La materia viva della mia poesia gira attorno alla verità e alla bellezza

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Raffaele Niro, foto di Stefania Guerra

 Parola d’Autore

Una volta un critico letterario mi chiese di un poeta che non conosceva “cosa dice la sua poesia”? In linea teorica, almeno per i critici letterari, la poesia dice ancora qualcosa, pensai. Quando, dopo alcuni mesi, andai a leggere il lavoro che il critico letterario fece sul poeta del quale mi chiese, mi meravigliai nell’osservare che non vi era riferimento a “cosa” diceva, ma a “come” lo diceva. Cosa dici è anche come lo dici, ma non solo. Parto dal “come” della mia poesia. Tutti i critici che si sono interessati alla mia poesia hanno convenuto che la mia poesia è sperimentale. I critici che amano la sperimentazione poetica hanno ben scritto della mia poesia. I critici che non amano la sperimentazione poetica mi hanno sempre dato i giorni contati. Io ho sempre pensato che se scrivi poesia hai due modi per farlo. O la scrivi in endecasillabi e settenari e via dicendo, o la scrivi inventandoti per ogni poesia delle regole rigide, ma nuove. Io ho scelto le regole nuove perché ritengo che la poesia non è estranea alla vita umana, anzi. E se la vita umana si evolve in continuazione non vedo perché non lo debba fare anche la poesia. Una volta, che non era quella del critico letterario, un poeta contemporaneo tra i più geniali che abbiamo in Italia mi disse che secondo lui il poeta deve mettersi in gioco a ogni singola parola, con quelle coerenze mitiche e vertiginose che solo dopo 50 anni possono capire in più di dieci. La mia poesia è questa roba qui. Più o meno. Pace per tutti. Soprattutto per me. È una ricerca continua della bellezza, dell’armonia, quasi una mappatura della geometria sacra. C’è chi ritiene che il linguaggio di Dio sia la matematica. Io, da ateo, sono d’accordo. Nel senso che sono affascinato dalle simmetrie, dalle proporzioni, dalla sezione aurea, dal Pi greco quanto dal mistero della successione di Fibonacci o del teorema di Fermat (in “Lingua di terra”, ed. La Vita Felice, c’è una poesia che si chiama “Teorema di Fermat applicato alle derivate assenti”). Osservo la natura delle cose e provo, attraverso la poesia, a decifrare i loro preziosi segreti, la grammatica della loro bellezza. Cosa dirà mai la mia poesia, dunque? La materia viva della mia poesia gira attorno alla verità e alla bellezza. Scava a fondo come un archeologo, toglie la polvere come una madre e fa scorte di legna per l’inverno come un padre. Osservo l’eruzione del vulcano della vita e provo ad ammirarne lo spettacolo, a raccontarlo agli assenti, a custodirne i segreti e a difendermi. Il mio sguardo è uno sguardo particolare, uno sguardo che si concentra sui dettagli. E che va a fondo, smonta i giocattoli e li seziona in unità elementari. Attraverso la poesia faccio nuove trame con queste unità elementari, un po’ come riscrivere alfabeti tramandando il sapere sotto gli occhi di tutti, ma decifrabili solo da alcuni. Sartre affermava che “l’atto creativo si compie nella lettura”, io apro una delle mie poesie con questi versi “essere si è / ma mai senza il consenso degli altri”. Il rapporto con il lettore è dunque un rapporto privilegiato, ma anche e soprattutto, di sopravvivenza. Se non ci fossero lettori della mia poesia la mia poesia non esisterebbe. Se non ci fossero lettori che compissero l’atto creativo della lettura i miei versi semplicemente esisterebbero solo in un’altra dimensione, quella mia domestica e non si chiamerebbero più versi, ma in un altro modo. Questo significa che quanto pubblico è solo una minima parte di quello che scrivo in quanto i miei criteri estetici sono molto esigenti e severi. Infatti il più severo critico della mia poesia resto me stesso. Quello che ora mi preme è provare a semplificare, senza mai banalizzare, il mio processo creativo. Ed è forse la cosa più complessa che ci possa essere, la semplificazione. Perché non dimentichiamo che la poesia è fatta per il settanta per cento di parole e le parole sono uno strumento comunicativo tra i più astratti in assoluto. Quindi se “Lingua di terra”, raccolta di poesie che ho pubblicato con La Vita Felice quasi un anno fa, rappresenta la massima espressione dello sperimentalismo che fin qui mi ha caratterizzato, ossia un libro che oggi è chiaro a non più di dieci persone e che forse tra cinquant’anni verrà finalmente compreso nella sua interezza, “I piedi al muro”, il poemetto che ho dedicato alle donne saharawi, rappresenta quel cambio di rotta verso la semplificazione. Ci sto lavorando da almeno due anni ed è un lavoro per niente affatto concluso. In futuro questo poemetto cambierà forma, muterà e si trasformerà nella storia di una donna universale che intraprenderà un percorso di salvificazione. Ora, però, veste ancora i panni di una donna saharawi e mi sembrava giusto scattare una fotografia di quello che rappresenta ora. L’ho fatto grazie all’associazione culturale Rhymers’ Club e al suo progetto LettoriEditori che si basa sulla filosofia del found crowding. La tiratura è limitata a 99 esemplari che verranno stampati solo quando si completerà la raccolta di prenotazioni che si sta compiendo attraverso la piattaforma produzioni dal basso (http://www.produzionidalbasso.com/pdb_3187.html) e direttamente da me e dal Rhymers’ Club. È questo che deve fare la poesia, parlare alla gente e accarezzargli l’anima, anche perché la poesia non salverà il mondo, men che meno la mia, ma di sicuro “(…) la poesia / si fa ponte di barche / tra gli uomini” (“ponte di barche”, in “Lingua di terra”, La Vita Felice). La poesia non salverà il mondo, ma può salvare gli uomini. Gli uomini che leggono poesia. A salvare la poesia, infatti, non saranno i poeti, non saranno i critici letterari, ma solo i lettori grazie a quel compimento della creazione di cui sono artefici.

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2 risposte

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