Recinzioni
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Della foto in copertina
La foto in copertina, in bianco e nero, è di Anna Beata Bohdziewicz e ritrae il poeta polacco nell’atto di accendersi una sigaretta. Un gesto semplice. Eppure, dal pilastro espositivo in cui i commessi della Feltrinelli hanno posto il libro e grazie ai quali scopro che Adelphi ha finalmente pubblicato un’antologia delle sue ultime raccolte, trovo l’immagine potentissima: e rivelatrice.
Ne prendo una copia, quella senza il bollino che indica lo sconto del venticinque per cento applicato in quel momento su tutta la “Biblioteca Adelphi”, di cui il libro – il seicentocinquantacinquesimo della collana – fa parte, e vado a mettermi comodo sui divani.
Grazie al sapiente uso della luce, la figura del poeta emerge da un rettangolo di buio fitto. Vediamo il dorso e le dita della mano destra, il colletto della camicia, il viso lunare, l’espressione concentrata della fronte, la testa china protesa leggermente in avanti, lo sguardo basso, il busto già mangiato dall’oscurità.
Le linee mi paiono intersecarsi nel punto in cui si trova il bagliore del fiammifero acceso, il punto non a caso più luminoso dell’intera foto. Non posso non pensare che in quella fiammella, pur debolissima e precaria, anzi proprio perché debolissima e precaria, la fotografa abbia voluto addensare il senso stesso del suo scatto, che quella fiammella sia insomma un simbolo.
Che sia simbolo della poesia, è un pensiero che mi giunge immediato e chissà, forse non a torto. Che però la fiammella non sia l’unico elemento instabile e provvisorio della foto ci arrivo dopo, quando, animando mentalmente la scena, volendo fare dello scatto una sequenza, fissando lì sui divani della Feltrinelli il riquadro inferiore della copertina del libro, mi accorgo che per lasciarsi del tutto inghiottire dall’oscurità, a Zbigniew Herbert basterebbe compiere un passo indietro, solo un passo per sparire; e allora glielo lascio fare, il passo indietro, non prima però che la sigaretta sia stata accesa e che il poeta abbia alzato per un attimo la testa, ed ecco che uno dei miei scrittori preferiti si sottrae alla luce, e nello scatto non rimane che la fiammella, la poesia, assediata dal buio, e tremolante.
Una fantasia, d’accordo: uno scatto è uno scatto, non c’è né un prima né un dopo. Ma la brevissima sequenza che ho immaginato – la sparizione del poeta – non può essere del tutto arbitraria, tanto più che L’epilogo della tempesta, raccogliendo come ho detto gli ultimi libri di versi pubblicati dal poeta polacco, predispone già dal titolo a un congedo, quello definitivo della morte. Che in Herbert non è né malinconico né lacrimoso, ma improntato anzi a quella filosofia stoica che consustanziò tutta la sua vita: «Il tempo è giunto dobbiamo prendere commiato […] sono calmo dobbiamo prendere commiato / i nostri corpi hanno assunto il colore della terra» (Commiato).
La stessa permanenza precaria della fiammella, con l’oscurità che da ogni parte incombe e ne minaccia l’esistenza (il buio come il male della Storia, a mio modo di vedere) mi sembra essere in linea con l’idea antiretorica e antiromantica che Herbert ha del poeta prima (solo un giullare, un imbrattacarte: per somma modestia, aggiungo io) e della poesia poi, che sopravvive, sì, ma con quale esercizio di pazienza, come scrive qui, in un testo intitolato Le parole: «Non hanno ancora detto tutto // pazienti come i costruttori delle piramidi / ostinate come i condannati al circolo polare / bruciate sui roghi […] sono pazienti // sono sopravvissute al diluvio / sono sopravvissute a Hammurabi / sopravvivranno ai cervelli al guinzaglio».
Penso inoltre a quanto sia singolare che per il volume che raccoglie le ultime raccolte di Herbert – uomo schivo, per nulla incline a raccontare di sé in poesia o a indulgere a sentimentalismi di natura privata, e che anzi aveva fatto della trasfigurazione storica e mitologica del dato biografico una cifra del suo stile – l’Editore abbia scelto di mettere in copertina una sua foto. Mi sembra, sulle prime, una incongruenza. Considerato anche che per Rapporto dalla città assediata Adelphi, nel 1993, scelse come immagine (ma questo sarò in grado di verificarlo dopo, una volta a casa, curiosando in terza di copertina) Alfeo, da una illustrazione tratta dal Thesaurus Graecarum Antiquitatum di Jacobus Gronovius.
Alfeo, appunto: un fiume del Peloponneso, assurto poi a divinità, che ha come caratteristica principale quella di scorrere per larga parte sottoterra, invisibile quindi, così come sotterraneo e invisibile risulta essere il dato biografico nei libri di Herbert.
Perché dunque la foto?
La risposta me la dà, a una lettura veloce ma curiosa, mentre accanto a me sui divani qualche occasionale lettore si avvicenda, la postfazione della curatrice e traduttrice del volume, Francesca Fornari. Vi giungo subito dopo aver dato una scorsa all’indice (tre raccolte antologizzate, pubblicate tutte in vita – l’ultima delle quali, L’epilogo della tempesta, titolo eponimo della raccolta italiana, è uscita nel 1998, poco prima della morte del poeta, avvenuta lo stesso anno – più un’ampia scelta dal ricco materiale inedito curata nell’edizione polacca dal poeta Ryszard Krynicki). Fornari scrive che le ripercussioni politiche e culturali determinate dalla fine del comunismo e dalla caduta del muro di Berlino generarono nella poesia del poeta polacco un cambiamento irreversibile: «Scrivevo poesie serie, tragiche» confessa Herbert in un’intervista del 1991 a Newsweek «e adesso scrivo sul mio corpo, sulla malattia, sulla perdita del pudore».
Una rivoluzione tematica, quindi. Indotta da quella che Fornari chiama «svolta psicologica». Che giustificherebbe pertanto la scelta di Adelphi di inserire in copertina la foto dell’autore. Molto più frequentemente di prima, sebbene Herbert non rinunci affatto al nucleo primigenio del suo fare poesia, si affacciano infatti contenuti più strettamente riconducibili alla sfera biografica: la fede («Certo padre lei non mi seppellirà in terra consacrata», Omelia), gli amici morti («se ne andavano / a coppie / a gruppi / individualmente», Il Signor Cogito sul tema assegnato: Gli amici se ne vanno), la memoria e il tempo («constata senza soddisfazione / la ferrea necessità delle rotazioni terrestri / il susseguirsi delle stagioni / l’implacabile ticchettio degli orologi», Le agende del Signor Cogito), l’esperienza ospedaliera, la malattia e la morte («Signore, Ti rendo grazie per le siringhe con l’ago spesso o fine come un capello […] grazie per la flebo, i sali minerali, le cannule, e soprattutto per le pasticche di sonnifero dai melodiosi nomi di ninfe romane, // che sono buone perché chiamano, ricordano, sostituiscono la morte», Breviario).
«Elegia per l’addio»
Elegia per l’addio è la settima raccolta di Herbert, uscita nel 1990. Già in Rapporto dalla città assediata, antologia pubblicata da Adelphi nel 1993, Pietro Marchesani, a chiusura del volume, ne aveva tradotto alcuni testi, quattro per l’esattezza, un numero però così esiguo da far pensare che a ridimensionarne la scelta siano intervenute precise indicazioni editoriali. La nuova curatrice, Francesca Fornari, decide infatti di presentare al pubblico italiano altri quindici testi tratti per l’appunto da Elegia per l’addio, tale che le due curatele, più che completarsi, sembrano compenetrarsi.
La poesia che apre il libro, La famiglia Nepenthes, sembra dirci che il male non abita soltanto la Storia, ma è profondamente radicato anche nel regno vegetale. Lo spunto proviene da una pianta carnivora, la nepente, «quello scandalo» che, smentendo chi vede nella Natura bontà e innocenza, «attira gli insetti a un banchetto insidioso». Ma Herbert è tutt’altro che un poeta naturalistico e la descrizione dell’ingannevole pianta gli serve soltanto per portare il discorso, sempre, sull’Uomo e gli organismi politici e repressivi che esso costruisce, tanto che già al verso successivo non esita a paragonarla alla «polizia segreta di una certa superpotenza»; e la poesia si chiude con tre versi da mandare a memoria: «e noi viviamo in armonia con la nepente / tra campi di concentramento e di sterminio poco ci importa / di sapere che nel mondo vegetale l’innocenza – è assente».
Nella poesia successiva, in quella che, insieme a La famiglia Nepenthes, forma uno splendido dittico, Herbert continua ad attingere dal regno vegetale. Il prugnolo – questo il titolo – che, a dispetto del «gelo polare» che ne sconsiglierebbe le intenzioni, fiorisce prima di altri arbusti, diventa metafora di giovanile intemperanza, di gioiosa e vitale imprudenza, «come gli insorti che malgrado gli orologi della storia / malgrado le peggiori previsioni / malgrado tutto iniziano».
In un altro testo, Un cuore piccolo, il poeta polacco riflette sulla guerra e sul concetto di colpa e di perdono. Non importa se la storia sembra confortarci del fatto di avere combattuto dalla parte giusta, non importano i proponimenti di rimozione o che per tutta la vita si sia provato a pulire «con l’acqua della pietà / la fuliggine il sangue le offese», prima o poi bisogna fare i conti con la propria coscienza: «il proiettile che ho sparato / da una piccolo calibro / nonostante le leggi di gravitazione / ha fatto il giro del globo / e mi ha colpito alle spalle / come volesse dirmi / che niente a nessuno / sarà perdonato».
In Supposizioni in merito a Barabba le considerazioni di Herbert si fanno ancora più amare: quali sono state le sorti del detenuto dopo il rilascio, «Lui Imperatore delle proprie mani e della testa / Lui Governatore del proprio respiro»? Terrorista, forse? O Vasaio («e pulisce le mani macchiate di delitto / nell’argilla della creazione»)? Mulattiere? Usuraio? Proprietario di navi? Spia al soldo dei romani? Herbert ci dice, senza mai calare il pedale della retorica, che una serie infinita di possibilità si aprono sempre per i malfattori, i delinquenti, per tutti i Caligola e i Barabba della storia, mentre «il Nazareno / è rimasto solo / senza alternativa / con il ripido / sentiero / di sangue».
Sto per passare al secondo libro antologizzato, Rovigo, quando sono distolto dall’avvicinarsi di un commesso. È un tipo atletico e ha i tratti del viso di un messicano – baffetti e colorito olivastro. Mi chiede se posso poi gentilmente riposare agli scaffali la pila di libri che ho preso in lettura. In effetti alla mia destra, così vicini da far pensare che possa essere stato io a portarceli, giacciono cinque o sei libri. Non faccio in tempo a rispondergli che non sono miei, i libri, che non li ho certo presi io, che il commesso è già via, intercettato dalle richieste di una cliente. E d’accordo, sì, ci penso io, non preoccuparti: dopotutto ho fatto il tuo stesso lavoro per cinque anni.
«Rovigo»
Il Ponte del Sale, altra meritevole casa editrice, ha pubblicato Rovigo per intero nel 2008, con una prefazione del poeta Mikolajewski e con le traduzioni di Andrea Ceccherelli e Alessandro Niero. Ne ho acquistata una copia all’inizio di quest’anno, dopo essermi procurato Rapporto dalla città assediata e volendo leggere qualcos’altro di Herbert. È un libro uscito nel 1992. Francesca Fornari ne sceglie per Adelphi i testi più rappresentativi, diciassette per l’esattezza.
A partire già dal titolo, c’è molta Italia in questi versi. Rovigo è «un capolavoro di mediocrità», una città di passaggio mai visitata, che dalla stazione ferroviaria si presenta uguale a tante altre, strade dritte, brutte case, eppure «una città di sangue e pietra – come altre / una città dove ieri qualcuno è impazzito / qualcuno per tutta la notte ha tossito terribilmente».
Alle nuvole che attraversano il cielo di Ferrara, alla loro strana forma («oblunghe come navi greche / tronche al di sotto») che il poeta aveva prima visto in un dipinto del Ghirlandaio credendole un gioco della fantasia del pittore, dedica una delle poesie più belle e aeree della raccolta: «è in loro / non negli astri / che si decide / il destino».
I temi fondamentali della raccolta rimangono la vecchiaia, la morte, la memoria, i libri, la sopraffazione ai danni dei deboli («Con la legge dei lupi hanno vissuto / per questo la storia ne ha taciuto / di loro resta per sempre nella buona neve / urina giallastra e quell’impronta di lupo», I lupi).
«L’epilogo della tempesta»
Nonostante si tratti dell’ultima raccolta del poeta polacco ormai settantaquattrenne, L’epilogo della tempesta contiene alcuni tra i testi più belli del suo percorso creativo. Smesse le maschere mitologiche, storiche e bibliche che mettevano una distanza tra l’io del poeta e il lettore, Herbert si mette in mostra, si confessa, come nelle tre poesie intitolate Breviario («non farò più in tempo / a riparare alle offese / né a chiedere perdono a tutti / coloro a cui ho fatto del male / per questo la mia anima è triste»).
Il Signor Cogito. Ars longa è poi una vera e propria dichiarazione di estetica, in cui mi sembrano condensarsi le ragioni della sua poesia insieme a quell’ironia sottile che, a quanto pare, non lo ha mai abbandonato: «in ogni generazione / compaiono quelli che / con ostinazione degna di miglior causa / sognano di strappare la poesia / agli artigli / della quotidianità // già da giovani / entrano nell’Ordine / della Santissima Sottigliezza / e dell’Ascensione // sforzano mente e corpo / per esprimere quel / che è al di là di – / quel che / è al di sopra di — // non intuiscono nemmeno / quante promesse / attrattive / sorprese / nasconda in sé la lingua / con cui parlano / tutti / Orazio e il mascalzone».
Chiudo il libro. Rimando a dopo, una volta a casa, la lettura del materiale inedito, mi guardo intorno, c’è poca gente. Sarà passata almeno mezz’ora, spero di non perdere l’autobus. Noto che il commesso messicano sta prendendo le scale per il piano di sopra. È il momento, mi alzo, lascio i libri lì dove sono, dopotutto non sono miei, pago: no, niente busta, grazie!
All’uscita mi blocca un tale, un piede sul gradino, avrà circa sessant’anni; mi chiede se per caso avrei da accendere.
Da una teoria dei sogni non scritta
Alla memoria di Jean Amery
I
I carnefici dormono tranquilli fanno sogni in rosa
probi autori di genocidi già perdonati
dalla corta memoria umana – stranieri e nostri
un vento mite sfoglia le pagine degli album di famiglia
le finestre della casa aperte su agosto l’ombra del melo in fiore
sotto cui si è radunata la stirpe onesta
la carrozza del nonno la gita alla chiesa
la prima comunione il primo abbraccio della madre
il falò nella radura e il cielo stellato
senza segni né misteri senza apocalisse
e così dormono tranquilli fanno sogni sostanziosi
pieni di cibo bevande di grassi corpi femminili
per i giochi d’amore nel folto dei boschetti
e su tutto finisce la voce indimenticabile
una voce pura come una fonte innocente come un’eco
su un ragazzo che ha trovato una rosa in un prato tra i brughi
la campana della memoria non risveglia gli spettri né gli incubi
la campana della memoria ripete la grande assoluzione
si svegliano presto al mattino pieni di volontà di potenza
radono accuratamente le guance da mercanti
dispongono i restanti capelli come una ghirlanda di lauro
sotto l’acqua dell’oblio che lava ogni cosa
spalmano il corpo con sapone di marca Macbeth
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II
Ma perché il sonno – rifugio di tutti gli esseri umani
nega la sua benevolenza alle vittime della violenza
perché di notte sanguinano tra lenzuola pulite
ed entrano nel letto come in una stanza della tortura
come in una cella della morte come all’ombra della forca
eppure anche loro hanno avuto una madre e hanno visto
il bosco la radura il cielo il melo in fiore la rosa
chi ha esiliato tutto ciò dai recessi dell’anima
anche loro hanno vissuto attimi di felicità perché dunque
i loro ululati svegliano di notte i vicini innocenti
e scattano di nuovo verso una fuga folle
battendo la testa contro il muro per poi non dormire più
fissando ottusamente l’orologio che non cambierà nulla
la campana della memoria ripete il grande terrore
la campana della memoria suona invariabilmente l’allarme
è davvero difficile dichiarare che i carnefici hanno vinto
le vittime sono sconfitte per tutta l’eternità della vita
e dunque devono conciliarsi da sole con quel castigo senza colpa
con la cicatrice della vergogna l’impronta delle dita sulla guancia
con la vile volontà di sopravvivere la tentazione di perdonare
e il racconto dell’inferno risveglia ormai legittimo disgusto
ora non c’è più un luogo sporgere denuncia
i verdetti inesplicabili li emette il tribunale dei sogni
1969-1980
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Zbigniew Herbert, nato a Leopoli nel 1924 e morto a Varsavia nel 1998, è considerato tra i massimi poeti europei del Novecento. È autore di nove libri di poesie, una raccolta di drammi e di due saggi. Nel 1993 è uscita in Italia, per Adelphi, una antologia che raccoglie il meglio della sua produzione poetica, tratta dai primi sette libri di Herbert, Rapporto dalla città assediata, con una indimenticabile introduzione di Iosif Brodskij. Nel 2008 la casa editrice Il Ponte del Sale ha curato l’edizione integrale della penultima raccolta del poeta polacco, Rovigo, tradotta da Alessandro Niero e Andrea Ceccherelli.