L’unica fotografia che ho, bambino, l’ha scattata mio padre. Avrò sette anni, sul maglione un enigma afgano – triangoli, losanghe, serpi stilizzate – e sorrido, come sempre, per respingere. Sono su un ponte di legno, il fiume, fermo, sembra una tigre – avrei voluto cavalcare una tigre, o scuoiarla, come Mowgli, il bambino della giungla. I boschi sono quelli della Val Formazza, in Piemonte: poco sopra il passo del Gries è lunare, scabro, come il cranio raso di un gigante, e i falchi, rari ed esatti, sono la sola idea di tempo. Mio padre aveva la passione per la fotografia – ha avuto la passione per Mao, quella per Gadda, per il clarinetto, per Valdesio di Lione, per Daisetsu Suzuki e per troppe donne. Mi veniva a prendere a scuola, mi portava in montagna. In un ripostiglio aveva costruito una camera oscura: quella fotografia l’ha sviluppata lui, in uno sbiadito bianco e nero. È una fotografia che ha profondità: sembra un calco, un’impronta. Quel bambino, innocuo, ora mi minaccia: è la sua innocenza, la sua ingenuità a tenermi sotto ricatto: sono mai stato quel bambino? La fotografia che ritrae mio padre, sulla lapide della tomba, è presa in quello stesso bosco. Mio padre ha la barba, il viso aperto dal vento, gli occhi chiusi. Bisogna vedere il proprio genitore fare l’amore, preso nella bestia, nel segreto, nudo come un dio, per carpirlo. Forse ho scattato io quella fotografia; forse mio padre pensava al bambino che viene, cavalcando la tigre, ed elargisce il nuovo mondo. Non so dire altro della poesia, non so se questa sia una poesia, tantomeno se io sia poeta.
dovrei – ma la cartilagine della gioia…
bilanciare la paternità sulle lapidi
perché la rivelazione è questa
i morti non amano – e noi li amiamo
per consolidare la vita e dare
un padre alle nostre scelte
«non ha merito la nascita
o percorre un perdono più profondo?»
con un coltello curvo come un orecchio
estraeva l’ugola dei morti dalle betulle
per rivendere generici ringraziamenti
*
Preferisco questo testo, comunque – non certo perché traduce tracce autobiografiche, per altro ipotetiche, ipnotiche, fasulle:
la pioggia oggi confonde i fatti e corrode il passato
rivela le spirali burocratiche delle radici – lacera
l’anarchia della neve – chiazze galleggiano lungo
le coste di fango come bandiere di regni fugaci e pacifici
– ma nei secchi l’acqua che scoppia sembra
una mungitura di stelle
le rocce hanno incavi sofisticati come un’emozione
e rendono indelebili i nostri scritti – è certo
abbiamo scelto i ritiri – immersi nella montagna
viviamo sul palato di un giaguaro che sogna
ogni stagione è un ghiacciaio – la richiesta un sopruso
la mia biografia è riassunta in una nevicata
sono più semplice dell’eco con cui la pietra
respinge le mie ammissioni – non ho la musicale
vastità di un prato – non ho il coraggio dei migratori
che equilibrano l’impero con la nuvola sono
meno complesso di una ragnatela e di un salto
questo nastro d’acqua – questo – che non avvia l’ingordigia
di un fiume nero e a cui non obbediscono le metropoli
o fiumane di greggi per me – per me – è il cielo
*
In genere, non so da dove vengano queste parole, queste immagini, perché, che senso e che valore abbiano. Le replico, come un ignorante, sulla superfice di un lago. Le prendo come un monito, un monile, un omaggio: per questo allineo alcune frasi – tra le moltissime – che abitano in me, non diverse dal dito anulare.
“Terra arabile del sogno! Chi parla di murare? – Ho visto la terra distribuita in vasti spazi e il mio pensiero non si distrae dal navigatore”
(Saint-John Perse, Anabasi, nella traduzione di Giuseppe Ungaretti)
“Scopo della creazione è il restituirsi,
non il clamore, non il successo…
Ma occorre vivere senza impostura,
vivere così da cattivarsi, infine,
l’amore dello spazio, da sentire
il lontano richiamo del futuro”
(Boris Pasternak, Essere rinomati non è bello, traduzione di Angelo Maria Ripellino)
“In alto scorreva il tempo, in basso scorreva il tempo, l’occulto tempo della notte, rifluito nelle sue vene, rifluito nelle orbite delle stelle, attimo connesso ad attimo senza intervallo, il tempo ridonato, ridestato, che supera il destino, che abolisce la casualità; sottratta allo scorrere l’immutabile legge del tempo, il perenne presente, nel quale egli veniva immerso”
(Hermann Broch, La morte di Virgilio)
“Qualunque cosa esista, disse. Qualunque cosa esiste nella creazione senza che io la conosca esiste senza il mio consenso”
(Cormac McCarthy, Meridiano di sangue)
“Dio esige sempre l’impossibile”
(Lev Šestov, Sulla bilancia di Giobbe)
“Dico e ridico e non dico niente”
(Veronica Giuliani)
“Mio padre era un incantatore di serpenti… E guadagnava bene. Perché le vipere, Monsignore, strisciano dovunque, senza contare quelle che si hanno nel cuore”
(Marguerite Yourcenar, Anna, soror…)
“La follia è la matrice della sapienza”
(Giorgio Colli, La nascita della filosofia)
“In seguito aveva errato in tutte le province chiedendo l’elemosina e praticando l’ascesi che fuga le passioni, tra boschi e montagne”
(Storia di Saigyo)
“Far finire questo mondo: consumazione da desiderare con devozione, giudizio universale”
(Norman O. Brown, Corpo d’amore)
“Nel caso delle carcasse di lupi della Moravia, è perfettamente verosimile supporre che i paleolitici abbiano avuto un’idea molto precisa sul valore religioso del lupo”
(André Leroi-Gourhan, Le religioni della preistoria)
“L’umanità ebbe origine, secondo la tradizione indigena, dall’emersione dal sottosuolo di uomini e di donne, una coppia, sempre fratello e sorella, che uscirono in una data località”
(Bronislaw Malinowski, Il padre nella psicologia primitiva)
“Inoltre, non ci si suicida da soli. Nessuno è mai nato solo. Così come nessuno muore da solo. Ma, nel caso del suicidio, ci vuole un esercito di esseri malvagi per decidere il corpo al gesto contro natura di privarsi della propria vita”
(Antonin Artaud, Van Gogh il suicidato della società)
“Era così vera la mia grandezza, così pura, così alta, così inespugnabile. Ero una fortezza, e non sono più che una città aperta occupata dal nemico. Ero grande, perché era tanto poco lo spazio che prendevo, nel mondo; ora sono l’ombra di me stesso, perché ho voluto essere un altro”
(Marcel Jouhandeau, Cronache materiali)
“Un singolare svuotamento di realtà rende larve uomini e cose”
(Romano Guardini, Lettere dal logo di Como)
“Lo psichiatra, a Reggio, che mi diagnosticò, forse sentendomi parlare, la definì mania dell’eterno”
(Clemente Rebora, Diario intimo)
“La tua lingua è contraria a quella di Orfeo: con la sua voce infatti egli condusse ogni cosa nella gioia”
(Eschilo, Agamennone)
*
Davide Brullo (nella foto di Simone Casetta) ha pubblicato, tra l’altro, i romanzi Il lupo (2009), Rinuncio (2014), Pseudo-Paolo. Lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro (2018), Un alfabeto nella neve (2018). Ha pubblicato le raccolte di poesia Annali (2004), L’era del ferro (2007), Abbecedario antartico (2017), Gries (2019). Ha tradotto i Salmi. Scrive di cultura per “Il Giornale”, ha fondato e dirige il quotidiano culturale on line Pangea; è direttore editoriale di Intellettuale Dissidente. Le cose migliori le tiene nascoste.