Grazia Procino, docente di Lettere presso il Liceo Classico, ha pubblicato haiku nella raccolta collettiva edita da Fusibilia, la raccolta poetica “Soffi di nuvole” (Scatole parlanti, 2017) – Premio Speciale al Premio nazionale Poetika – e i racconti “Storie di donne e di uomini” (Quaderni edizioni, 2019). “E sia” (Giuliano Ladolfi Editore) è la sua seconda silloge poetica. Una sua poesia è stata selezionata per l’IPoet di gennaio 2019 da Lietocolle; sue poesie sono apparse su riviste specializzate come Poesia Ultracontemporanea e Poesia del nostro tempo. Maurizio Cucchi su “La Repubblica” di Milano e Vittorino Curci su “La Repubblica” di Bari hanno selezionato una sua poesia. Ed è con una sua poesia, dai toni ungarettiani, che introduciamo la nostra intervista.
Come fili di luce
appesi al balcone
in fine di festa
sta la malinconia.
Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?
È un ricordo assai vago, frequentavo le scuole medie e sperimentavo la scrittura; tentai la via poetica per esprimere i turbamenti tipici di quell’età; dopo poco abbandonai il tentativo perché i risultati non mi convincevano affatto. Ho continuato a leggere poesia in modo appassionato e continuo, ma non a scrivere: il ritmo della mia vita non me lo ha consentito per molto tempo e io mi “costruivo” come artigiana della parola, leggevo moltissimo ma non scrivevo. Poi, in me è sorta la necessità di scrivere, è sgorgata naturalmente la volontà e l’impegno nella scrittura è conseguito altrettanto naturalmente. Ho sentito che era arrivato il momento di dire qualcosa e mi sono impegnata a dirlo.
Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?
Sono molti, tra gli scrittori Saramago ( il primo in assoluto); tra i poeti Montale, Kavafis, Ritsos, i poeti meridionali Bufalino, Gatto, Bodini, Prete e il poeta caraibico Derek Walcott. Sono solo i più amati e i più letti, poi seguono altri.
Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?
Penso che sarebbe bellissimo che ognuno imparasse a memoria i versi del poeta preferito, come accade nel romanzo di Ray Bradbury; in ogni istante, infatti, potremmo riferirci a delle parole a cui ancorarci per non sprofondare. Io scelgo un poeta lucano Beppe Salvia e i seguenti versi:
Abbiamo nel cuore un solitario
amore, nostra vita infinita,
e negli occhi il cielo per nostro vario
cammino. Le spiagge i cieli, la riva
su cui sassi e rovi e il solitario
equisèto, e colli erbosi grassi
rioni, città dispiegate come
belle bandiere, e nude prigioni.
Questa è la nostra vita. Questi nostri
volti vagabondi come musi
di cani ci somigliano. Il vento
il sole le corolle rosse e blu,
i sogni mai sognati i nostri sogni.
Questa è la nostra vita e nulla più.
Questi versi mi consentono di parlare della solitudine, che è la cifra esistenziale dell’uomo, specie di quello contemporaneo, trasversale alle generazioni e ai generi. La solitudine è lo spazio individuale più creativo, è per questo che il poeta quando crea è solo, io adoro questo spazio del poiein in cui il poeta è faber. Ma la solitudine è frustrante quando è subita, non cercata e voluta, diviene un tunnel, una gabbia da cui si vorrebbe uscire, ma non se ne hanno le occasioni o le possibilità. Tutti noi siamo come cani solitari vagabondi, con dentro un cuore infinito, e negli occhi il cielo.
Qual è – nell’arco della tua giornata – il momento ideale per dedicarti alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?
Alda Merini ha detto: “I poeti lavorano la notte
quando il tempo non urge su di loro,
quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio delle ore”.
Probabilmente chi scrive si divide in scrittori che prediligono le atmosfere mattutine e quelli che traggono linfa di notte, io mi inserisco in una zona grigia perché mi capita di concepire dei versi sia di giorno sia durante i momenti di pausa dal sonno di notte. Ogni immagine, scena o parola ascoltata e vista può offrirmi la spinta a creare così come ogni momento è ideale alla creazione; non ne preferisco nessuno in particolare.
Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
In questa fase la definizione di poesia che più sento mia è:
“La poesia è
tentativo-
talvolta maldestro-
di accarezzare il buio.
Per me, che mi tengo lontana dal vuoto sperimentalismo e dall’avanguardismo di maniera, la conoscenza produce il piacere estetico, pertanto il mio continuo interrogarmi su domande esistenziali provoca una forma di conoscenza o un anelito indefesso alla conoscenza. Ciò che oggi, secondo me, caratterizza un’opera importante di poesia è la capacità di decifrare la realtà complessa, di vedere attraverso i simboli.
Quando una poesia può dirsi compiuta?
Probabilmente quando il suo autore, pur a distanza di anni, si ritrova alla perfezione con ciò che sentiva e voleva comunicare nel momento in cui l’ha concepita. Inoltre, una poesia è compiuta quando allude a qualcosa che non appare e continua a parlare, pur terminando.
La poesia può (e se può in che modo) restituire purezza alla parola?
Il poeta grazie alla ricerca coscienziosa e onesta della parola fa un’operazione etica oltre che estetica, trova la luce nella lingua e la restituisce sotto forma di nitore e purezza. Elias Canetti disse che “chi ha troppe parole non può che essere solo”, io non voglio essere sola, quindi cerco parole bastanti a procurarmi compagnia.
Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
Mi piacerebbe che la poesia fosse a disposizione di tutti, almeno di quanti desiderino maneggiarla per afferrare il senso della precarietà e della sofferenza umana. Oggi il compito della poesia è quello di restituire la complessità e la mutevolezza della realtà, la sua estrema precarietà, con parole che smuovano i lettori. Il verbo latino movere è quello più vicino alla conseguenza che, secondo me, la poesia deve produrre nel lettore.
Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?
Il mio rifugio solito sono questi versi di Kavafis:
E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balìa del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti,
fino a farne una stucchevole estranea.
Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori a scegliere una tua poesia dal recente libro (“E sia”) e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
La poesia “Quello che resta” ha avuto molte e travagliate stesure, non credo all’esplosione dell’ispirazione, ma al labor limae continuo e paziente; quella definitiva è la seguente:
Quello che resta
Mi chiedete, quello che resta.
Davvero, non lo so.
Forse la tana dei vermi
nel terreno grasso e umido.
Le vite dei santi e le stanze dei detenuti.
I giorni mai uguali l’uno all’altro
i minuti di sofferenza sempre uguali.
Le contusioni violacee, e il tempo
dopo le bufere. Tu che mi chiami
e mi dici:
«Come stai?»
Le voci querule di chi simula
stati di malessere. Il dolore
di ognuno infisso nelle pupille.
Tu che ammetti di stare sbagliando
a indovinare la vita.
Nella stesura iniziale mancava l’interrogativo centrale che interrompe la sequela delle cose permanenti e il finale era diverso: “io balbetto nel rifiatare parole”. Ho introdotto il tu con il discorso diretto per vivacizzare il ritmo e rendere di maggiore impatto emotivo la chiusa.