Il 13 giugno scorso la collana “Lo Specchio” Mondadori ha dato prova della sua rinnovata vitalità e della sua solidissima presenza nell’ambito della migliore poesia italiana e straniera. Tre libri di notevole spessore hanno visto la loro uscita nel panorama letterario contemporaneo: “I canti di Mihyar il damasceno” di Adonis, “Tutte le poesie 1969-2015” di Milo de Angelis, e “Ipotesi di felicità” di Alberto Pellegatta. Proprio Alberto Pellegatta conferma di essere già da tempo una delle voci più importanti del nostro panorama poetico. Con questo suo lavoro arriva al culmine di un percorso che lo aveva visto partire nel 2002 con “Mattinata Larga” edito da Lietocollelibri, per proseguire nel 2011 con “L’ombra della salute” (Mondadori) e giungere a “Ipotesi di felicità” che dà ancora maggiore stabilità e rilevanza a un poeta che ha sempre tirato dritto in una ricerca di qualità più che di quantità, come troppo spesso non accade in questo mondo affascinante e pericoloso della poesia, dove molti si preoccupano molto più di esibire una spettacolarizzazione sterile e sovrabbondante di se stessi, piuttosto che un lavoro letterario come operazione civile e umanistica. Pellegatta si muove sicuro in un lavoro che tocca l’aspetto linguistico di una generazione (quella dei nati negli anni ’70) che oltrepassa il Novecento e si affaccia con voce propria in un ambito di indagine sempre più specifico, dando forma a un dire che non può prescindere da ciò che è stato prima ma innestando un personalissimo e sostenuto dettato ormai versato in avanti. Ecco che allora le poesie di Pellegatta appaiono come frammenti sintattici e percettivi, il discorso franto all’interno delle stesse liriche e la linea del tempo si fa sincopata e onirica più che lineare e cronologica. Siamo nel cuore di una lingua che sa e conosce come l’espressione non può più essere avanguardistica ma solo e soltanto presente a se stessa, in quell’ambito della concretezza che in poesia non scade in una facile “difficoltà del capire” bensì in una parola che arriva subito, si regge perfettamente sulle proprie gambe, e sta nel contesto del suo tempo, dove le cose ci giungono sempre più attraverso la tecnologia e i suoi derivati, e creano continuamente aspetti che del contraddittorio contengono entrambe le facce. Ecco che allora “Ipotesi di felicità” diventa, nel susseguirsi delle sue sezioni interne, un percorso che si muove tra la veglia e il sogno, e il lettore si fa condurre da una lingua piana, elegante e raffinata, che scivola con una cadenza che sposta continuamente i punti di riferimento apparenti, con scarti mai dispersivi, sempre regolati dall’intenzione di una necessità stabile: la realtà è sempre un intravedere, continuamente sfuggevole, così come la felicità sulla quale non possiamo fare altro che ipotesi. Non sappiamo mai, così come nella nostra vita, dove stia questo confine tra veglia e sonno, e Pellegatta ci dimostra come non esista appunto confine, come queste due cose siano un tutt’uno, e ciò che sentiamo e viviamo nella nostra esperienza quotidiana, lui che del quotidiano si fa osservatore attentissimo e preciso, non possano che essere attraversate da questa esperienza. Il poeta allora si fa testimone di questo modo di vivere, di questo nostro uomo contemporaneo, creatore di analogie inevitabili in quell’imprescindibile rapporto uomo-natura, per essere qui riproposto in una situazione urbana, dove l’animale-uomo, o l’uomo-animale, si muove con caratteristiche meno antropomorfe e più “bestiali”, nella sua condizione di abitante della città, soffocato dagli oggetti e dal dover fare ed essere qualcuno, senza rendersi mai pienamente conto che ciò che lo muove sono più gli istinti che gli intenti. Tutti siamo alla ricerca di belle sensazioni. E il tracciato nel libro la sposta continuamente questa direzione, lasciandone però continuamente traccia, appunto, perché un libro non è un libro se non accompagna il lettore in qualsiasi modo, anche non apparente, come fa appunto Pellegatta quando annebbia i confini della prosa e della poesia, così come quelli della veglia e del sogno e dell’uomo e dell’animale, e ci consegna i suoi testi al di là di una facile catalogazione di genere, che è poi l’unica e vera possibilità che ha la parola di raggiungere libertà, altezza e piena comunicatività. Eccola qui la poesia, quella più onesta. E la parola “poesia” compare in molte liriche, quasi che la parola cercasse nel testo la sua stessa identità, potendone però essere sempre un’ipotesi, un continuo discorso che si interrompe per darsi nuova possibilità di ripresa. A volte il libro appare come una mostra di quadri. Pellegatta è fine conoscitore delle arti figurative e sa benissimo come operare all’interno della poesia creando una sorta di esposizione a frammenti, a tinte più o meno larghe, modellando materiali e proponendoci forme immediate e complesse, che stanno solide o eteree davanti ai nostri occhi per rappresentare curiosità e ricerca. Dalla lettura di un libro di poesia si può certamente dire ciò che si vuole, non abbiamo nessuna priorità di una trama da far tornare, nessuna storia precisa da valutare, niente di così lineare da dover per forza di cosa interpretare. È questo ciò che a mio avviso continua a far sopravvivere la poesia, quanto mai oggi, nell’epoca della surrogazione estrema e della commercializzazione imperante, dove per fortuna c’è chi se ne infischia di tutto questo e tenta un’operazione sempre piena di bellezza e stupore: domandarsi cosa può fare la poesia. E Pellegatta è uno dei nostri testimoni più acuti e importanti, ci consegna un libro e un lavoro che non vogliono stare al mondo solo per starci, per una quanto mai ridicola corsa alla pubblicazione, ma per confermare che chi si muove nella scrittura compie un’operazione nel mondo che è relazione con lo stesso e con chi lo abita o lo abiterà, per essere parte di un tutto, e non tutto di nessuna parte.
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tre poesie
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ANABASI
Invece che lasciare a altri –
invidiosi o stregati – il compito
di scrivere una motivazione
preferisco dirvi io stesso perché
prendere in considerazione il mio lavoro.
Non solo questo travestimento finale.
Magari gialla, come un fiume interrato, ma potabile.
O invece erano in gabbia gli uccelli?
Considerati i tuoi precedenti, anche
il cibo ti mangerà le frasi. Mediante ebollizione
le gocce più intelligenti dell’acqua
confermano: per vivere serve qualcosa di più.
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ORSI
L’orso bianco è l’animale più amato dai bambini di buo-
na educazione alpina. L’altezza al garrese è di un metro e
il peso raggiunge gli ottocento chili. Insegue i grandi pe-
sci polari. Oltre al Grizzly e all’orso gigante dell’Alaska,
dal beige al testa di moro, c’è l’uomo-orso. Nonostante
la pesante andatura da plantigrado e i vestiti da duro, è
agile e, se necessario, scappa velocemente alle aggressio-
ni. La barba lunga e i jeans attillati non lo aiutano duran-
te l’accoppiamento, ma certo attraggono altri esemplari.
Nonostante l’aspetto truce si fa accarezzare facilmente.
Pur essendo un solitario, con il sopraggiungere dell’inver-
no diventa inquieto, perde l’appetito e si mette alla ricer-
ca di una discoteca. Come ripetono le questure, è goloso
di miele. Appena si accorge che cominciano a scarseggia-
re i ragazzi, non esita a intraprendere lunghe migrazioni.
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Girandole di gas nel vuoto concavo
che ci contiene tutti. Non c’è nessun centro e l’orlo
si cuce su se stesso. Il tempo è spazio che si espande.
Il tempo è fame e lo spazio è freddo. Abiterò
infrastrutture luminose.
Farà più freddo, fino a riassorbirsi dentro a un buco.
Oppure si riconcentrerà fino a riaccendersi.
Ma adesso, l’attimo presente, è la capitale del Tempo.