L’ancora, l’altrove, l’attesa, l’amore «che è tutto l’adesso», punteggiano “Il scappamorte” di Gian Mario Villalta (nella foto di Dino Ignani), pubblicato da “Amos Edizioni”, nella preziosa collana “A27 poesia”, a cura di Sebastiano Gatto, Giovanni Turra e Maddalena Lotter. Tra veglie e risvegli, sentiamo le parole «rotolare fuori dai contorni/ dai colori delle sembianze», sentiamo pulsare l’interrogativo imperituro, «saprai/ nella morte di essere morto?». Immobili, sentiamo il silenzio, «pare respiri». Poesia che risuona, che, direbbe Penna, lancerà la sua forza a perdersi nell’infinito, «tutto/ passa di vita in morte in vita in un istante».
Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?
Non ricordo una “prima poesia”, ma un quaderno con la copertina nera dove scrivevo andando a capo. Ho memoria molto incerta di pomeriggi di pioggia e di un mezzo verso “La gioia della pioggia”. Da ragazzo la pioggia mi piaceva molto, raccoglieva intimità, faceva entrare nello sguardo immagini più misteriose.
Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?
T.S. Eliot, A. Zanzotto, P. Celan, quelli che mi hanno più allarmato. Però tanti mi hanno parlato.
Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?
Da un po’ rimedito su Petrarca, e il verso del primo sonetto del Canzoniere, fra e vane speranze e il van dolore, mi si è attaccato e non va via. Dopo le scuole elementari non ho più imparato una poesia a memoria, ma più di una e moltissimi versi, mi sono rimasti in mente, anzi, come dicono i francesi, par coeur. Paul Celan, traduzione italiana: “Io sono te/ quando io sono io”, se ci pensi è abissale.
Qual è – nell’arco della tua giornata – il momento ideale per dedicarti alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?
La poesia è un lavorìo di suoni parole e immagini che non smette mai e talvolta si condensa on qualcosa che senti di scrivere, allora va bene tutto, qualsiasi pezzo di carta, benissimo anche le Note del cellulare. Ma la mattina, quando prende, è sempre il momento migliore. Hai tutto l’attraversamento del sonno ancora intatto, non sai che cosa è successo ma intanto la mente ha lavorato in un’altra dimensione. E quando va bene proprio la mattina arrivano cose che ti sorprendono.
Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
Con le parole di ogni giorno dire cose che con le parole di ogni giorno non potresti dire. La poesia riorganizza la lingua a tutti i livelli, costituendo qualcosa, quella cosa lì, quella forma senza la quale la lingua non potrebbe dire quello che dice.
Quando una poesia può dirsi compiuta?
Come diceva Giacometti per le sue opere, potrei dire che una poesia non si finisce, si abbandona. Il suo compimento avviene quando non succede più niente stando insieme, lei non ha più niente da aggiungere e tu neppure.
Qual è (dal tuo punto di vista) la lingua ideale della poesia?
Quella quotidiana, quella del tuo tempo. Il tempo adora la lingua! E la poesia la devi fare con quella, non esiste una lingua ideale, c’è quella che attraverso il tuo fare poesia scopre in te uno che può fare una poesia, proprio quella e proprio in quella lingua.
Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
Dare valore alla lingua, dare senso alle parole sul limite della percezione. Dare voce all’altra vita, più vera, che sentiamo dentro la nostra vita, come sentiamo una lingua più vera dentro la nostra lingua.
Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?
Non amo rifugiarmi nelle poesie, no, nelle poesie ci sono miniere. Faccio un esperimento: scrivo a memoria quattro versi di Cesar Vallejo che mi sono rimasti par coeur il mese scorso: “Me moriré en Paris con aguacero /un dia del qual tengo ya el recuerdo/ me moriré en Paris – y no me corro – / tal vez un jueves como es hoy de otoño”. Ovvero: “Morirò a Parigi in un giorno pieno di pioggia / un giorno del quale ho già mio il ricordo / morirò a Parigi – non mi sbaglio – / proprio di giovedì, come oggi, in autunno”. La traduzione è orrenda, l’ho fatta al momento, ma prova la grazia e l’implacabile lama affilata del testo ispanico.
Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare una tua poesia dal libro, “Il scappamorte” (perché – proprio – questo titolo?) e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quando “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
Il brano che riporto dalla poesia che dà il nome alla raccolta spiega tutto: da bambino volevo cogliere il momento del sonno, lo volevo inseguire fin dentro il buio della mio stesso dormire (quindi l’inconscio), ma poi di quel buio mi spaventavo, perché era lui a sospendere me, come quando (mi è capitato una volta) stai dentro l’acqua del mare tranquilla e all’improvviso sotto di te finisce la sabbia e si spalanca un abisso blu scuro, sempre più nero.
Versi da Il scappamorte, la poesia che dà il titolo alla raccolta:
Sono stato un bambino insonne.
All’inizio era tutto catturare il momento dello sprofondo,
quando l’io vigile si dissolve e subentra quell’altro che sogna
e sa che dorme. Non è stato facile rinunciare a un gioco
dove pareva possibile soffermarsi sulla soglia del perdere sé
e sorprendere – nella notte, nel buio della mente, afferrando
– l’istante, la chioma sua di cometa già dentro il niente.
Tra me e me lo chiamavo il scappamorte.
(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 18/10/2020, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).