Dentro e oltre Cutusìu: ‘Sulità’ di Nino De Vita

Nino De Vita, più che un poeta dialettale, è un cantore epico come ne sono rimasti pochi nel panorama della poesia contemporanea. Laddove con il termine epos si intende, letteralmente, una narrazione nella quale una data collettività ha modo di rispecchiarsi e di condividere, proprio grazie ad essa, le proprie radici e la propria identità. Dunque, fatta salva questa premessa, lasciandosi andare a ipotesi e considerazioni fantascientifiche (ma non troppo), se ne potrebbe ricavare che se Omero fosse vissuto nel terzo millennio dopo Cristo, piuttosto che un orizzonte globale definito da guerre “a pezzi” di matrice economico-religiosa e da una supremazia del dato finanziario sul fattore umano (quanto di più lontano dall’aretè di un Achille o di un Ettore?), avrebbe con molta probabilità preferito intrecciare, con una lingua sanguigna ancora rorida e impastata di terra, le ‘solitudini’ private di una sperduta contrada del marsalese. Che è, in sostanza, quello che fa De Vita in questo ultimo tassello della sua opera poetica, Sulità («Solitudini», appunto), edito ancora per i tipi della messinese Mesogea che ormai da tempo ha intrapreso la pubblicazione dell’opera omnia del poeta marsalese.
Anche questa raccolta infatti gravita attorno alla vita di Cutusìu, contrada marsalese entrata nell’immaginario poetico italiano come realtà geografico-letteraria tra Macondo e Spoon River, la cui epica quotidianità è inesauribile fonte di ispirazione per Nino De Vita. Nel caso in questione, le solitudini del titolo – che a un primo impatto lascerebbero pensare a una contraddizione in termini rispetto alla dimensione collettiva di questo canto-cuntu – richiamano invero un’umanità ferita, meschina, umiliata, abbandonata a se stessa; eppure redenta proprio grazie alla voce del poeta che dalla concrezione sineddochica del microcosmo locale riesce a ri-creare uno spazio universale dove il lettore abbraccia, facendole proprie e dunque condividendole, le sofferenze dei ventiquattro tableaux vivants che compongono quest’opera.
Ciò è rivelato con particolare efficacia in un punto nevralgico del libro che tra l’altro mette in scena la funzione sociale e medianica, se così è lecito dire, del poeta:

«Libberanti» cci rissi
«lèvami stu pinzeri:
socch’è chi nna stu libbru
tu cci vulissi fari
trasiri?»
«Ri mia vulissi riri,
chi cci haiu sissantun’annu,
’un cci ’a fazzu a truvàrimi una zzita
e sugnu sempri sulu».
(Libberanti)

[«Liberante» gli dissi / «toglimi questo pensiero: / cos’è che in questo libro / tu ci vorresti / mettere?». / «Vorrei parlare di me, / che ho sessantun’anni, / non riesco a trovare una fidanzata / e sono sempre solo».]

Il dialogo tra questo ennesimo protagonista di Cutusìu, Liberante, che a dispetto del suo analfabetismo vorrebbe scrivere un libro e il De Vita ‘personaggio-poeta’ chiarisce in maniera significativa ciò che questa scrittura poetica è chiamata a testimoniare, l’alto e oneroso compito a cui non può e non vuole sottrarsi: scrivere per gli altri, cioè dire gli altri, che è come dare loro sostanza e farli accadere, sempre e di nuovo, nel bianco della pagina.
Dire la solitudine, allora, diviene il modo per rinsaldare la ‘social catena’ di cui parlava Leopardi in quel meraviglioso testamento poetico e spirituale che è La ginestra. Solo così il poeta, liberandosi da quel fallace retaggio romantico che invece lo vorrebbe immerso nella contemplazione distante del reale, può guardare il mare con la consapevolezza che non sia «peggiu r’un desertu» («peggio di un deserto»), come al contrario pensa il Sarinu dell’eponima, bellissima poesia. Perché riempiendo di senso quel mitologema dell’infinito con la sola potenza creatrice del suo sguardo e della sua lingua, il poeta, ci ricorda infine De Vita, è «unu ri chiddi / chi crìrunu a sti cosi» («uno di quelli / che credono a queste cose», I frati).

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