Apparse per la prima volta nel 2005, nell’Annuario di poesia, edito all’epoca da Castelvecchi, le migliori poesie di Giovanni Burali d’Arezzo (confluite in questo volume, Il campo degli americani, elliot, 82 pp., 2019, 11 euro, dopo essere passate per una breve silloge) avevano un odore di Novecento. Un Novecento filmato da Bertolucci. Si aveva allora la piacevole e strana sensazione che il tempo si fosse fermato lì, tra Fenoglio e Pavese, in una qualche provincia dell’Italia centrale, davanti a un paesaggio comunque italiano, anche nei testi che ritraevano scene e azioni ambientate negli USA. Un’Italia dell’anima, se mi si permette l’espressione, trasportabile ovunque. Un’Italia liberata dagli americani e immortalata così, malgrado l’autore sia nato negli anni ’70. Un’Italia che forse per questo non si è mossa in modo sorprendente. Ma il seguito della storia italiana a Burali non interessa, o almeno non interessa alla sua poesia, nata forse per onorare (in modo pacato ma deciso) un piccolo mondo antico. È dunque un Novecento a colori, in cui risalta ogni tinta. Immagino soprattutto il marrone, il rosso e il rosa della pelle. E infatti la vena migliore del poeta è quella del ritratto. È raro nella poesia italiana d’oggi trovare ancora qualcuno a cui interessa ritrarre, per mezzo di una narrativa spezzata, ben sforbiciata, una piccola galleria di uomini feriti. Sono più e meno giovani, essenzialmente perdenti e anonimi (sebbene abbiano un nome e talvolta anche un cognome), ma diventano sotto la penna di Burali eroi veraci. Da notare (e non è un caso) che sono tutti uomini. Le donne appaiono di sguincio, come mogli e massaie. Questo è un mondo (e anche una scrittura) squisitamente maschile e mascolina. Perché la Storia, grande o piccola che sia (sembra dirci Burali) la scrivono gli uomini. Eppure questa constatazione non riesce a irritarci quando a esprimersi è proprio il mondo di ieri, che si legittima da solo. La genuinità di questa poesia, la sua rusticità che afferra oggetti di uso comune, si fonda proprio sul suo carattere desueto e forte. Udibilissimo anche oggi. Il libro si divide in due parti : “Il campo degli americani” e “Cover”. Senza smentire la prima, la seconda sezione (più breve) è ispirata al jazz, ancora al jazz di ieri, quello classico di Davis, Monk e Evans. È una sezione dunque molto più libera e le poesie sono brevi. Qui sparisce lo scenario rurale, la Storia e i dimenticati (uomini, zappe, e fucili) e si sente di più il corpo. Cosa significa? Che nella prima parte vinceva tutto sommato ancora la testa (l’idea di un mondo puro, sconfitto, ma idealizzato), mentre nella seconda viene abolita ogni idea e domina l’istinto, che è poi quello che permette al musicista di improvvisare e abbandonarsi fisicamente. Pare proprio di tornare a un altro tipo di passato, quello americano dei Mexico City Blues, le poesie partorite da Kerouac lungo la strada, come illuminazioni per effetto di droghe allucinogene, paradossalmente lucidissime. E altrettanto lucido è quest’autore, il quale ha dato alle stampe, pochi anni fa, una raccolta di prose dal titolo emblematico: Goodbye Gramsci (Carabba, 2016) dove ritroviamo lo stesso piccolo universo, tra domesticità, quiete apparente del paesaggio toscano e basso laziale, conforto degli oggetti e di un terra brulla, ma anche tragedia e soprusi visibili nelle cicatrici di piccoli grandi uomini sul punto di scoppiare, come vulcani. Lì come qui, di nuovo la sensazione che sia già tutto finito, magari proprio con l’arrivo degli americani. Ma questo non appare in modo diretto, è suggerito senza alcuna animosità. Si veda la conclusione di un esempio molto rappresentativo del libro, in cui credo stia tutto il nocciolo della questione:
Ristorante italiano
Sulle pareti malva maschere pompeiane,
foto di torri italiane e promontori.
Pasquale il pizzaiolo con lo stupore
negli occhi dal paese di Ciociaria schizzò
come un fuoco d’artificio.
Poi c’è Anna la lavapiatti buia come una grotta.
I fratelli del novecento italiano sono morti
Di una morte che non fu di nessuno.