Una promenade emozionale, fragrante, che include qualità letterarie palpabili, oltreché nella formulazione tecnico stilistica del testo, nella forza dirompente di un chiaro messaggio: ‘l’amore per la bellezza e per l’arte sono le sole dimensioni che ci salvano dall’oblio e dalla morte’. Parliamo di ‘Solo a Parigi e non altrove, una guida sentimentale’ di Luigi La Rosa, libro (edizioni ‘ad est dell’equatore’) impreziosito, dagli scatti fotografici dello stesso autore e dall’originale mappa disegnata da Alessio Grillo. La Rosa ‘apre un varco nel vasto mare delle memorie parigine’ e, in un filiforme innesto temporale, conduce il lettore alla scoperta dei luoghi che hanno ospitato esistenze alle quali, a cominciare da Baudelaire, ‘poeta impareggiabile del cielo eterno’, dobbiamo immensi lasciti.
Leggendo il tuo libro sovvengono i versi di Giorgio Caproni, “Chi va a Parigi, va a casa”, “Non c’ero mai stato. / M’accorgo che c’ero nato”. Puoi dirci in che modo abiti e ti senti abitato da questo ‘luogo non luogo’ inespugnabile?
Mi sento abitato da questo “luogo-non luogo” nella stessa esatta maniera espressa da Caproni, in quel senso che fa di ogni ritorno una rinascita, una ricerca, un approdo. Tornare a Parigi significa fare i conti con ragioni profonde, non scritte, ragioni esistenziali del vissuto e dei desideri. Per questo per me Parigi rappresenta prima di ogni cosa una scoperta, un punto di arrivo e insieme un nuovo imperdibile punto di partenza.
In questo libro narri dei ‘grandi’ mettendo in primo piano i ‘piccoli’ che, in un immenso turbine di passioni, li hanno accompagnati. Qual è (o quale vorresti fosse) il significato di questa scelta peculiare?
Sono sempre stato innamorato dei “piccoli”, degli ultimi, di quelli che hanno avuto poca voce in capitolo, quelli di cui nessuno scriverà mai. La Storia, la grande Storia, in tal senso, è un atto di profonda, immane ingiustizia, giacché dà sempre voce ai vincitori, mai ai vinti. Ebbene, dietro e intorno alle vicende dei grandi di ogni tempo ve ne sono altre, piene di ombre, di riverberi, di non minore intensità, strazio, bellezza. Sono queste le vicende che secondo me da sempre alimentano la letteratura, o perlomeno le vicende di cui mi piace occuparmi all’interno dei miei libri.
“Parigi è luogo di sofferte prigionie interiori, è impossibilità di resistere alla sua essenza sofisticata, alla sua esibita noncuranza, al suo estetismo. È la città più dolce ma sa rivelarsi la più dura, la più ferma nelle sue intenzioni”. Quale, tra le sue ferme intenzioni, il dono sostanziale che ha saputo (voluto) farti?
Il dono della disciplina, della resistenza, del sacrificio. Insieme al suo fascino, al suo splendore, Parigi sa pure essere una città durissima, che impone sforzi, che qualche volta fa sentire in trappola. Resistere a queste prigionie dell’anima, in nome dell’arte, della bellezza, del libero pensiero, è un altro modo per comprenderne l’essenza. È soprattutto questo a rendere questa città completamente diversa dall’immagine-cartolina che molto spesso il turismo ne ha trasmesso. Parigi è luogo di grandi dolori, come di sublimi amori, di sconcertanti passioni, di estatici struggimenti e amarla significa accettarne l’incanto come la tragicità assoluti.
Tra le tue pagine densissime e disinvolte leggiamo: “La verità che inseguivo, intorno alla quale gravitavo come una falena rapita dal fuoco”. In che modo la Ville Lumière ha appagato la tua intima (e, a tratti, struggente) ricerca?
Parigi mi ha rivelato diversi aspetti del mio carattere e della mia anima che prima non conoscevo. Mi sta insegnando la disciplina della scrittura, la direzione di un progetto artistico e la volontà per sostenerlo, a qualunque prezzo, anche a costo di sacrifici e sforzi enormi. È stata un po’ il mio battesimo di fuoco, la mia epifania creativa, ed è il solo luogo in cui riesco a scrivere e a sentirmi veramente a casa. È stata la scoperta più intensa e significativa della mia vita, ed è il luogo senza il quale non saprei più vivere.
Di Guy de Maupassant, come ‘confessi’ nel libro, uno dei tuoi più grandi amori letterari, scrivi: ‘se mi trovo a Parigi è in parte anche per seguire il tracciato affascinante dei passi inquieti dello scrittore’. Qual è stato l’insegnamento cardine di questo scrittore che ‘ha sempre trovato da sé le proprie strade creative, respingendo con forza una tradizione romantica’?
Maupassant attinge pienamente alla vita, alle viscere, al sangue, spogliando l’esistere di ogni belletto e conferendogli tuttavia la grazia della realtà e del dolore. Ecco il suo insegnamento: osservare la vita con occhi sinceri, spogli di pregiudizi, di buonismi, guardare al fondo della condizione umana e del suo inesorabile destino di morte e di bellezza, e tramutare tutto questo in arte, in parola, in romanzo. È anche grazie al suo geniale esempio se ho amato tanto questa città.
Pensando più genericamente alla scrittura (e con essa alla tua apprezzata attività laboratoriale che compendia anche la possibilità, per gli interessati, di un viaggio-stage di scrittura a Parigi) ti chiedo: com’è nata questa passione, quale (se esiste) un aneddoto legato alla sua ‘scoperta’?
Insegno scrittura creativa da più di quattordici anni. A un certo punto della vita mi sono accorto che il romanzo è anche progetto, studio, applicazione. Ho maturato una riflessione che continua da anni, e ho cercato di applicarla all’esperienza degli altri, di trasmetterla a degli allievi. Da allora i miei laboratori hanno sempre riscosso un notevole successo, al punto da farmi vivere di scrittura. Ma sono soprattutto la prova che la letteratura è sostanzialmente frutto di ispirazione e di applicazione, un po’ forse come la vita stessa.
Qual è la tua definizione di scrittura (cosa deve o può fare)?
La scrittura è per me un atto estremo: quell’ascia che deve conficcarsi a forza nel mare ghiacciato delle nostre anime, come sostiene Kafka. Un atto di scrittura che non produca uno scandalo, una rivoluzione interiore, un cortocircuito esistenziale non è assolutamente riuscito. La scrittura deve scardinare, mettere in discussione, ribaltare ruoli e punti di vista: in una parola, deve cambiare dal profondo il nostro modo di vivere e di sentire le cose.
Per concludere (spiegando le ‘ragioni’ della scelta) riporteresti uno stralcio di testo nel quale ti è caro trovare rifugio?
“La città-specchio, la città-labirinto, che come tale non fa che schiudersi a se stessa, la città-biblioteca tanto cara a Leonardo Sciascia, è forse una città-ragnatela, che ingigantisce continuamente le distanze, e io sono l’infaticabile insetto che vi si aggrappa. Cosa sono venuto a cercarvi?”. Questo è il passo che riassume molto bene il mio rapporto con Parigi, città-labirinto per eccellenza, al cui interno è sempre necessario perdersi per ritrovarsi.