Da una soglia all’altra: rileggendo i primi testi di ogni libro

Ho studiato a lungo Montale. Quando lavoravo all’edizione commentata del Diario del ’71 e del ’72, facevo parte anch’io di quella schiera di «cani da tartufo» alla ricerca di interviste inedite, autocommenti, passaggi epistolari in cui il poeta spiegava i passaggi più criptici dei suoi testi. Mi piaceva indovinare le ragioni di una scelta testuale, capire a cosa o a chi riferisse l’autore in quella poesia, con quella sorta di morbosa curiosità in cui spesso eccede la critica montaliana. Poi mi sono stancato, sono diventato un insegnante liceale, e ho capito che agli studenti o ai lettori forse importa poco sapere chi si nasconde dietro il “tu” di La casa dei doganieri: interessa soprattutto capire perché quella poesia resta così impressa in mente, perché quelle immagini, legate a una figura assente e lontana (morta o viva: importa davvero così tanto?), risultano così potenti e cariche di senso, e perché quell’apertura finale verso «l’orizzonte in fuga» accende un lampo di speranza poi spento, negato dalla dimensione sonora e semantica della poesia (con quell’ultimo capolavoro di verso, «Ed io non so chi va e chi resta», che nessuno potrà mai dire di aver compreso del tutto). Ho capito, insomma, che il testo è più importante di qualsiasi apparato, e che bisogna fidarsi un po’ più della poesia e rispettare quel nucleo di feconda opacità e polisemia che tutte le opere d’arte contengono in sé (senza con questo screditare, naturalmente, i tentativi intelligenti di lettura e interpretazione).
Per questo faccio fatica a commentare i miei testi, anche se, certo, potrei dire molte cose su quasi tutte le poesie che mi è capitato di scrivere. Ma non ne ho molta voglia, perché da un lato a me pare che chi scrive sia la persona meno adatta per commentare le sue opere, se è vero che nella costruzione di un testo partecipa in qualche misura anche il nostro inconscio, la nostra ombra, forse dicendo cose che la nostra parte in luce non saprebbe dire o direbbe in modo opposto, o perlomeno molto diverso; dall’altro perché non credo che ciò che un autore può dire su un suo testo siano le osservazioni più interessanti, più giuste per comprenderlo, per leggerlo con intensità e profondità. Mi è capitato più volte, per esempio, di ascoltare o leggere interpretazioni di una mia poesia che mi hanno davvero stupito, rivelandomi cose che non sapevo o perlomeno non sapevo di sapere. Se chi ha pronunciato quelle osservazioni avesse ascoltato o letto un autocommento riguardo al testo in oggetto, si sarebbe sentito autorizzato a proporre quelle stesse parole sorprendenti? O non avrebbe forse pensato di dire cose senza senso, fuori luogo? Non lo so, ed è per questo che non sono convinto che l’autocommento sia sempre un esercizio utile e onesto.
Però Gianluca D’Andrea e Gabriel Del Sarto, amici e scrittori che stimo, mi invitano a declinare questo scritto attraverso la specola tematica dell’apertura al mondo. E questo mi induce a pensare. Perché in fondo credo che questo sia stato il tema fondamentale che ha accompagnato con più costanza il mio percorso di scrittura, il tema entro cui tutti gli altri mi sembrano confluire, insomma, perché la poesia non è altro, nella mia esperienza, che un corpo a corpo tra io e mondo, ed è proprio in questo rapporto che si accendono – o non si accendono – i testi.
Mi è venuto in mente allora un esercizio, che propongo a chi abbia voglia di continuare a leggere. Ripercorrerò i primi testi dei miei tre libri di poesia, Il mare a destra (2004), L’attimo dopo (2009), Il numero dei vivi (2015). Lo faccio perché ho sempre creduto (troppo?) nella costruzione del libro, nella sua dimensione macrotestuale, nel fatto insomma che ogni volume non sia solo una raccolta di testi, ma una costruzione, un tentativo di sfidare la complessità del reale anche attraverso un’ipotesi di struttura. E in questa costruzione, la prima poesia può rappresentare una sorta di chiave d’accesso, talvolta forgiata addirittura a posteriori, a libro concluso, per consentire a chi legge (ma anche a chi scrive) di percorrere il labirinto non dico con un filo, ma con un’indicazione.
Nei tre libri che ho pubblicato sin qui – il poemetto Uno di nessuno. Storia di Giovanni Antonelli, poeta meriterebbe un discorso a parte –, all’inizio parla una voce. A volte (Il mare a destra) le sue parole stanno tra virgolette; altre volte vengono accolte nel testo senza accorgimenti grafici. Cosa dicono, queste voci? Sono una sorta di confronto con la coscienza, credo, un tentativo di osservare dall’alto e a posteriori un capitolo di scrittura e di esistenza, cercando di individuare e forse predire un punto di svolta. Mi accorgo, mentre scrivo queste righe, che in tutti e tre i testi la voce usa l’imperativo o una formula analoga («Bisogna partire», «bisogna obbedire»). Profila dunque una specie di doppio movimento: verso il passato e quello che abbiamo vissuto e realizzato (umanamente, politicamente, ecc.), e verso il futuro, verso quello che dobbiamo ancora vivere e realizzare, in una tensione che travalica il presente. Si vede anche da qui l’inestricabilità di esperienza e poesia che credo caratterizzi i miei testi: forse a quella voce, come dirò, negli anni successivi poi ho davvero obbedito.
Ecco l’incipit del Mare a destra (2004):

«Il miracolo è che il cielo
non scivola di un dito, che il mare
non trabocca nella conca
su cui pende – questi colori,
che in un piano segreto della mente
sono cose, legano il nostro corso
a uno stupore che continua:
perciò dovete accorgervi
che è tardi, che c’è da condividere
il pane del linguaggio, la forza,
la fatica – stiamo nel minimo
tempo di un’eclisse: bisogna
partire una volta per sempre».

In un momento di grandi rotture, questo testo tracciava un’indicazione di percorso. Nasce su questa soglia, forse, l’apertura al mondo di cui parla questo scritto. La poesia ospita termini rischiosissimi e fraintendibili («miracolo», «stupore»), ma lo fa affermando i limiti e la materialità del mondo e della nostra vita. Era qualcosa che dovevo ridirmi e ridire, in quegli anni, così come la partenza definitiva dalle Marche, e la negazione dunque di qualsiasi ipotesi post-scatagliniana di Residenza, era per me la condizione necessaria per condividere «il pane del linguaggio, la forza / la fatica» con gli altri: la voce chiedeva di partire, di uscire dal grembo, di gettarsi – in un tempo in cui il confronto tra giovani scrittori era molto meno semplice e immediato di quanto non sia oggi – nella mischia e nella vita, fuori di casa. Sono gli anni convulsi e fecondi del primo «Atelier», quello diretto da Marco Merlin e Giuliano Ladolfi; delle prime riviste on-line; degli studi di dottorato a Pavia. Il primo testo del Mare a destra testimoniava l’inizio di una storia, e forse ne intravedeva già le prime crepe e i primi scacchi. Quelli che mostra la poesia successiva, la prima dell’Attimo dopo (2009).

Poi ci fu una scossa repentina,
e i muri cominciarono a frantumarsi
e a spaventare gli insetti che ci vivevano dentro.
Non c’è più lavoro, ci dicevano
sorridendo, non ci sono più affetti
capaci di farci amare queste sedie, queste mura,
il silenzio che si ascolta parlare solo quando
percepisci il tempo scorrere, o ricordi qualcuno.
Bisognava replicare,
fare in fretta le valigie stipandoci
i lampi della piattaforma, il profilo delle colline,
la camera a tre muri attraversata dai rintocchi,
la città sconfinata e le stanze di neve.

Viene ogni volta come un vento di mare,
perdono o condanna,
che ci fa salde le spalle e ci infiamma
di dolore, a cui bisogna obbedire, dire ancora sì,
mentre strappa i nostri volti sopra i muri che salpano.

Di che scossa si parla, qui, di che fratture? Questo testo è insieme lirico e politico, se vedo bene. Lirico perché parla dell’esperienza di un io, pur non nomimandolo mai, e tracciandone cripticamente le tappe biografiche: le valigie che bisognava riempire di continuo conservavano i lampi della piattaforma petrolifera e il profilo delle colline (le Marche), la «camera a tre muri» di Pavia (una stanza ricavata con un separé), un anno vissuto faticosamente a Roma («la città sconfinata») e i primi periodi di lavoro a Berna («le stanze di neve»), ma sono i motivi per cui i muri si frantumano il vero motore sovraindividuale di questa poesia. La «scossa repentina» è quella del lavoro che crolla, della precarietà che diventa condizione quasi naturale e irridemibile per una generazione intera, del nomadismo coatto che impedisce la costruzione di una vita di affetti stabili, di relazioni durature anche di natura o finalità politica (e d’altronde che la precarietà strutturale sia imprescindibile e funzionale alla corrosione sistematica di qualsiasi opposizione al turbine neoliberista è acclarato ed evidente a tutti). Volevo dire questo, con quei versi, volevo testimoniare lo strappo delle fotografie appese ai muri e il continuo terremoto sociale e psichico cui eravamo, siamo sottoposti, mentre il vento di mare che si levava alla fine del testo, restituendo ogni volta la forza di andare avanti, spirava forse da un luogo inesistente come quello in cui vivono le utopie.
Più tardi i muri sono addirittura salpati – chi ricorda l’immagine tremenda della casa galleggiante dopo il terremoto e lo tsunami del Giappone? – e la giovinezza è finita, nonostante il letargo della critica e di certa editoria che si ostinano a etichettare come «giovani» gli autori di quarant’anni e svariati figli (tabe tutta italiana).
Poi cos’è successo? Se lo chiedeva il testo che apre Il numero dei vivi (2015):

E poi? Pareti, porte chiuse, fumi che si disperdono,
d’accordo, ma dopo? Cos’hai detto
di tanto grosso? Che si muore?
Va bene, lo sanno tutti questo, però dopo?
Non dopo la vita: sono chiacchiere
da poco, quelle. Dopo-adesso, voglio dire,
dopo-prima, anzi meglio: durante.

Mentre sei qui che respiri e guardi i boschi che si inerpicano
sulle montagne di un nuovo orizzonte, oppure i picchi
di sempre, quelli azzurri e sibillini,

e gli uomini e le donne dei tuoi luoghi
li contemplano, anche quelli di un tempo
che non respirano più, ma percorrono senza requie
le strade del paese, balbettando come
balbettavano da vivi, o raschiando il catarro
quando ridono e tossiscono.

Tutte inutili, quelle voci?
Inutili come te, che scrivi per nessuno, o come le dita
di tua figlia che si allungano nel buio?

Non hai torto, non hai ragione.
Le foglie che il vento getta a terra qualcuno
le conserva. Qualcun altro le ritrova
dopo anni, e le colora.

Difendi questa luce, se sei un nulla
come tutti. Difendi questo nulla
che non smette di essere. Smetti tu di tirare
righe scure, di cancellare. Tocca il tavolo, la carta.
Impara un’altra volta a far di conto:
non sottrarre allo zero, aggiungi uno.

Poi nella vita di chi ha scritto questi versi si è aperto «un nuovo orizzonte»: quello di un nuovo Paese e una nuova città, di un lavoro stabile (miraggio irraggiungibile fino a pochi anni o addirittura mesi prima del 2012, per me) e di una figlia, annunciata dalle dita che si allungano nel buio di un’ecografia. Questo testo annuncia insieme un approdo e uno sperdimento, quello di chi – da immigrato, non da expat – vive l’esperienza definitiva dei “doppi altrove”: luogo di partenza e luogo di arrivo percepiti allo stesso tempo come familiari e inabitabili (non ancora o non più), case imperfette, contesti cui non si riesce ad aderire mai (o più) fino in fondo.
Però la voce che esorta dice anche altro: che occorre «scendere e cercare», come si legge in un bellissimo testo di Giorgio Cesarano della Tartaruga di Jastov che apriva già, in epigrafe, una sezione del Mare a destra, e che la tentazione del nichilismo, un po’ compiaciuta ed esibita nel libro precedente, va combattuta tentando di difendere e costruire i contesti imperfetti in cui viviamo, anche se si stratta di comunità provvisorie e friabili. Il «nulla / che non smette di essere» siamo noi, sono i vivi che ci circondano – una famiglia, una classe, un gruppo – e che pretendono cure e attenzione. Con loro, con il mondo occorre inevitabilmente entrare in relazione, per l’appunto, rinunciando al solipsismo e al culto della nostra squisita individualità: Il numero dei vivi annuncia l’esigenza di tornare a contare i vivi, le presenze che ci circondano e ci chiedono attenzione e aiuto, e contemporaneamente quella di ritornare a fare i conti con loro, rischiando di perdere qualcosa, o anche molto.
Il prossimo libro di poesia, se mai ci sarà (e se parlerà a qualcuno), mostrerà con più urgenza, forse, gli sviluppi di questa vicenda. O almeno questo è quello che mi sembra di vedere dalla mia prospettiva parziale di scrittore. 

 

nota bio-bibliografica

Massimo Gezzi (1976) ha pubblicato i libri di poesia Il mare a destra (Edizioni Atelier, 2004), L’attimo dopo (luca sossella editore, 2009), Il numero dei vivi (Donzelli Editore, 2015) e Uno di nessuno. Storia di Giovanni Antonelli, poeta (Edizioni Casagrande, 2016. Ha curato l’edizione commentata del Diario del ’71 e del ’72 di Eugenio Montale (Mondadori, 2010), l’Oscar Poesie 1975-2012 di Franco Buffoni (Mondadori, 2012) e le Poesie scelte di Luigi Di Ruscio (Marcos y Marcos, 2019). In Tra le pagine e il mondo (Italic Pequod, 2015) ha raccolto dieci anni di interviste ai poeti e recensioni a libri di poesia.  Coordina il sito letterario «Le parole e le cose 2». Vive a Lugano, dove insegna italiano presso il Liceo 1. A breve uscirà il suo primo libro di racconti per Bollati Boringhieri.

. ph tratta dal film Sacrificio (Offret) – 1986 – scritto e diretto da Andrej Tarkovskij, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 39º Festival di Cannes.

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