Era in ritardo, lo sapeva. E sapeva anche che con tutta probabilità il suo responsabile l’avrebbe sicuramente accolto con parole acide. Lo sognava quasi tutte le notti, il suo superiore, e ogni volta lo uccideva in modo diverso. Una volta lo fece annegare lentamente in una grande piscina piena di zuppa cinese in brodo. L’odore nauseante della soia gli arrivava al naso eppure provava un serio compiacimento mentre l’altro tentava di aggrapparsi al bordo della vasca mentre lui lo respingeva indietro con un wok dal manico d’acciaio, dandogli dei colpi secchi sulle falangi che tentavano disperatamente di stringere il bordo della piscina. Finché non si lasciava andare esausto nel fondo di quella brodaglia nella quale galleggiavano pezzi di chissà quale verdura o animale. Altre volte lo sopprimeva in un modo più “intellettuale”. Nel sogno lo faceva sedere su un banco di scuola, mentre lui gli girava intorno facendogli strane domande del tipo “Chi fu il più grande conquistatore del mitocondrio ortogonale alla seconda?”, oppure “Nella commedia del greco Souvlaki, chi prende di mira in modo ironico il secondo Suv parcheggiato a destra nella fila centrale del supermercato?”. E quello giù a piangere, fino a farsi venire una crisi respiratoria e crollare la testa sul banco, con gli occhi sbarrati e un filo di bava che gli colava su di un quaderno aperto, sul quale c’erano, perfettamente ordinati in tre colonne, i nomi e i cognomi di tutti i presidenti del consiglio dal dopoguerra a oggi. Ma nonostante questi sfoghi onirici non riusciva proprio a trovare piacere, né durante il sonno né appena sveglio. Si alzava, si vestiva, faceva colazione e pensava di essere in ritardo. La veglia aveva resuscitato colui che il sogno aveva condannato. O forse era il contrario? Forse era proprio la notte che riportava in vita ciò che il diurno tentava di sopprimere. La realtà tendeva a dimostrargli quanto la sua vita cercasse di liberarsi da quello stato di cose, andando incontro, come per misurarsi, a quel desiderio profondo che il sogno gli comunicava? Da dubbio si trasformò in certezza. Non siamo mai in due mondi separati e quando ci avviciniamo a ciò che ci troviamo a vivere, non si ha certo l’impressione che quello sia un evento estraneo per i nostri sensi. Cerchiamo di negarlo, è vero. Scrutiamo in tutti i pertugi possibili del destino, della fatalità, della sfortuna, ma non troviamo nulla. Sappiamo bene che avremmo tanto bisogno che esistessero le forze avverse, le congiunture sbagliate, le condizioni che ci rendono i reietti dell’universo. Eppure, se riuscissimo a smascherare le nostre stesse menzogne, non sapremmo poi contro chi scatenare le tempeste che vogliono, pretendono, desiderano abbattersi sulla realtà esterna. Era in ritardo. Guardò l’orologio. Non avrebbe fatto in tempo. Lo sapeva fin da quando usciva di casa e guardava quei numeri sullo schermo del telefono: una, due, trenta, cento volte. Passava più tempo a controllare l’ora che a muoversi. “Allora,” pensò per un attimo, appena uscito dalla metropolitana, col piede sull’ultimo scalino che portava in superficie, là dove la città lo attendeva coi suoi ostacoli, “allora lui voleva essere in ritardo. Voleva ritardare! Ne aveva bisogno! Abbassò lo sguardo: aveva affondato la suola delle scarpe in una morbida, abbondante, e scivolosa merda di cane. Restò lì, immobile. Il piede fieramente puntato in avanti, l’altra gamba dietro a dare una posa eroica, come quelle dei condottieri che si sporgono in avanti brandendo la spada e alzando fieramente la testa. Si sentì protagonista. Quella non era una semplice disavventura quotidiana, una banale casualità di un mondo a lui avverso, una situazione sociale, storica, politica che tentava di negargli il passo! No, quella era la sua vita. La sua, non di altri o per altri o da altri determinata! Sorrise e continuò a camminare senza pulirsi la scarpa che lasciava impronte inequivocabili. Arrivò in ufficio in ritardo. Il suo superiore spuntò subito da dietro la porta, come se lo stesse aspettando, e gli disse subito: “È già la terza volta questo mese!”. Lui lo guardò come sempre: con quello sguardo che voleva chiedere scusa, sentendosi in difetto piuttosto che dalla parte della ragione, della comprensione, dell’umanità. L’altro si voltò, bofonchiando tra i denti chissà quale altro insulto che gli veniva risparmiato frontalmente. Allora fu un attimo. Nemmeno se ne rese conto. Lo fece in modo naturale, gli venne molto facile. Mentre la sua scarpa spalmata di ciò che restava della cena di un bel cagnone si stampava all’altezza della natica destra del suo superiore, là dove sporgeva il rigonfiamento del suo portafogli, e gli lasciava impressa sui bei pantaloni blu il contorno del suo 42 di piede, sentì queste parole che gli uscivano dalla bocca: “E questa è la prima volta, oggi!”.
(in copertina Egon Schiele, dettaglio)