Gabriela Mistral, “Sillabe di fuoco”, (Bompiani Capoversi)

Gabriela Mistral, pseudonimo di Lucila Godoy Alcayaga, nacque a Vicuña, in Cile, nel 1889 e morì a New York nel 1957. Insegnante e pedagogista, con il crescere della fama letteraria iniziò a ricoprire numerosi incarichi di rappresentanza ufficiale presso varie istituzioni all’estero, fino alla nomina a console del Cile a New York nel 1953. Nel 1945 vinse il premio Nobel per la letteratura con questa motivazione: “Per la sua opera lirica che, ispirata da potenti emozioni, ha reso il suo nome un simbolo delle aspirazioni idealiste di tutto il mondo latinoamericano.”

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Oggi si legge poco Gabriela Mistral; la sua opera non sconta la pena nel purgatorio della letteratura, ma nel suo limbo. Questo oblio è un segno, un altro ancora, della fragile memoria storica dell’America latina. La poesia di Gabriela Mistral è una sorgente che sgorga tra rocce aspre in mezzo a un paesaggio freddo, ma riscaldato da un sole potente; dimenticarla è dimenticare una delle nostre fonti. Più che un’omissione della cultura, è un peccato dello spirito. Ma i lamenti e le imprecazioni sono vani. Ricorderò solamente che, tra gli scrittori ispanoamericani che vissero in Messico nei primi anni venti del Novecento, invitati nel paese da José Vasconcelos, allora ministro dell’educazione della giovane Rivoluzione messicana, Gabriela Mistral fu la figura di spicco. […]Uno dei segni della vera poesia è la presenza della prosa nel verso. Voglio dire: in certi momenti privilegiati, senza smettere di essere musica verbale, il verso acquisisce una densità che lo porta non a dissolversi nell’aria, ma a cadere al suolo, con una sorta di splendida fatalità, per interrarsi e dare frutto. È la legge della gravità spirituale della poesia. Alcune poesie di Gabriela Mistral, le migliori, sono una insuperabile dimostrazione di questa legge.

(da “IL PANE, IL SALE E LA PIETRA” – GABRIELA MISTRAL, 1889-1957 – di Octavio Paz. Premio Nobel per la letteratura 1990)

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Gabriela Mistral è un’artista del pieno Novecento da trasportare nel nuovo secolo: ecco lo sforzo principale di chi ne tenta il recupero e ne vuole tramandare la poesia e la poetica; e ciò soprattutto a fronte di un progressivo, carsico oblio che l’ha investita per decenni quando, per ragioni ideologiche oltre che critiche, la poesia cilena, e latinoamericana in generale, è stata incarnata prevalentemente da altre figure, tra cui spicca Neruda, allievo della stessa Mistral e maestro di una lirica sempreverde, verrebbe da dire “globalista”, sia per vocazione politica sia per declinazione di tematiche senza tempo (l’amore, la solitudine, la natura). Eppure la nostra autrice per una lunga stagione è stata una personalità di primo piano all’interno del panorama americano (e non solo), ha incarnato appieno il ruolo dell’intellettuale donna in un’epoca di relegazione del soggetto femminile, di pacifica emarginazione da qualsiasi partecipazione che non contribuisse alla prosecuzione della specie o, peggio, al sollazzo occasionale della componente maschile, anzi, machista del corpo sociale. E accanto al discorso culturale, non trascurabile è anche la sua influenza strettamente letteraria su almeno un paio di generazioni di autori, secondo una peculiare maniera poetica di cui pare giusto dare conto anche oggi. Si dice sempre che il Cile è una terra di poeti. È uno slogan, d’accordo, ma è davvero così, e non è un caso che il primo scrittore latinoamericano a ottenere il premio Nobel per la letteratura, all’inizio dell’ultima era postbellica, sia stata proprio Gabriela Mistral – poeta e donna – in un universo, come detto, per lo più dominato da un patriarcato che si è continuato a estendere dalla sfera domestica a quella pubblica fi no a buona parte del secolo scorso.

(da “RISCOPRENDO GABRIELA.UNA STORIA DI CONSAPEVOLEZZA, ENERGIA, FRAGILITÀ” di Matteo Lefèvre)

 

sette poesie da, “Sillabe di fuoco” di Gabriela Mistral, A cura di Matteo Lefèvre, con uno scritto di Octavio Paz, Bompiani Capoversi, 2020.

 

EL AMOR QUE CALLA

Si yo te odiara, mi odio te daría
en las palabras, rotundo y seguro;
¡pero te amo y mi amor no se confía
a este hablar de los hombres, tan oscuro!

Tú lo quisieras vuelto un alarido,
y viene de tan hondo que ha deshecho
su quemante raudal, desfallecido,
antes de la garganta, antes del pecho.

Estoy lo mismo que estanque colmado
y te parezco un surtidor inerte.
¡Todo por mi callar atribulado
que es más feroz que el entrar en la muerte!

L’AMORE CHE TACE

Se io ti odiassi, il mio odio ti darei
a parole, sicuro e risoluto;
ma ti amo e il mio amore non si affida
all’oscuro parlare degli uomini!

Tu lo vorresti trasformato in urlo,
ma viene dal profondo e ha dissolto
il suo bruciante fiotto, si è esaurito
ben prima della gola e anche del petto.

Io mi sento una fonte rigogliosa
mentre a te sembro un inerte zampillo.
Tutto per l’angosciato mio silenzio
che è più feroce che andare alla morte!

*

TRES ÁRBOLES

Tres árboles caídos
quedaron a la orilla del sendero.
El leñador los olvidó, y conversan,
apretados de amor, como tres ciegos.

El sol de ocaso pone
su sangre viva en los hendidos leños
¡y se llevan los vientos la fragancia
de su costado abierto!

Uno, torcido, tiende
su brazo inmenso y de follaje trémulo
hacia otro, y sus heridas
como dos ojos son, llenos de ruego.

El leñador los olvidó. La noche
vendrá. Estaré con ellos.
Recibiré en mi corazón sus mansas
resinas. Me serán como de fuego.
¡Y mudos y ceñidos,
nos halle el día en un montón de duelo!

TRE ALBERI

Tre alberi caduti
rimasero sull’orlo del sentiero.
Il taglialegna li scordò, e conversano,
stretti d’amore, al modo di tre ciechi.

Il tramonto li accende
di sangue vivo nei tronchi spaccati
e portano via i venti la fragranza
del loro fianco aperto!

Uno, ritorto, tende
il braccio immenso e dal fogliame tremulo
all’altro, e le ferite
come due occhi sono, supplicanti.

Il taglialegna li scordò. La notte
verrà. Starò con loro.
Nel cuore accoglierò le loro dolci
resine. A me come fuoco saranno.
E muti e avvinti,
ci scopra il giorno immersi nel dolore!

*

DAME LA MANO

Dame la mano y danzaremos;
dame la mano y me amarás.
Como una sola fl or seremos,
como una fl or, y nada más…

El mismo verso cantaremos,
al mismo paso bailarás.
Como una espiga ondularemos,
como una espiga, y nada más.

Te llamas Rosa y yo Esperanza;
pero tu nombre olvidarás,
porque seremos una danza
en la colina, y nada más…

DAMMI LA MANO

Dammi la mano e danzeremo;
dammi la mano e mi amerai.
Come un sol fiore noi saremo,
come un fiore, e niente più…

Lo stesso verso canteremo,
lo stesso passo ballerai.
Come una spiga ondeggeremo,
come una spiga, e niente più.

Ti chiami Rosa e io Esperanza;
ma il tuo nome scorderai,
perché saremo noi una danza
sulla collina, e niente più…

*

TODO ES RONDA

Los astros son ronda de niños,
jugando la tierra a espiar…
Los trigos son talles de niñas
jugando a ondular…, a ondular…

Los ríos son rondas de niños
jugando a encontrarse en el mar…
Las olas son rondas de niñas,
jugando la Tierra a abrazar…

TUTTO È RONDA

Le stelle son ronde di bimbi,
che giocano il mondo a spiare…
le spighe son corpi di bimbe
che giocano sempre a ondeggiare…

I fiumi son ronde di bimbi
che giocano a tuffarsi in mare…
Le onde son ronde di bimbe,
che giocano il Mondo a abbracciare…

*

DESPERTAR

Dormimos, soñé la Tierra
del Sur, soñé el Valle entero,
el pastal, la viña crespa,
y la gloria de los huertos.
¿Qué soñaste tú mi Niño
con cara tan placentera?

Vamos a buscar chañares
hasta que los encontremos,
y los guillaves prendidos
a unos quioscos del infi erno.
El que más coge convida
a otros dos que no cogieron.
Yo no me espino las manos
de niebla que me nacieron.
Hambre no tengo, ni sed y
sin virtud doy o cedo.
¿A qué agradecerme así
fruto que tomo y entrego?

RISVEGLIO

Dormimmo, sognai la Terra
del sud, e la Valle tutta,
pascoli, vigne increspate,
e lo splendore degli orti.
Che hai sognato Figlio mio
che hai una faccia così lieta?

Cerchiamo i verdi chañares
fino a che non li troviamo,
e i guillaves attaccati
a quei cactus dell’inferno.
Chi ne trova di più li off re
a chi non ne ha proprio presi.
Non mi pungo io le mani
di nebbia che ho avuto in sorte.
Fame non ho io, né sete,
senza merito li cedo.
Perché dunque ringraziarmi
di un frutto che prendo e dono?

*

ALAMEDAS

Las alamedas nos siguen
y nos llevan sin saberlo
por su abierta vaina verde
que canta de su aleteo
y ríe y ríe feliz
con risa que es regodeo,
con sus troncos extasiados
y sus brazos en voleo …

La lenta y desenrollada
nos lleva, de magia adentro,
como el Rafael arcángel
en un inefable arreo,
y la marcha nos festeja
a risa y cascabeleo.

¿A dónde será que llevan
para que así las crucemos
como un corredor de gracia
que muda la marcha en vuelo?

PIOPPETI

I pioppeti ci accompagnano
e ignari ci conducono
tra i loro germogli verdi
che cantano palpitanti
e lieti ridono e ridono
con un riso che è di gioia,
con i loro tronchi in estasi
e le loro braccia in volo…

Il pioppeto lento e lungo
ci conduce, a mo’ d’incanto,
come Raffaele arcangelo
in rapimento ineffabile,
e festeggia il passo nostro
con il suo vociare e ridere.

Dove sarà che conducono,
dacché noi li attraversiamo
come corridoi di grazia
che mutano il passo in volo?

*

RAÍCES

Estoy metida en la noche
de estas raíces amargas
como las pobres medusas
que en el silencio se abrazan
ciegas, iguales y en pie,
como las piedras y las hermanas.

Oyen los vientos, oyen los pinos
y no suben a saber nada.
Cuando las sube la azada
le vuelven al sol la espalda.

Ellas sueñan y hacen los sueños
y a la copa mandan las fábulas.
Pinos felices tienen su noche,
pero las siervas no descansan.
Por eso yo paso mi mano
y mi piedad por sus espaldas.

Apretadas y revueltas
las raíces-alimañas
me miran con unos ojos
fi jos de peces que no se les cansan
y yo me duermo entre ellas
y de dormida me abrazan.

Abajo son los silencios,
en las ramas son las fábulas.
Del sol serían heridas
que sí bajaron a esta patria.
No sé quién las haya herido
que al tocarlas doy con llagas.

Quiero aprender lo que oyen
para estar tan arrobadas,
lo que saben y las hace
así de dulces y amargas.
Paso entre ellas y mis mejillas
se llenan de tierra mojada.

RADICI

Sono immersa nella notte
di queste radici amare
come povere meduse
che nel silenzio si abbracciano
cieche, uguali e in piedi,
come le pietre e le sorelle.

Odono i venti, odono i pini
e non salgono in superficie.
Quando le alza la zappa
danno al sole le spalle.

Esse sognano e creano i sogni
e alle chiome inviano favole.
I pini felici riposano,
ma le serve non hanno tregua.
Per questo io poso la mano
e la pietà su quelle spalle.

Strette in trama e attorcigliate
le radici-bestie infami
mi guardano con degli occhi
fissi da pesce che non gli si stancano
e mi addormento tra loro
e addormentata mi cingono.

In basso sono i silenzi,
sui rami sono le favole.
Sono del sole ferite
che scesero a questa patria.
Non so chi le abbia percosse,
che le tocco e trovo piaghe.

Voglio imparare che sentono
che le tiene così avvinte,
ciò che sanno e che le rende
così dolci eppure amare.
Passo tra loro e le mie gote
di terra bagnata si riempiono.

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