Andre Kohn x VERA di Letizia Dimartino
Andre Kohn

 

Inediti d’Autore

Vera ha un nome poco ingombrante. Se lo è sempre portato dietro con leggerezza, fiera delle poche lettere che lo compongono. Tiene nella sua grande borsa più di un libro, ogni tanto cambia titolo ma preferisce quasi sempre gli stessi. Li legge e rilegge nei momenti di pausa. Seduta sulla panchina del “suo” ospedale. In tanti le girano intorno ma lei non si accorge di nessuno, nell’ora del riposo. Pensa: e se rinascessi, che sarei? Svegliarmi uccello o scimmia. Svegliarmi lontana in un altro paese, fra i tetti rossi di una città del nord. Immagina il suo risveglio, in altro ambiente, con la neve sulle sue scarpe leggere, sotto un cielo denso di nuvole mai conosciute, quelle che mettono paura nelle sere di fine estate e l’imbrunire incombe improvviso sulle giornate fattesi inaspettatamente brevi.

“Mauro caro,

è da tanto tempo che penso di scriverti. L’ultima volta che te ne sei andato ero ancora impreparata alla tua fuga. La tua sacca da viaggio l’ho trovata posata a terra, vicino alla porta, ma il caffè mi attendeva in cucina, gorgogliava e tu lo avevi dimenticato, come sempre sul gas. Mauro dove vuoi andare, adesso? Dimmi quando dimenticherai l’idea che non esiste solo il mondo ampio e infinito oltre la città che ogni volta scegli in base ad un qualche progetto a me sconosciuto. Vorrei che tu, ora che sei il figlio trentenne di una madre non più scomoda e da nascondere, ritornassi a casa, in una qualunque casa di questo paese che tu sai quanto io ami e che scelsi, ormai tanti anni fa, per farti vivere anni luminosi. Immagino spesso il tuo ritorno definitivo, quando non sentirò il tuo passo sulle scale ma verrai improvviso nella mia camera da letto e mi sveglierai nella notte, una delle tante notti, in cui cerco con molti sforzi di dormire quieta senza pensare ai miei malati in corsia. Ci sarai invece tu ai piedi del mio letto, che è sempre lo stesso su cui saltavi sudato e col fiato corto, la sera, prima dei rituali notturni, nel tuo pigiama azzurro, ci sarai tu dicevo, a spiare il sonno calato improvviso: la luce della lampada sul comodino ancora accesa, il libro, sempre lo stesso, posato sul mio petto fra le lenzuola e la camicia da notte. Aprirò gli occhi, leggermente, e non avrò paura perché un presentimento mi avrà avvertita, nel sogno, del tuo arrivo. L’arrivo del sempre. È così che tornano gli eroi. Credendosi inaspettati. Con il sorriso dolce sulle labbra, i capelli ancora arruffati dalla sera invernale, il sapore del lungo viaggio sulle labbra screpolate, l’odore del viaggiatore sui vestiti stropicciati, odore di treni o aerei, di gente, di donne e sconosciuti. Questo mi porterai fra le coperte del mio letto quieto che non conosce altri da tempo, solo il sentore di disinfettante che impregna le mie dita invecchiate. È così che tornano anche i perdenti. In qualunque modo tu voglia tornare, non scegliere, ma torna in ogni modo fra le mie cose solitarie perché ho bisogno di qualcuno che sorrida con me al mattino quando il caffè viene dimenticato sul gas. Perduto il gusto delle partenze, fingo di rimanere fra i tetti rossi di una delle tante città del nord che tu conosci così bene. Inventami un arrivo e che sia l’ultimo”.

“Caracara mamma,

chi sta fermo pensa sempre alle stesse cose. Come le molte madri del mondo, mi vorresti immobile, accanto ai tuoi oggetti solitari pensando di crearmi una vita soddisfacente solo perché esisti tu nel tuo letto che non accoglie più nessuno da tempo. Non mi riesce, credimi, di pensarti nella tua stanza “coniugale” con la luce fioca della lampada che accompagna le tue notti poco serene (ma quando lo sono state mai?) e con il tuo libro – ma perché sempre lo stesso? – posato sul tuo petto che l’ultima volta ho scorto troppo scarno. Mi chiedo se mangi in mensa insieme ai tuoi colleghi, il cibo dall’odore troppo pesante – lo ricordo o lo immagino, non so più – e come oleoso. Tu ormai scosti il piatto con troppa facilità e niente della tavola ti entusiasma. Non serve immaginarsi uccello o scimmia, vedersi fra i tetti rossi delle mie città del nord per potersi sentire vivi, sai, neanche nelle giornate tranquille perché, questi tuoi, sono poveri sogni e mi spiace sentirli ripetere immiseriti dalla polvere degli anni che avanzano senza ebbrezza. Cosa rimarrà di te, oltre la solitudine che ti sei creata piano piano dando al presente il sapore del dolore? Il giorno in cui tornerò sarà per poco, e tu lo sai. Non chiedermi di inventarti un ritorno e cerca di non immaginarlo in maniera così struggente. Accoglimi con levità perché esso avrà un senso per me, solo per me. Il senso che a te è giusto non sia dato, non certo perché ti è negato. E poi potrai rinascere, ma donna, mamma, solo donna”.

Mauro esce sul balcone che si affaccia sui tetti rossi e sbrecciati della città da poco addormentata. C’è un chiarore rossastro, una nuvolaglia densa e come arrugginita sulle case basse delle vie strette. Sa che respirare fa bene in questa ora della sera in cui tutto è fermo. Dentro, oltre la vetrata da poco spalancata, giace sul letto, sotto la luce azzurrata di un antico lampadario, la valigia dei suoi grandi viaggi, la più ampia. Da essa pende la manica di un maglione logoro ancora da piegare, gli altri abiti attendono qui e là raccolti per essere riposti dentro in maniera ordinata, la maniera dei lunghi viaggi.

 

 

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