«Ed è dunque tornato ancora il tempo / di ritrovare le cose perdute». Due versi di Basilio Reale, poeta orlandino classe 1934 che, lo ricordiamo, compiuti in collegio, a Messina, gli studi medi inferiori e superiori, nel 1953, si trasferisce a Milano, dove si spegne il 6 febbraio 2011, e dove, nel 1959, pubblica la prima plaquette, “Forse il mare”, con Arturo Schwarz. Due versi per introdurre la lettura del libro “Dove è verde l’ombra”, a cura di Diego Conticello, pubblicato nella collana “Phi”, curata dallo stesso Conticello insieme al poeta Gianluca D’Andrea, dalle edizioni “L’Arcolaio” di Gianfranco Fabbri, con un delizioso inchiostro su carta (“qui ho chiesto nebbia e pane”, 2019) di Francesco Balsamo. Come si evince dal sottotitolo, poesie inedite e sparse, in un arco temporale che si estende dal 1956 al 2000, con una chicca in dialetto («Non ti dicu cchiù nenti», intona il primo verso) che chiude un’opera che rappresenta “la parallela continuazione di un canzoniere amoroso”, e non solo, chi vorrà leggere lo scoprirà, un “laboratorio vivo e parallelo” alla produzione di Reale.
Ci racconti il tuo “incontro” con Basilio Reale e la tua passione per la sua cifra votata – come scrivi – “all’immanenza”?
L’incontro con Silo (così dopo un po’ di tempo mi disse di chiamarlo perché così lo chiamavano tutti i suoi amici più stretti) avvenne nell’ormai lontana estate del 2004 nella sua villetta estiva della natia Capo D’Orlando. L’occasione era stata sempre relativa alla mia ossessione su Lucio Piccolo, per la quale stavo conducendo ricerche “a tappeto” su tutti i possibili testimoni che avessero conosciuto di persona il poeta dei Canti Barocchi.
Nel caso specifico Silo aveva scambiato con Piccolo circa quaranta missive tra il 1955 e il 1966, grazie alle quali Piccolo si informava principalmente sulle sorti editoriali del Gattopardo del cugino Tomasi di Lampedusa e sulle attività del suo mentore Eugenio Montale. Io ebbi quindi la fortuna di consultare tutte quelle lettere prima che ne venisse tratta una mostra in occasione dei suoi 70 anni a cura del Comune (autunno 2004) e che ne venisse fatta donazione alla Fondazione Famiglia Piccolo di Calanovella, luogo in cui ora è possibile visionarle (estate del 2006).
Silo con la sua spiccata ironia e il suo “minimalismo quotidiano” da nuovo homo œconomicus, appresi molto precocemente nelle fucine della linea lombarda, aveva nei suoi versi il medesimo orientamento “pratico” del boom economico che trasponeva in versi asciutti, lapidari e secchi. Sicuramente al giovanissimo studente universitario quale ero all’epoca, nutrito di filosofia marxista e reminiscenze francofortiane le sue poesie riuscivano ad essere molto consonanti e persuasive.
Riporteresti, spiegandoci per quali ragioni, quali reputi essere i suoi versi emblematici?
Paradossalmente, lasciando per un attimo da parte le poesie che mimano una sorta di “tecnologismo urbano” e la relativa funzione civile, gli effetti più efficaci a mio parere li danno le liriche amorose di quel meraviglioso canzoniere in absentia che è L’esistenza amorosa, raccolta scritta da Silo negli anni successivi alla precoce morte della compagna di una vita.
Quando il silenzio, mentre
la notte trabocca
da ogni lato, sale a passi
felpati a queste stanze,
dove da una all’altra mi muovo
equidistante fra la veglia e il sonno;
nell’ora delle angosce e dei fantasmi
come si fa acuto e chiaro
– vibrante – il tuo ricordo,
come bene si accorda
alla trama dei tuoi gesti.
L’elegia sommessa, pacata, pura nel ricordo trasfigura qui in “cenotafio del senso”, ovvero monumento al vuoto, alla mancanza che spalanca abissi ontologici e affioramenti memoriali estremamente emotivi.
Ricordo che Silo amava leggere solo queste liriche ad alta voce ma, ogni qual volta lo faceva – e ricordo una particolare lettura privata nella sua casa milanese – lui di solito così tagliente e pungente nelle sue uscite, scoppiava sistematicamente in un pianto dirompente e fragilissimo.
Perché questo libro? (Quali le peculiarità che non dovrebbero sfuggire al lettore?)
Questo libro di fatto mi sembra importante perché si tratta di un laboratorio vivo esattamente parallelo rispetto alla produzione edita di Silo, pertanto vi si possono ritrovare in sfumature diverse tutti i temi principali della sua poesia: prima di tutto la “semiotica protesica” che sta alla base del suo libro più fortunato I Ricambi, ovvero l’idea che l’utilizzo di supporti, come accade nel cinema o nella pittura, contraddistingua ormai l’uomo contemporaneo che si trova all’apogeo della tecnica; tutto questo si traduce anche nel linguaggio poetico, che mima pertanto una realtà dagli effetti sempre più stranianti e meccanizzati. L’intento di Basilio Reale è sempre stato infatti quello di mostrare i possibili effetti depressivi del boom economico.
Alcune tra le poesie ritrovate e adesso pubblicate, rappresentano inoltre la parallela continuazione di un canzoniere amoroso la cui «esemplarità alla rovescia», per usare le parole di Antonio Di Grado, «risulti modernamente anti-dantesca, […] sulla linea Meli – Tempio; un esercizio d’erotismo mollemente arcadico, assai raro nella nostra quaresimale e anti-erotica letteratura». L’arma di Basilio Reale in questo senso è, ancora una volta, l’ironia che fa scemare i voli del facile sentimentalismo, per restituirci un “senso” corposo, vissuto e pertanto combattuto della passione, scevro da idealizzazioni eccessivamente “romantiche”.
La poesia può sollevare colui che scrive dalla realtà che lo abita? (Se può in che modo?)
Non so onestamente quanto sia davvero necessario “sollevarsi”, posto che la poesia può in certi momenti di grazia permetterlo. Ho maturato in questi anni l’idea che si debba sempre di più non sottrarsi alla battaglia incessante che caratterizza le nostre vite e ancor più quelle di persone coinvolte in situazioni o esistenze molto più ad alto rischio “mortuario” delle nostre abbastanza comode “occidentali”, ma abitarla dall’interno per cercare di essere prima di tutto presenti a sé stessi per poter avere almeno una chance di incidere in qualche modo. È sempre una lotta difficoltosa e ardua ma l’importante è l’agone – anche se agonizzante – allo stesso modo la poesia che deve contrapporsi alla “morte della bellezza” (cosa che sembra avvenire sempre più di frequente nella odierna società massificata). È proprio un «guizzo» sostanziale quello che può salvarci/sollevarci, un tentativo che non ci trovi «vinti» a priori. È chiaro che la tensione verso una bellezza (assoluta o relativa), non è cosa facile ad ottenersi, ma il tentativo non va mai esaurito perché è solo tramite le parole – e qui ritorna la funzione necessaria della poesia – che si può ricucire il filo etico/estetico dell’esistenza e, al contempo, evitare che si spezzi e che possa essere preservato e conservato per chi verrà dopo di noi (e qui subentra un altro e più lungo discorso sulla memoria e sull’eredità).
Oggigiorno, specie in un momento “epocale” come quello attuale – lo chiedo al Conticello poeta – a cosa serve la poesia?
Non credo questo momento che stiamo vivendo possa essere a posteriori configurato come “epocale” (allo stato attuale non ne ha a mio avviso le dovute proporzioni se soltanto pensiamo alle grandi guerre, agli stermini di massa o persino ad altre forme epidemiche consimili nel corso della storia); lo penso anche solo per il fatto che non credo potrà insegnare alcunché alla stragrande maggioranza della gente nonostante molti si spendano con paragoni o retorica “da guerra”. Faccio ad ogni modo mie, perché oggi a maggior ragione valgono, le parole di un vero poeta, Angelo Maria Ripellino: ≪L’esercizio della poesia è una prova di resistenza alle asperità quotidiane e all’indifferenza degli uomini. Le squallide vicende dei giorni presenti paiono sottolineare l’inutilità della poesia, perché essa, sempre più scalzata sui margini, nulla può lenire e a troppi non dice nulla. La poesia è magnificamente superflua come il dolore e troppo fragile in tempi di sopraffazione. […] Scriver poesie nell’assedio in cui siamo invischiati vuol dire caparbietà di non soccombere agli sfaceli, di sopravvivere, tenendo a distanza con la magia del Belcanto, con la pienezza polposa delle parole, con gli esorcismi delle paronomàsie e delle assonanze la Morte≫. Non credo serva aggiungere altro!
(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 19.04.2020, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).