fabio_orecchini
foto di Dino Ignani (www.dinoignani.net)

Parola d’Autore 

  «nella terra si scava senza sosta / si sprofonda»

Dismissione nasce da una lunga riflessione politica e filosofica che ha accompagnato per diversi anni i miei studi e in particolar modo la mia ricerca universitaria come antropologo culturale. Quest’ultima verteva sul concetto di “embodiment”, in italiano “incorporazione”,  processo continuo che porta a somatizzare la cultura e ad agire su di essa attraverso il proprio corpo, intendendo il corpo umano non solo come entità biologica ma come il risultato di una negoziazione con le forze sociali, politiche, economiche, storiche, che lo plasmano, lo influenzano e a sua volta ne sono influenzate. Dall’incorporazione al bio-potere il passo è breve. Nella prima fase di ricerche, che avvenne a stretto contatto con la drammatica conflittualità dei corpi lacerati dei sans papiers (clandestini) residenti in una nota periferia romana,  mi concentrai sulle modalità di narrazione, culturalmente orientate, del proprio mal-essere che diveniva, per somatizzazione, “malattia del corpo” intesa come vera e propria  “rottura biografica”, frattura scomposta e irrecuperabile della propria identità. In un secondo momento, e qui arriviamo direttamente alla Dismissione, decisi di concentrarmi sulla realtà in cui eravamo (era l’ormai lontano 2007) e tuttora siamo immersi, che riguardava me e tutte le persone a me vicine, inclusi amici e parenti, ovvero la crisi economica, sociale e antropologica dell’Italia  odierna,  legata indissolubilmente allo smantellamento progressivo della grande industria italiana e della società ad essa interconnessa, quella “dei padri” per intenderci, in un momento cruciale delle nostre esistenze: il passaggio dal capitalismo industriale al neocapitalismo dei servizi, dei beni immateriali e del controllo dell’immaginario. Tutto era avvelenato e corrotto, dilaniato, un corpo storico e sociale contaminato in maniera irreversibile. Come è potuto accadere tutto questo, mi chiesi. Quali dinamiche di incorporazione hanno investito e penetrato il corpo del lavoratore, immerso inoltre nel suo contesto famigliare, in dissoluzione anch’esso?  Quali fratture nell’identità di una classe sociale, quella del proletariato del secondo novecento, hanno condotto al precariato ideologico e generalizzato in cui (h)abitiamo? E come poter de-scrivere poi tutto questo, in quali modalità e in quali forme? Ed arriviamo così alla scelta di trattare un tema che sembra contenere tutte queste problematiche, un nucleo possibile da cui partire e procedere per osmosi di pensiero: il dramma dell’amianto e delle morti ad esso correlate, la strage silenziosa, silenziata, cui stiamo assistendo in questi anni. Io l’ho definito un processo di alchimie speculative: per tutto il novecento l’amianto è stato l’oro “bianco” per grandi e potenti apparati industriali internazionali, l’albedo alchemico di  un metallo perfetto perché a basso costo, resistente ad altissime temperature, praticamente eterno, invincibile. Verrà utilizzato in ogni tipo di costruzione: treni, metro, automobili, ministeri, fabbriche, scuole. Sino a scoprirne la nocività contagiosa, la capacità delle sue lamine microscopiche di penetrare il corpo attraverso il respiro, in un processo di incorporazione in cui le stesse bocche diventano simulacri ed icone (ritratte nelle lastre-rx da me disegnate a mano e visibili sul sito internet dell’opera) di una narrazione negata, dell’impossibilità oggettiva, reale -per via della stessa malattia che colpisce per prime proprio le vie respiratorie e l’apparato fonatorio- di dar voce al proprio vissuto, condannando definitivamente tutte queste tragiche esperienze all’oblio della memoria. Per non parlare del silenzio oltraggioso di chi sapeva e taceva, per il bene del capitale. Ma andiamo oltre, non ci fermiamo; muoviamo dal corpo dell’operaio all’intimità familiare, permeata da un mondo lavorativo che penetra le relazioni, e la vita intera, innanzitutto per via linguistica “come se”, scrive Andrea Inglese in un suo intervento critico all’opera, “il gergo tecnico e scientifico, i termini medici, la lingua della fabbrica e della chimica finissero per permeare ogni fibra del linguaggio ordinario, come in questo passaggio: «Cavità sierose anche gli occhi / tubi ricurvi e conati / modelli di modelli / bocche, / forma nell’incavo / guaina / mastica cavi» [..] sino a trasformare il romanzo familiare in aggregati materici, oggettuali, come se le figure umane sedimentassero alla stregua di sostanze materiali in seguito ad un processo di disgregazione”. Corpi dissepolti, sintomi esposti, cataratte, «mosche che cercano gli occhi, sempre gli occhi» le tossi e le bestemmie operaie, corpi sentenza, «acqua nella pancia», scaglie di mani,  un «ammoniacarsi arido delle falangi / dei metatarsi / il disossarsi del dorso». E, continua Gabriele Frasca nella sua post-fazione al libro, “il tutto Orecchini lo spalma sulla pagina, perché affiori come un relitto, il relitto di un discorso disarticolato, con ogni singolo elemento reso roco, finanche irriproducibile, come il «(punto)» che chiude l’opera stessa”. Ed è proprio in questo paradosso, in questa storia di silenzi, di smorfie afone di dolore, di bocche deturpate dall’impossibilità del narrare, che interviene Pane, progetto musicale romano, che decide di dare voce e respiro a questa storia e “quando afferra quel discorso disarticolato e afono, lo tiene, lo agita, (lo modifica), e gli dona un senso. Perché è la voce la depositaria del senso. La voce dona senso perché armonizza e non ammette resistenza di relitti, solo un trascorrere fluido che non conosce (punto)” scrive ancora Frasca. Un’opera verbosonora performativa, questa di Pane, una suite di oltre 23 minuti (registrata in presa diretta), conflittuale, carnale, sospesa tra una pre-verbalità animale e una parola-metallo da percuotere, finché calda, come in un rituale alchemico.    Nell’urgenza febbrile della parola sta tutto il senso di questo nostro lavoro, mio e di Pane, nella ferocia del dire, del dover dire, nel vedere, testimoniare ciò che viene occultato (l’esortazione del cieco Tiresia è qui esemplare, “devi vedere”), nel disimparare ad essere ciò che siamo diventati, poiché «non c’é nulla che possa fermare / la [ri]produzione dell’ovvio / l’abitudine al male»

 

 

 

 

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