente alla denuncia di quelle storture. Del fallito progetto restano pochi tentativi che figureranno in una nuova raccolta (prevista per Einaudi nella primavera 2021), intitolata Filo spinato. Fra questi, la poesia eponima del vecchio progetto: un bruto elenco di queste clamorose iniquità che pure è stato ed è possibile, a «esseri umani» singoli o consorziati, perpetrare. La modalità è quella dell’apostrofe indignata rivolta da Primo Levi a tutti gli indifferenti di fronte a un’enormità quale la persecuzione degli Ebrei. È un lungo componimento che ahimè potrebbe registrare quotidiani aggiornamenti, ma per ora basta così. Questa linea di darkness è una delle puntute corde di ferro che si tenderanno, ma insieme ad altre (e anche a filamenti positivi), nel librino a venire.
3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente (“something about him seemed permanent”) e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi (“he transmitted something”… “and it gave me the chills”).
C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?
Ce ne sono stati e ce ne sono molti, in verità, antichi e moderni. E ciascuno dà «brividi» diversi. Mi avviene spesso di pensare alla poesia come a una sorta di organo – nel senso dello strumento musicale – dotato di innumerevoli registri: ognuno è la differente voce di un poeta. Quando poi tu suoni la tua musica, impieghi ora l’uno ora l’altro di questi registri, più o meno consapevolmente. Ultimamente, anche poche parole di Saffo mi sbalestrano in un universo sospeso e lontano che, pur nella sua terrena concretezza, sa di metafisico. Ma via via, da quand’ero ragazzo, mi hanno lasciato «brividi» perenni Dante, il Virgilio delle Bucoliche, Catullo, Guido Gozzano, Constantinos Kavafis. Tra i più recenti trovo Billy Collins. Alcuni poi hanno agito nella mia vita come veri e propri libri ‘da conversione’. Il primo e decisivo è stato un poeta ‘minore’ della tarda latinità: Rutilio Namaziano. Ero all’ultimo anno di liceo classico, e poco o nulla mi importava del greco e del latino. Ma toccava studiare per la maturità, e – all’epoca – bisognava scegliere, fra quelle sorteggiate dal ministero, una materia da ‘portare’ come primo e personale banco di prova. Italiano era troppo lungo, delle discipline scientifiche nulla capivo, filosofia era troppo pericolosa: scelsi latino. In parallelo, il mondo della mia adolescenza torinese si sgretolava, perché, dopo gli esami, tutta la famiglia si sarebbe trasferita a Roma. Pur se studiati per forza, i classici iniziarono una loro terapia: già la sapienza di Lucrezio e di Seneca… Ma poi lo studio della cosiddetta decadenza, con le sue atmosfere di sgombero… Finché non incontrai un mio alter ego: il poeta costretto (dalle invasioni barbariche) ad abbandonare la città che amava e trasferirsi altrove – con un viaggio d’inverno, su piccole barche, lungo le coste di un’Italia amata e straziata dalle scorrerie… Me ne innamorai, e diventai poi gradualmente un latinista – fino ad avere l’onore di tradurlo e commentarlo nella ‘bianca’ Einaudi.
Un secondo libro da conversione mi colse quando a Trieste, nel 1986, fra le occasioni di una libreria dell’usato, trovai un libro di Angelo Maria Ripellino che ancora mi mancava: Lo splendido violino verde. Lo comprai, lo lessi, ne rimasi folgorato: decisi che avrei sospeso tutto il resto e approfondito il profilo di quell’uomo, di quel grande poeta a tutto tondo (poeta in tutto ciò che faceva, dai versi – naturalmente – alla critica, alla didattica…). Per quali brividi? È difficile riepilogarlo in breve: la grandezza di un’anima, nella prestigiosa padronanza degli splendori del linguaggio.
Al di fuori dai nomi più ovvi (Petrarca, Leopardi, Shakespeare, Borges… tutti gli altri grandi riconosciuti e canonizzati), aggiungo come terza grande scoperta poetica un autore poco conosciuto: Enzo Mazza. Lessi per caso una recensione a un suo librino di liriche per il primogenito prematuramente scomparso in un incidente stradale (Trentatre poesie per Fabio). Vi colsi una grandezza di cuore e una capacità espressiva di levatura altissima. Tanto mi diedi da fare fino a che non riuscii a ‘scovarlo’, incontrarlo, conoscerne gli scritti. Ha trascorso tutto l’arco da quella prima disgrazia alla seconda e definitiva – la cancellazione della memoria in un lungo Alzheimer che l’ha ridotto al nulla fino alla morte – a scrivere poesie per quel figlio. Un’impresa realizzata con sempre nuovo vigore e sempre diversa modulazione (e affidata a edizioncine quasi private, difficilissime da reperire), che sarebbe stata veramente degna di un Nobel.
4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione (“he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation”) non soltanto con il suo comportamento sovversivo, ma anche attraverso la sua energia verbale (“He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy.”). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?
Ho in gran parte risposto con le righe che subito precedono: è, difatti, impossibile determinarsi come ‘libro da conversione’ se non si è in grado di trasmettere una corrente di altissimo voltaggio a un’altra mente, sia essa recettiva, o invece – com’ero io quando mi colse Rutilio – inerte quasi come il corpaccione di Frankenstein prima di avere la vita. A prescindere, però, dai nomi che ho già fatto, ritengo vi siano dei poeti che agiscono con particolare intensità già per il modo con cui si rapportano, anche formalmente, con l’uditore. Fra me e me li chiamo i poeti «dal piglio fermo». Uno di questi è Majakovskij, per esempio. Un altro è Walt Whitman. Ma collocherei volentieri fra questi anche lo stesso Dante dell’Inferno (l’incipit del XXXII, per esempio), o certe poesie di John Donne.
5.
Scegli una tua poesia e spiegaci perché ti rappresenta.
Sceglierei questa (ora nel mio Corpuscolo), perché è costruita attorno a un celebre motto latino (il carpe diem di Orazio) e quindi ‘include’ in qualche modo la mia identità di latinista, e perché rappresenta la generosa bontà di un conforto che sopraggiunge in un momento di difficoltà: la natura angelica – di nuovo – che si oppone a quella ‘demoniaca’ di tanti umani. E, in più, si chiude con un omaggio allusivo a una poesia di Ripellino (dalla raccolta Notizie dal diluvio, Torino, Einaudi, 1969, n. 13: «Perché sia la vita di nuovo una piccola musica notturna,/ qualcosa di tuo, non ferito da troglie seghette di rane,/ una piccola vita prativa con qualche lucciola […]»), che a sua volta chiama in causa uno ‘spirito della vita’ qual è Mozart (Eine kleine Nachtmusik):
Scarpe di Emma
Parliamo e già se ne sarà fuggito
nella sua invidia il tempo, volto a toglierci
queste minime gioie,
avvoltolarle e frangerle su scogli
come fossero flutti del Tirreno.
Ma, ancorché nere e tozze e religiose,
sbaragliano pozzanghere e entropia
per questi lastricati le tue scarpe,
monumento perenne: le famose
Scarpe di Emma. Come dire: il simbolo
di quanto, saldo, contrasta l’inverno
e impone il balenare della grazia che,
ferma e snella e rapida, si slancia
sopra i tacchi nel cielo,
innestando al coraggio la pazienza
perché, benché spaurita, sia la vita
di nuovo una “piccola musica notturna”
senza chiedersi quanto durerà.
CINQUE DOMANDE AI POETI: FLAVIO SANTI (1973)
1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?
Faccio un rapido elenco a caldo, evitando ogni razionalizzazione a freddo: mia moglie Chiara, il Friuli, il castello di Colloredo di Monte Albano, la terra carica di umori, la corteccia degli alberi (liber in latino è corteccia, libro e libero!), l’essenza di eucalipto (che in greco significa “ben nascosto”!) che inalo quasi quotidianamente – innocente droga che mi concedo, dai paradisi artificiali siamo passati ai paradisi nasali.
2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black, dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?
Per un certo periodo, scrivendo il mio romanzo gotico L’Eterna notte dei Bosconero, ho avuto la viva impressione di aver lambito il male. Periodo di incubi e voci che sentivo ovunque. Strane epifanie – come il fatto che avessi cominciato a scrivere a Ginevra, abitando davanti alla leggendaria Villa Diodati, dimora di fantasmi e vampiri, senza però saperlo. Ero vittima di una sorta di mesmerismo, chissà.
3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?
Sono molti, in realtà. W.H. Auden, Attilio Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Osip Mandel’stam, Massimo Ferretti di Allergia, amo i poeti più in ombra, che il canone colpevolmente dimentica. Dario Villa, Remo Pagnanelli, Amedeo Giacomini, ecc. In loro avverto la pepita d’oro dell’ispirazione più autentica e sincera – e si sa, le pepite possono rimanere sepolte per anni, decenni, secoli. La dedizione di Giacomini a un editore piccolo come Scheiwiller, o il caso di Cergoly, che ha scritto tra le più belle liriche sulla Shoah, e oggi sono completamente dimenticati, pochissimo letti, è commovente. La poesia è anche (o forse soprattutto) una condizione di minorità, sta dalla parte dei deboli, dei folli, dei diseredati.
4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?
Rimbaud credo che per me sia la sintesi di tutto ciò. Essendo impregnato fino alla radice dei capelli di cultura, sono molto sensibile alla natura, all’aspetto primordiale che con la cultura entra in relazione e cozza. Rimbaud che dorme nei granai, scrive luminose poesie in latino, macina chilometri e chilometri per le campagne francesi, salta su un tavolo e piscia durante una lettura di poesia, scrive quello che scrive, ama, odia, legge, va in Africa, ecc. Ecco, per me è la Poesia. (Se dovessi trovare qualcuno che va in questa direzione oggi, direi Simone Cattaneo, il già menzionato Amedeo Giacomini, Antonio Camaioni, tutte personalità di difficile gestione, certo, ma portatrici di poesia).
5.
Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?
Rimbaud di fango
ad Antonio Camaioni
Il Tempo deprecabile
dei capricci è finito.
Ora mi sono fatto
uomo. Sono sceso
in giardino, tra le pietre
focaie, a bussare tra le terre.
A cercare fango e
costruire una maschera di molliccio:
la chiamo Rimbaud. Calza il naso
sul naso, le orecchie su altrettante
orecchie, capo horn
del mento fatti più piccolo,
se vuoi ancora intimorire
ma anch’io lascerò la barca
vagare fra le rotondità facciali.
Improvviso
scatta un coltello a
togliermi il cuore.
Il sangue trascolora
in nebbioline, è siero
non epica, non ce la
permettiamo quella.
C’è qualcosa di
finto che suda e
si ammala, c’è
qualcosa di brusco
che concediamo:
magari la fioca sperequazione delle stelle,
i soldi delle costellazioni
messi in qualche altra banca.
La terra ha un mestiere
sempre davanti a sé: ecco perché
il fiore cresciuto
in salotto
tremerà e svaporerà;
ecco perché mi sparlo come fossi
un giardino di ringhiere e
di atomi. Ruggine dolcissima
tu che puoi fallo:
riducimi a istrice e a
scaglia, che io sia
la buona scala
rotta e precipite: e
che le lune siano
erpici e chiodi. Io voglio,
con la stessa sua imparità
(Dio mio, credimi ed esistimi
per queste poche righe future)
diventare pioggia, cane
arso, un po’ ramengo, onda
fangosa, le cose io voglio.
Che la mia
preghiera non sia come
la terra che mi regge.
Che la mia
non sia come temo
del tutto falsa.
Il poemetto è contenuto in Mappe del genere umano (Scheiwiller, 2012). Dedicato a un poeta folle, Antonio Camaioni, ex tossico, ex marinaio, ex tutto, che mi telefonava alle due di notte. (Sono convinto che lui, Massimo Ferretti, Remo Pagnanelli e altri ora ai margini, saranno nel canone futuro del 2300. La poesia non ha fretta. Pensate a Vincenzo Monti che alla sua epoca era “il” poeta, e adesso dov’è. Ma tanti sono gli esempi analoghi. Alla critica a volte rimprovero un po’ questa miopia, ma tant’è…)
Sacro per me è Rimbaud, se credo in un Dio, forse credo in Rimbaud dio della poesia. Gli dedicai pure un poemetto in friulano, Rimbò furlanut (in Rimis te sachete, Marsilio, 2001), e nel mio addio al friulano, Mandi, lo evocai/invocai.
Non posso vivere senza.