#1Libroin5W.: Giuseppe Conte, “Il cigno di Baudelaire”, Algra.

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Chi?

Il protagonista del libro è il poeta francese Charles Baudelaire, da cui inizia la moderna poesia europea, autore dei Fiori del Male, una delle opere capitali nella storia della letteratura mondiale. Il poeta viene raccontato in queste pagine nei suoi vizi, nei suoi amori, nelle sue follie, nel suo disperato e nascosto spirito religioso, con una particolare attenzione alla sua storia con Jeanne Duval, la “negresse”, la cantante e ballerina meticcia, che fu la più importante, contraddittoria, cupa passione d’amore della sua vita. Nel libro, viene dato risalto anche al viaggio nell’Oceano Indiano di Baudelaire, che la madre e il patrigno volevano allontanare da Parigi e dalla vita scialacquatrice e viziosa che vi conduceva. Ma invece di arrivare a Calcutta, Baudelaire sbarcò a Mauritius, ci stette un mese, e gli bastò per essere sedotto dal colore scuro della pelle delle donne e dai superbi palmizi che poi ricompariranno nella sua poesia. E si parla del Baudelaire sulle barricate del 48, dell’incontro con Victor Hugo a Parigi, un po’ ritoccato dall’immaginazione, sino alla morte tra le braccia della madre e al suo funerale, che ebbe qualche momento quasi di magia divina. Un altro nascosto protagonista del libro sono io adolescente, quando mi capitò di leggere Baudelaire, favoleggiai su Jeanne a lungo (era vero che il poeta scriveva in inchiostro verde sulla sua pelle?), decisi di imparare il francese per sentire meglio il ritmo dei suoi versi, e cominciai a desiderare con tutto il cuore di dedicare la mia vita alla poesia. È dunque (in parte, ma non tanto) un libro autobiografico. E l’attenzione riservata a “Il Cigno”, è uno scavo non soltanto nella poesia di Baudelaire, ma anche nella formazione della mia poetica mitica e metaforica cui sono rimasto fedele. Un terzo minore protagonista è Sartre, il filosofo esistenzialista autore di un libro su Baudelaire discutibile certo ma per me fondamentale in quanto lo lessi in parallelo a Baudelaire stesso.

Cosa?

Il tema del libro, il più profondo, è la vocazione alla poesia e la vocazione alla sconfitta e all’infelicità. Ma anche l’idea che la poesia, emarginata e sconfitta, abbia un primato nell’ordine dello spirito, e che una vita felice senza la poesia, per me almeno, sarebbe inaccettabile. È un libro sugli eccessi, della esperienza e della mente, sullo scontro con la realtà presente, sulla ribellione in nome di valori come la bellezza e il piacere. Un libro sui sensi sregolati, sulla visione, sul vizio, sulla virtù, sul vino. Sulla indipendenza assoluta di giudizio, sulla messa a nudo del proprio cuore.  È anche un libro sulla critica letteraria: Baudelaire fu il primo poeta a teorizzare che l’artista deve anche avere una profonda coscienza critica di quello che fa. Oggi l’idea si è persa, e la poesia è tornata indietro, mediamente è un premoderno flusso di emozioni private messe in carta per sfogo personale. Baudelaire detestava la spontaneità. Giustamente, perché è l’autenticità e la verità che contano. L’arte è difficile, è metafora, è finzione, è abisso, è scavo nel mistero delle cose. Ed è anche esercizio intellettuale, critico. È anche un libro di confessioni: parlo dei miei amici di allora e del più carismatico, Jean-Claude T., quello che mi portò da Parigi un libro di Baudelaire in versione originale (io l’avevo letto soltanto in traduzione), delle mie ossessioni, delle mie preferenze poetiche, c’è anche un mio canone novecentesco, non conforme a quelli che vanno per la maggiore. Sì, è anche un libro sull’anticonformismo, anche spudorato:  e sulla libertà vera, quella degli uomini che amano il mare.    

Quando?

Questo libro è nato da una scommessa fatta con me stesso. Forse pochi sanno che ho esordito nel 1972 (avevo neppure 27 anni) con un libro dottissimo, La metafora barocca, accolto benissimo dalla comunità degli studiosi, che ebbe subito anche una buona eco all’estero, e che divenne un punto di riferimento sul Barocco. Umberto Eco, nella sua intelligentissima astuzia, si accorse subito che era la rielaborazione di una tesi di laurea (in Estetica, alla Statale di Milano) e la prese ad esempio nel suo libro Come si fa una tesi di laurea. Mi è rimasta la passione per la critica e la tendenza a teorizzare. Ma da un certo punto della mia vita in poi mi sono dedicato unicamente a scrivere poesie, romanzi, libri di viaggio. Oltre a migliaia di articoli di giornale, e qualche opera teatrale, e due libretti d’opera. Però mi era rimasto un desiderio: scrivere un saggio su Baudelaire. Su di lui, tutta la grande cultura  europea si è cimentata, Auerbach, Benjamin, Bataille, Sartre. A un certo punto il desiderio ha prevalso sul senso di realtà. Io, per mia scelta, faccio lo scrittore di mestiere. Da giovane, avevo dei modelli, uno era D.H. Lawrence nella cui biografia si diceva che insegnò e poi si dimise dalla scuola per essere soltanto scrittore. Così volevo che si dicesse di me. E così ho fatto. Ora, uno scrittore di mestiere dà un suo libro al suo agente e al suo editore, chiede un anticipo, contratta i diritti. Per Il Cigno di  Baudelaire,  niente di tutto questo. Ho scritto come se fossi ancora l’adolescente appassionato di letteratura che scrive perché ama scrivere, e non pensa a nient’altro. Così, mi sono fatto questo regalo, ho mantenuto una promessa a me stesso: prima di morire, scriverò un saggio su Baudelaire (oltre, spero, ancora libri di poesie e romanzi). Il 15 novembre del 2018 il saggio era pronto: un regalo di compleanno alla mia follia. Poi Emilio Zucchi, il poeta, e Alfio Grasso, l’editore di Algra, hanno riportato il libro alla realtà.

Dove?

Ho scritto a casa mia, nel mio studio, con tutti i libri di Baudelaire e su Baudelaire intorno. In fretta, in pochi giorni, se ricordo bene. Del resto, quello che dovevo dire lo maturavo da decenni, e il tono, la voce l’ho trovata subito. Volevo a priori scrivere un saggio critico, da entrare nelle bibliografie su Baudelaire. Mi è riuscita un’altra cosa. Aveva già usato Baudelaire in un monologo australe comparso in Ferite e rifioriture. E nella seconda edizione di Terre del mito, raccontando un viaggio a Mauritius (moltissimi dicono alle Mauritius in un calco su “alle Seychelles”, ma Mauritius , l’Ile Maurice, non è un arcipelago…), dove scoprii la casa che  Baudelaire abitò durante la sua sosta nell’isola, intitolai il capitolo “Baudelaire sex bomb a Mauritius”. Poi, la rilettura del testo e la rifinitura della traduzione del “Cigno” è stata fatta a Parigi, dove tutto  parla di Baudelaire, che ha fatto della città e della sue trasformazioni oggetto continuo di canto. In un albergo di Rue de Seine, dove alloggio da molti anni, ai tavolini di Le Danton, che ho preso a frequentare da poco.          

Perché?

Perché si scrive un libro? In parte l’ho già detto. In questo caso per scommessa con me stesso, per regressione all’adolescenza, per follia, per andare alle radici della mia scelta di dedicare la vita alla poesia. Alle volte mi stupisco di questa mia scelta da perdente. Ma pensate a Baudelaire. Chi più perdente di lui? Eppure quanto è cresciuto in un secolo e mezzo, quanto la sua opera è diventata un’opera centrale, e il suo libro un libro sacro. Che ne sappiamo, che ce ne frega dei vincenti di allora, dei contemporanei che disprezzavano o compativano il poeta? Ascoltate, alla lunga, la vera poesia vince sempre. La sua infelicità sgomina ogni falsa felicità. Ho scritto questo piccolo libro per testimoniare tutto questo. 

scelti per voi

 

“Baudelaire è un poeta che va letto per la prima volta durante l’adolescenza, la più tragica e irrisolta età della nostra vita. Quando tutto è ancora in fieri, il mistero delle cose non è completamente dissipato, le angosce possono esprimersi sfacciatamente, come le gioie, e le ossessioni, le speranze, le disperazioni possono pascolare libere sui prati non cintati di un corpo che cresce e di un’anima che cerca se stessa”.

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“Grazie Charles Baudelaire, grazie grande cigno, “mito strano e fatale”: non so cosa sarei stato senza di te, come avrei sopportato la felicità di una vita senza poesia”.

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