Diego Caiazzo, “le parole della poesia possono ferire o guarire da una malattia dell’anima”.

Penso spesso al destino dei miei libri,
dopo; vorrei fare come i faraoni,
portarli con me nella mia piramide:
solo che io non avrò una piramide,
probabilmente; ed è vero,
molti li compro sapendo
che non li leggerò,
almeno in questa vita;
ma mi piace vederli lì, tra gli scaffali,
in agguato come indiani,
avvertirne l’odore forte della stampa;
e rimandarli ad una vita futura
in cui, quando entro in una libreria,
immediatamente confido.

Per introdurre la nostra intervista, versi di Diego Caiazzo scelti dal più recente libro, Il sistema solare, (Diogene Edizioni, 2020), prefato da Valentina Di Cesare, suddiviso in cinque parti, di cui la prima riprende il viaggio della prima raccolta, “La via lattea”, la seconda affronta la dimensione ludico-agonistica del gioco degli scacchi, la terza la dimensione epica della guerra sul mare, la quarta la dimensione erotica della vita e la quinta riprende il viaggio della prima parte concludendosi con un bivacco tra le stelle.

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?

Fin da bambino scrivo poesie, perciò devo navigare un po’ nella notte della memoria per rispondere a questa domanda. Dopo le solite poesiole infantili, verso i 13 anni scrissi una poesia dal titolo “Perle di mia madre”. Dopo averla letta in famiglia, suscitando l’ovvia commozione di tutti, mio fratello (più grande di me di 6 anni e mezzo) mi chiamò da parte e mi chiese il permesso di ricopiarla tra le sue poesie. Vissi la cosa con grande orgoglio, come se avessi vinto un premio letterario.

Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?

Non vorrei prenderla troppo alla lontana, ma credo che parlando di poesia non si possa prescindere dagli antichi greci e, successivamente, i latini. Ricordo che al liceo ero affascinato dalla loro icasticità, dal fatto che nulla di superfluo si trovasse nei loro versi, arcaici ed eterni, tanto che siamo ancora qui a studiarli. Poi, certo, nel corso degli anni ho incontrato tanti poeti alcuni dei quali mi hanno aperto nuove strade compositive, che ho cercato di percorrere autonomamente. Rimanendo al Novecento, Giuseppe Ungaretti è il poeta del quale non riuscirei a fare a meno, quello la cui poesia mi è rimasta, per così dire, sotto pelle; Cesare Pavese che da ragazzo ho letto e riletto, con le poesie-racconto di Lavorare stanca e la tensione lirica di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi; Valerio Magrelli che lessi intorno ai 25 anni per la prima volta e mi impressionò per l’essenzialità un po’ metafisica di Ora serrata retinae; Kostantinos Kavafis la cui poesia ho conosciuto solo una ventina di anni fa e che ha lasciato tracce importanti in me; Primo Levi, grande sia come narratore che come poeta.

Quale (e per quali ragioni) poeta e i relativi versi che non dovremmo mai dimenticare?

Credo che se l’umanità perdesse memoria di Dante Alighieri sarebbe estremamente impoverita. “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”: ecco, qui è sintetizzato il pensiero cardine del Sommo Poeta e non credo ci sia molto da aggiungere.

Qual è – nell’arco della tua giornata – il momento ideale per dedicarti alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?

Mi piacerebbe dare una risposta suggestiva, “poetica”, del tipo “scrivo solo di notte perché le tenebre mi ispirano meglio”, ma per me ogni momento è buono. Molte poesie le ho composte nei luoghi e nelle circostanze più impensati, in treno, a un concerto, in fila alla posta. In questo sono stato favorito da una buona memoria, quando non avevo a disposizione carta e penna; oggi, con l’avvento dello smartphone, non ho più nemmeno questo problema, prendo appunti direttamente lì. In ogni caso l’atto materiale dello scrivere richiede anche una compostezza fisica che effettivamente la sera favorisce, così molto spesso di sera raccolgo i pensieri e li trasformo in segni sulla carta (una volta) o in pixel sul computer (oggi).

Qual è la tua ‘attuale’ ‘spiegazione/definizione’ di poesia?

Ungaretti sintetizza bene: “poesia / è il mondo l’umanità / la propria vita / fioriti nella parola / la limpida meraviglia / di un delirante fermento”. Ecco, io credo che per definire o spiegare un qualche cosa di impalpabile, ma estremamente pregno di significato come la poesia sia meglio rifarsi ai versi, direi estatici, di questo nostro grande poeta del Novecento. Non pretendono di definire o spiegare, ma danno un’idea, una sensazione. A volte, scrivendo una poesia, mi pare di sorvolare un campo di battaglia, su cui le idee si sono scontrate e solo poche parole sono sopravvissute. Ecco, quelle formano la poesia, in senso stretto, cioè la successione di versi con l’ “a capo” che indica che quel componimento viene proposto come “poesia”. Poi l’idea di poesia in senso lato, per quel che mi riguarda, è immanente nel modo di scrivere dei grandi scrittori, sia di narrativa che di saggistica e li differenzia da coloro che non ce l’hanno.

Quando una poesia può dirsi compiuta?

In Esercizi di tiptologia, Valerio Magrelli cita Oscar Wilde che diceva di preferire una sigaretta a un sigaro in quanto è squisita e lascia insoddisfatti. Io credo che la poesia sia un po’ così, come la sigaretta, si nutre di insoddisfazione, e che una poesia possa dirsi compiuta se lascia intatta la voglia di scrivere ancora.

La poesia può (e se può in che modo) restituire purezza alla parola?

La parola e la purezza non credo siano fatte l’una per l’altra. Ogni parola ha un sostrato di significati, di equivoci, voluti e non voluti, su cui il poeta gioca, almeno questo è il mio modo di procedere. Più la parola è “sporca”, impura, più la trovo feconda, interessante e cerco di usarla al meglio.

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?

Se esiste un incarico della poesia può essere solo quello di mostrare che le cose si possono scrivere in un modo non prevedibile e non banale. Naturalmente dipende dal poeta ed è sua responsabilità. Le parole (e a maggior ragione) le parole della poesia sono come oggetti contundenti, possono ferire, uccidere addirittura, oppure guarire da una malattia dell’anima.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?

NOSTALGIA

Quando
la notte è a svanire
poco prima di primavera
e di rado
qualcuno passa

Su Parigi s’addensa
un oscuro colore
di pianto

In un canto
di ponte
contemplo
l’illimitato silenzio
di una ragazza
tenue

Le nostre
malattie
si fondono

E come portati via
si rimane

Questi versi, di Giuseppe Ungaretti, scritti in trincea, mostrano come la poesia possa salvare il poeta da una situazione tremenda (per un attimo, certo) come la guerra, straniandolo in un ricordo di estrema dolcezza, tenerezza, nostalgia. Magari un attimo prima aveva visto per l’ennesima volta in faccia la morte.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a scegliere una tua poesia dal recente libro e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Vedo gli occhiali di mio padre
e quelli di mia madre
riposare insieme
nello stesso cassetto;
per una innominabile inerzia
so che si guardano, si cercano,
incuranti della morte;
pare siano rimasti qui
ad assicurarmi sui loro sguardi,
il loro modo di rendere
l’amore immortale.

 

Molto semplicemente un giorno aprendo un cassetto vidi due paia di occhiali rivolti uno di fronte all’altro. Riconobbi subito gli occhiali dei miei genitori e immaginai che mi stessero rivolgendo i loro sguardi per proteggermi, anche dal mondo dell’aldilà.

 

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