I minuti sono anni di rabbia (la musica per inconsolabili di Salvatore Salemi)

Salvatore Salemi, Catania, 25 Marzo 1932 – 7 Gennaio 1992, costruisce e subisce il suo personale olocausto all’interno di una cabala jazz costellata da camere di poverissimi alberghi, passione per il bebop, elettroshock, viaggi, tracce di un amore polacco con epilogo a Parigi.
Della sua vasta produzione, non di rado improvvisata al modo fluente e allenato dei jazzisti che amava, poco rimane: Canti in gloria del popolo ebreo, Milano, Schwarz, 1956, Lettera a Edith, Catania, Giannotta, 1962, il racconto Soggiornando vicino, Napoli, L’alfabeto urbano, 1987, il romanzo Phil, Messina, Mesogea, 2007, distopica digressione su Filone di Alessandria, riemerso alla vita negli Stati Uniti contemporanei preceduto da una muta di lombrichi, venuto alla stampa postumo, grazie alla dedizione degli amici che di Salemi ebbero cura.
Sin da giovanissimo sarà esule nel proprio corpo segnato dalla ciclotimia e dalle cure micidiali, a base di scariche elettriche e farmaci, che ne ebbe nella clinica bene di una Catania che di lui si accorse di rado e solo per meglio negare questo suo figlio spurio, spina tragica e irrilevante nel fianco di gomma di una borghesia ignorante intenta a ritrarsi in posa amicale con padrini di mafia e cavalieri del lavoro. Illuminanti, in questo senso, le parole che dedica alla vicenda del poeta, testimone partecipe e diretto, Nino Recupero nel suo Catania, tra nostalgia sottile e vitalità irrefrenabile, Messina, Mesogea, 2005.
Figlio di agenti di viaggio, Salemi, da giovane, scopre casualmente una sua ascendenza ebraico-sefardita sepolta da stratificazioni secolari, dimenticata senza colpa o intenzione. Subito se ne appropria, attraverso lo studio, forse per l’urgenza di trovare una metafora ampia e ossessiva di sé, dei propri versi apolidi, delle albe senza rinascita che mille volte ritrae nel loro diuturno farsi e disfarsi: pittore di parole incastrate tra loro fino a farsi una o verso senza inizio, partitura senza fine, poema perenne a costruire durata, continuità, senso. Intriso di ogni Novecento, finirà per abbandonare gli scritti sui tavoli di un’osteria o tra le mani di un amico per il fatale appartenere al tempo corrente e vano che non vuole durata, non offre senso: “i miei minuti sono anni di rabbia”.
La città che si accorgeva di lui ne attendeva con pazienza le parole nelle varie lingue che possedeva. Non di rado imprecava in spagnolo e diceva d’amore in francese. Una sola lingua esiste per chi dalle lingue è posseduto (Miraglia): il fluire ora armonico ora sincopato del tempo e della storia. E tempo e storia intridono i versi di Salemi che di rado scrive al presente, ma sempre lo fa immergendoci in una dimensione che ci precede e ci segue. Nei suoi versi ognuno che legga è contemporaneo del tempo senza tempo di Aronne che muore dopo fatica, fede e idoli, di Edith, misterioso amore e intravisto altrove, delle ombre, della luce demonica di granate di fosforo, di Fulcanelli. Ognuno precipita dentro l’insonnia di una lingua che è perenne abisso, disgregazione, condanna e vocazione all’erranza: “non intimare l’alt/a chi non imbalsama varianti”. La dalia e la spina, il cuoio dei bagagli, i corridoi e le stazioni, il tempo dei profeti e le riviste militanti scorrono in un fluire psichedelico di insegne, scenari urbani, deserti, desolati cementi interiori della stagione del benessere, luce raggrumata di papaveri, improvvisazioni alla Charlie Parker, variazioni talmudiche.
Apocalittico in un tempo per ruffiani, di integrazioni e conventicole, perennemente impegnato in un corpo a corpo col male che egli stesso nega, quasi a metafora del tempo corrente, col male, col tempo, trova accordo tragico nel fare del proprio corpo poesia della dissipazione, palinsesto di piaghe esposte a monito e metafora di carne.
Negli anni tra il 1976 e il 1977, forse in una pausa più lunga concessa dalla malattia, curerà per la Rai regionale un Viaggio nel mondo del jazz del quale pare si conservi minuta in un archivio privato. Conobbe poi lavori saltuari finché la salute compromessa e la natura errabonda glielo consentirono.
Taluni illuminati ne ebbero cura fino alla morte che avvenne anonima dopo l’ultima doccia regalata da un tubo di gomma nel labirinto psichiatrico di un ospedale cittadino.
Chi scrive, per le ragioni del caso e dell’anagrafe, ebbe appena tempo di incrociare il poeta senza patria. Quanto scritto sulla biografia di Salemi è dunque frutto quasi esclusivo delle conversazioni con chi gli era amico e della preziosa nota che Gaetano Marcellino pone a chiosa della meritoria antologia di versi che la CUECM pubblicò nel 1998 a pochi anni dalla morte dell’errante.
Catania non è la Milano di altri che ebbero vita alternata tra manicomio e scrittura. I versi di Salemi, soprattutto, sono musica che non conosce carezza o consolazione: “all’angolo della stoppa dietro il cane/il rogo con la piovra e la gelata/rose di ghiaccio tenere dementi”.

Enzo Cannizzo

 

Da Canti in gloria del popolo ebreo

I
Le prime luci arabescano l’angoscia
della dalia prigioniera della spina
mentre nell’aria rotola una trina

che ora ammara in un fiordo oscuro

La dalia estremo petalo di trina
muschiato scarmigliato tumefatto
scivolante nell’acqua del mattino

mentr’Aronne accarezza un ragno azzurro

Un lamento di lava limonosa
un lamento di sciara nella sera
in una riva di rintocchi neri

mentr’Aronne accarezza un giro d’ombre

III
Il papavero si raggruma nella luce
sotto l’arco spento della curva
della terra lenta inviperita

mentr’Aronne prega nella notte

dov’era il pane la parola l’uomo
ora il vuoto dell’anima annerita
e il cerone sul volto del tuo popolo

niente canto llanto niente pianto

solo fiamme e urla disperate
in una macchia di gerani neri
e l’airone spare nella nube

e solo il folle attende la tua Voce

Da Lettera a Edith

Febbraio

tanti rumori grigi come l’alba
che s’apre sempre col solito rintocco
l’allodola del pianto
planava sulla spiaggia lievemente
livido d’ombra sulla scalinata
limbo di luna, falce, rododendro
pallottola di mare sulla tempia

era quel ponte
una losanga di ferro arrugginito

quanto salta l’acqua di quel fiume
i suoi confini tutti stabiliti
aveva trecce e sandali di giada
dentro un mantello umido di pioggia

bisonte curvo su muro di caverna

Marzo
andò così: che l’alba delle Furie
coi neri tram ronfanti dentro il buio
arse in un lampo, spenta in un boato

sotto la neve c’è forse un quadrifoglio
una candela accesa in Sinagoga
quattro pareti un bacio un libro aperto

Dai manoscritti

Figure del tempo

Mescolate bene le carte la mestizia
salda la fenditura dello specchio
e svia il ronzio delle frasi in rotta
ruvide senza fiato fiacche verdi
verso un sacchetto sfondato
l’ombra perdente dell’annaffiatoio
ringhia alla brezza oleosa il ritornello
del crepacuore a margine del prato

piedi barbuti con occhi di cobalto
sanguinano su bastoni da ciechi
l’alluce senza unghia sfiata zolfo

incendiato un convento di Orsoline
la colonna prepara trame in tundre
cacciando rose tatare e ginepro
sotto la sciarpa bianca

orfane del rogo ofelie in riga
svitano il pupazzo orang-outang
strappano i peli finti danno a fuoco
alla paglia di plastica
in breve il fumo
soffoca tutte le figlie del calvario

(1982)

Tutte le liriche sono trascritte dall’antologia curata nel 1998 da Gaetano Marcellino per la casa editrice catanese CUECM.

 

(in copertina di John Constable, Cloud Study, 1822)

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