Franca Mancinelli nella ph di Enrico Chiaretti
«Entrare nella taglia esatta della pena. Con il tremore di qualcosa di enorme, per cui dobbiamo ancora aspettare. (…) senza sapere, diramando, dove il flusso si perde, in cerca di rifugio, in volo spezzato, con qualcosa che bruciava dentro, piccoli passi nello stesso piccolo cerchio, sapendo di andare, in questo campo di forze dove puoi trovarti sulla bocca il silenzio di un altro». Parole “raccolte”, come dentro una fondata rêverie, in una sintesi impulsiva, attraversando “Libretto di transito” scritto da Franca Mancinelli, pubblicato da “Amos Edizioni”, nella deliziosa collana di poesia “A27” curata da Igor De Marchi (al quale, nel 2019, è subentrata Maddalena Lotter), Sebastiano Gatto e Giovanni Turra. Trentatré prose poetiche per una narrazione nevralgica distinta dalla capacità dell’autrice di alzare la realtà di un tono e, ancora Bachelard, restituirci lo spazio della immensità intima entro cui abitare, sanare e riavere («Qui ciò che cade indurisce nello spazio assegnato dal caso o dal destino. Cadendo si abbandona, perde ogni appartenenza. Inizia a crescere radici, sottili come capelli.»).
Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?
Potrei pensare alla poesia che apre Mala kruna, ma in realtà quel libro è stato preceduto dal sacrificio di un’altra raccolta che ho ancora in un armadio, tra taccuini e quaderni. Si sono accumulati negli anni riempiendo diverse scatole, come tante scarpe spaiate, di un’altra esistenza, o di più esistenze incompiute. Scrivendo in quel periodo tentavo di seguire la traccia incandescente della vita, ma mi ritrovavo sempre indietro, con il fiatone e un senso di colpa per non averla raggiunta. Così a un certo punto ho smesso di scrivere, per stare semplicemente in lei, a piedi nudi. Di quei tentativi iniziali restano brevi stralci che seguono i lineamenti di qualcosa che entra nel mio campo visuale e lo accende. Uno di questi che ricordo a memoria, e che credo risalga agli ultimi anni del liceo, dice così:
dovrei chiedere al postino se, cortesemente
potesse recapitarmi ogni giorno un biglietto,
magari scritto di suo pugno
ne sarei felice.
Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?
Ci sono versi indispensabili a cui dobbiamo potere ricorrere in qualsiasi momento, come un prontuario di salvezza. Per questo entrano nella nostra memoria, scorrono nel nostro respiro. Hanno lo stesso significato di una formula magica, di una preghiera. Chi li ha composti ha avuto quella particolare qualità di presenza che si irradia sugli altri perché vicina al mistero dell’essere al mondo, a quell’amore che ha percorso tutto il viaggio tra il dolore e la gioia. Ne riporterò alcuni che, in questo momento, uniscono i frammenti della mia esistenza, come il filo dorato del kintsugi. Sono versi di un poeta marchigiano prematuramente scomparso, Remo Pagnanelli. Milo De Angelis li ha riformulati in una poesia di Distante un padre, Remo nel gennaio conosciuto, riconoscendoli come il suo lascito e insieme portandoli a un loro postumo compimento: «c’è un amore più grande / di te e di me, me e voi nella specie, / acqua su acqua». Si può sentire il rumore del mare in questo ultimo verso, il movimento delle onde che raggiungono la riva e tornano verso l’aperto, e insieme qualcosa di definitivo, come un manto d’acqua che ricopre un’esistenza. Sono versi che hanno un potere cicatrizzante sulle ferite inflitte dalle relazioni umane, con i loro limiti e le loro forme cieche e parassitarie di amore. Riconnettersi a questo «amore più grande» vale come una ragione di vita, una direzione di senso, verso tutto ciò che è altrimenti destinato a deperire dentro confini fittizi.
Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
Sento sempre di più la poesia come la nostra possibilità di tornare dove ogni cosa è nel suo stato nascente, in quel flusso di trasformazione che precede ogni forma. Il nostro compito è fare in modo che la forma che diamo a questo nucleo di bellezza non sia una gabbia ma una custodia, che gli permette di apparire ai nostri occhi di umani, e resistere al tempo, continuando a portarci qualche filamento del suo mistero, qualche scaglia del suo significato.
Quando una poesia può dirsi compiuta?
Una poesia è una forma di vita, un organismo antico e senza tempo. È compiuta quando ha ricevuto tutte le cure e le attenzioni necessarie e smette di invocare la nostra presenza. Come un cucciolo quando non ha più bisogno del nutrimento della madre, e inizia la sua esistenza di adulto, sulle proprie zampe.
La poesia, necessita più di ascoltare o di essere ascoltata?
L’ascolto è la nostra radice: ci connette con le sorgenti originarie. Tanto più è profondo, tanto più possiamo trasmettere linfa ai nostri rami e crescere. Quando siamo in questa apertura, con tutto il nostro essere proteso, siamo in ascolto e siamo ascoltati. Non c’è ascolto autentico al di fuori di questa reciprocità.
Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
In questi giorni mi trovo a Calcutta per una residenza creativa. L’inglese è la mia sola possibilità di parola. Vivo nell’essenzialità a cui questo strumento mi porta, nelle fenditure che apre verso la lingua del corpo e ciò che si muove nel ritmo, prima di codificarsi in un significato. Sono cullata da una lingua che mi accoglie come una madre, senza distinguere i figli nati dal suo grembo da quelli portati dal vento. In questa infanzia restituita ho scoperto che una h all’inizio o alla fine di eart trasforma il cuore in una terra e viceversa. È questo che spetta alla poesia: riportarci bambini, nel movimento primigenio, dove ogni cosa continuamente accade e si trasforma. Sta alla nostra capacità di amare, ossia di fare attenzione, la possibilità di abitare il mondo, facendo della terra un luogo per vivere, e del nostro cuore una terra.
Collegandomi ai tuoi versi, “quale piaga insieme siamo/ distanti”, domando: la poesia può avvicinarci, può risanarci? Se può in che modo? Cosa può la poesia?
Una delle forme più acute di dolore che conosco, è proprio quella che viene dal ritrovarsi fisicamente vicini, ma separati da una profonda distanza. È una condizione che genera una sofferenza incessante e un continuo dispendio di forze, nel tentativo di colmare questo distacco, questa unità spezzata. La parola è il mezzo con cui cerchiamo di tornare a quell’unità originaria che ci appartiene. Questa «piaga» che si apre nella relazione con l’altro, in Libretto di transito è rivissuta come «frattura», «faglia». Grazie al dialogo con John Taylor, poeta e traduttore inglese di questo mio Libretto, ho potuto riconoscere come questa «falda» verso cui provavo sconfitta e impotenza, fosse in realtà qualcosa che andava accettato, perché irreparabile, e perché è proprio da lì che la vita affiora, anche se non prende la forma di un orto, ma l’intrico di erbe infestanti e velenose.
La parola poetica per preservare la propria efficacia comunicativa deve “esprimersi” usando il linguaggio del tempo in cui nasce e vive?
Certamente. La parola poetica non può non bagnarsi nella saliva degli uomini del tempo che attraversa, non può non essere percorsa dalle vibrazioni della loro voce. Appartiene alla quotidianità e insieme a un orizzonte sconfinato. Arriva a noi come una conchiglia: è lì, sul bagnasciuga, vicino ai nostri passi. Può essere raccolta, tenuta in mano. Possiamo tenerla sul comodino, sul nostro tavolo di lavoro. Eppure non sapremo mai da quale luogo proviene, come è nata. Il messaggio che ci porta si riformula di continuo, attraversa il silenzio e vi ritorna, come un’onda.
Il “poemetto in prosa” è, come ha osservato Maurizio Cucchi, la scelta stilistica destinata a imporsi nel futuro?
Non credo alle scelte stilistiche. Prendo atto di quello che accade. Se c’è un’intenzione, una volontà di direzione, assomiglia a quella che si esercita in mare, guidando una barca a vela. Il timone va voltato nella direzione opposta a quella in cui si vuole andare.
È vero che in alcuni periodi sono prevalse forme poetiche piuttosto che altre. Però mi rattrista pensare a una forma cosiddetta “vincente”, o “adatta” al suo tempo. È uno sguardo a posteriori che criticamente può riconoscere linee e correnti che si sono affermate. Pensarlo in anticipo mi sembra limitare l’orizzonte, impedirgli di apparire nella sua vastità.
Infine, per salutare i nostri lettori, ti chiedo di scegliere quattro poesie dai tuoi libri.
da A un’ora di sonno da qui
da Mala kruna (2007)
qua dove ogni parola è ramo rotto
albero di musica in riva al mare
quale piaga insieme siamo
distanti
solo saliva arsa, pesto petto,
ma se gli occhi appoggiassero ai tuoi occhi
ogni nodo al sangue sarebbe fiocco.
*
da Pasta madre (2013)
darò semplici baci di sutura
verserò saliva a ogni giuntura
sarò sbucciata e dolce ai denti.
Ogni mattino ti coglierò un pugno
di fiori dal selciato.
Per te avrò aghi sempreverdi
e sboccerò ogni inverno per bruciarmi.
*
da Libretto di transito
La sera, con una sigaretta tra le dita, guardando il cielo scurirsi come terra bagnata, mio padre annaffia. Quando è laggiù, nascosto dalle piante dei pomodori, nell’angolo più lontano del giardino, posso sentire dal pozzo l’acqua versarsi e scendere tra i granuli, fino alle radici dove è attesa. Qui, dove il flusso si perde, crescono erbe dure dal piccolo fiore, piante dal frutto velenoso. Ma non riesco a zapparle via, non riesco a riparare la falda.
*
Nel tuo petto c’è una piccola faglia. Quando lo stringo o vi poso la testa c’è questo soffio d’aria. Ha l’umidità dei boschi e l’odore della terra. Le montagne vicine con i loro torrenti gelati. Da quando l’ho sentito non posso fare a meno di riconoscerlo. Anche quando, uno dopo l’altro, nella tua voce passano uccelli d’alta quota, segnando una rotta nel cielo limpido.
La faglia è in te, si allarga. Un soffio di freddo ti attraversa le costole e ti sta scomponendo. Non hai più un orecchio. Il tuo collo è svanito. Tra una spalla e l’altra si apre un buio popolato di fremiti, di richiami da ramo a ramo, su un pendio scosceso a dirotto, non attraversato da passi umani.
(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 10.03.2019, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).