All’amica Ilaria, che non soltanto
nel nome mi ricorda L’allegria.
Ingeborg Bachmann pubblicò nel 1961 la traduzione in tedesco di cinquantatré poesie di Giuseppe Ungaretti[1], tratte per lo più da L’allegria. Quando il primo giugno 1970 Ungaretti morì, Ingeborg scrisse di getto un breve ricordo che uscì postumo quattordici anni dopo nell’edizione completa delle Opere[2]. Esso è però la versione finale di un lungo abbozzo immediatamente anteriore apparso solo vent’anni fa in una raccolta di Scritti critici[3], ed inedito finora in Italia.
Il suo viso era cordiale, il viso di un uomo vecchio, di un uomo che perdona, che ha avuto molti dispiaceri, ha molto vissuto e con ciò non vorrebbe essere d’ingombro a nessuno. Non fu in quel mezzogiorno il grand’uomo, non disse nulla d’importante, e lo si poteva tanto relazionare alla sua opera quanto ricordarlo senza la sua opera, così come può essere con tutti gli uomini retti. Ungaretti, uomo di pena[4].
Ritengo sbagliato che si provi a parlare avendo esperienze così diverse, differenze d’età così grandi.
A Fiumicino, in una giornata terribile, in cui [dovevo prendere un aereo] che per un giorno intero non voleva o poteva esserci o semplicemente non c’era, abbiamo bevuto e aspettato insieme per ore, e alla fine, [interrotti da giornal]isti come ce n’è solo a Fiumicino, che volevano sapere quali intenzioni avesse lì il “Professare [sic][5]” o in quale paese si recasse, abbiamo trascorso una delle giornate più strane che io ricordi. Da quando so che Giuseppe Ungaretti non fu mai malato, [né] sa cosa sia il mal di testa e sofferenze come le hanno tutte le persone comuni, mi sembra ancora assai più strano che soltanto lui si sia accorto che non ne potevo più dal dolore e che sia rimasto lì finché quel maledetto aereo non è finalmente decollato.
Da allora viaggio e vivo con quattro amuleti, i portafortuna[6] che mi ha regalato quel giorno, e se adesso non mi servono più tutti, ma li guardo ancora solo cordialmente e addirittura li lascio a casa, mi ricordo però sempre che lui voleva proteggermi da qualcosa, e poiché a Fiumicino non muoio mai più di dolore e poiché la mia casa è protetta, ogni stanza, da un amuleto, non mi sembra più così casuale e strano che io abbia incontrato quest’uomo.
Anche se il rispetto e la riverenza lo vietano – se la bellezza di un viso benemerito lo vieta, penso però, come ci si permette di guardare talvolta una stella e si pensa di venire illuminati dalla sua luce, che qualcosa mi ha illuminato e mi protegge, e che anche se diviene sempre più fragile come la luce di cui egli scrive nelle sue ultime poesie, è abbastanza forte da averlo io in futuro nella sua estrema fragilità e lontananza su di me.
Mi ha detto: non scriva che mi ritiene un grande poeta, e io gliel’ho promesso, scriva che sono un ragazzino[7], questo è un favore facile da fare a qualcuno.
Ma i grandi uomini – cosa sono? Li si incontra molto di rado, sono molto semplici, ridono meravigliosamente, sono severi senza darlo a vedere a chi non capisce niente della severità (ma io spero di avere capito la sua), e non sono tremendi, ma sono un po’ più compassionevoli degli altri, un po’ più generosi, un po’ più infantili, molto più maturi, e alla fine la saggezza è contigua alla fanciullezza con cui un tempo gli dèi, che non esistono più, hanno tratto a sé i loro beniamini.
Non conosco gli dèi di Ungaretti, non credo che li abbia mai uditi. Esistere è un obbligo, poiché l’obbligo si chiama qui “dovere[8]”, e dovere è un dono tragico la cui allegria[9] non è mai messa in discussione, si deve vivere, si deve fare il proprio lavoro, allora alle mani che aiutano vengono incontro quelle soccorrevoli.
Non credo che Giuseppe Ungaretti abbia mai pensato di dover aiutare me o qualcuno, spero piuttosto che abbia ritenuto più importante scrivere una frase o descrivere l’inferno di Blake[10], vivere la sua vita e nient’altro che la sua vita. Ciò è più soccorrevole degli aiuti di molti.
Come gli amuleti, le frasi allora attorniano qualcuno, e questo è l’aiuto.
Se un vecchio è capace di generare allegria, allora non è mai stato infedele a sé stesso se prima ha scritto Allegria[11].
Ma è l’allegria dei naufragi.
Apprenderla, riprendere il viaggio come un vecchio leone marino[12] che non sa proprio smettere, questo non è esistere come obbligo, bensì il magnifico vizio della vita, e di vivere sempre ancora.
E chi non può farlo, neanche potrà mai scrivere, poiché esistere non è un dovere bensì un vizio, ma chi capisce molto capirà anche un poco, [???]
L’ossequio che va sicuramente a un grande poeta è inferiore all’ammirazione per una vita che da perdite, umiliazioni, offese, dolori e dalla perenne infamia cui è esposto uno scrittore che però lascia le sue quattro mura come tutti gli altri, trae un trionfo che consiste in qualcosa d’immenso, nell’illumino[13]; e lo sintetizzo così, l’uomo che oggi ho lasciato in un taxi in una via qualsiasi di Roma, e che mi ha donato la sua penna o il suo riso che significa: ho capito tutto, ma passa.
È il segreto dei grandi uomini che ci congedino con una risata[14].
La “luce di cui egli scrive nelle sue ultime poesie” compare in modo emblematico nella poesia che chiude l’ultima raccolta di Ungaretti, Il taccuino del vecchio (1960), e la cui traduzione conclude l’antologia curata da Ingeborg. Che lei intendesse fondamentalmente quella, traspare con evidenza da quanto scrive poco dopo: “si deve fare il proprio lavoro, allora alle mani che aiutano vengono incontro quelle soccorrevoli”. Eccola, nella sua traduzione:
PER SEMPRE
Proprio senza impazienza sognerò,
Mi metterò al lavoro
Che non può mai finire,
E pian piano, verso la fine,
Braccia vengono incontro alle braccia,
S’aprono di nuovo soccorrevoli mani,
Luce danno i rianimati occhi
Nelle loro cavità,
E tu, improvvisamente intatta,
Risorgerai, una volta ancora
La tua voce mi sarà guida,
Per sempre ti rivedo.[15]
Essa reca una data: “Roma, il 24 maggio 1959” e fu scritta in memoria della moglie Jeanne Dupoix, morta due mesi prima, dopo quarant’anni di matrimonio. Ora succede questo, che nell’abbozzo in memoria di Ungaretti Ingeborg “usa” Per sempre nel senso che nel “tu” della poesia colloca Giuseppe al posto di Jeanne, mentre lei stessa va a occupare il posto di Giuseppe quale attante, diventando così quasi autrice (dopo esser stata traduttrice). Ma questa, che sembrerebbe un’eccezione, rientra invece in una legge riguardante potenzialmente ogni lettore che Paul Celan aveva formulato sedici anni prima, nel 1954: “La parola in una poesia è occupata solo parzialmente dai vissuti dell’autore; un’altra parte viene occupata con vissuti dalla poesia; un’altra ancora rimane libera, ossia occupabile”[16].
[1] G. Ungaretti, Gedichte, traduzione e postfazione di I. Bachmann, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1961.
[2] I. Bachmann, Werke, a cura di Ch. Koschel, I. von Weidenbaum e C. Münster, 4 voll., Piper Verlag, München-Zürich 1984, IV, pp. 331-332.
[3] I. Bachmann, Kritische Schriften, a cura di M. Albrecht e D. Göttsche, Piper Verlag, München-Zürich 2005, pp. 611-613.
[4] In italiano nel testo. “Ungaretti/ uomo di pena/ ti basta un’illusione/ per farti coraggio” è una strofa di Pellegrinaggio, poesia del 1916 compresa in L’allegria (1931). Diventerà l’epiteto scelto dal poeta.
[5] Il 24 ottobre 1942 Ungaretti fu nominato professore ordinario di Storia della Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Roma, cattedra che terrà fino al 1958.
[6] In italiano nel testo.
[7] In italiano nel testo.
[8] In italiano nel testo.
[9] Heiterkeit. Nella postfazione ai Gedichte, Bachmann segnala la difficoltà di tradurre “allegria”, e tra Heiterkeit, Munterkeit e Freude sceglie (come anche qui nel prosieguo) il terzo per la sua eco mozartiana.
[10] Cfr. Discorsetto del traduttore che apre l’album ungarettiano Visioni di William Blake, Mondadori, Milano 1965.
[11] In italiano nel testo. Intendi Allegria di naufragi, la raccolta ungarettiana del 1919.
[12] Seelöwe. Lapsus per Seewolf (lupo di mare). Cfr. la poesia omonima, ivi: “E subito riprende/ il viaggio/ come/ dopo il naufragio/ un superstite/ lupo di mare”.
[13] In italiano nel testo, dalla celeberrima Mattina del 1917, raccolta in L’allegria. Qui in tedesco Immens, mentre nell’antologia la traduttrice optò per Unermeßliches (smisurato).
[14] Sein Gesicht war freundlich, das Gesicht eines alten Mannes, eines Mannes, der verzeiht, der viele Sorgen gehabt hat, vieles erfahren hat und niemand damit im Wege sein möchte. Er war an diesem Mittag nicht der große Mann, er sagte nichts Bedeutendes, und man vermöchte ihn ebensogut mit seinem Werk in Zusammenhang zu bringen wie ihn zu erinnern ohne sein Werk, so wie es wohl mit allen rechten Menschen sein mag. Ungaretti, uomo di pena. / Ich halte es für verkehrt, daß man, über so verschiedene Erfahrungen hinweg, über so große Altersunterschiede hinweg, es mit dem Sprechen versucht./ In Fiumicino, an einem fürchterlichen Tag, an dem :, das dann einen ganzen Tag lang nicht wollte oder konnte oder gar nicht da war, haben wir stundenlang miteinander getrunken und gewartet, und schließlich, von (…)isten, wie es sie nur in Fiumicino gibt, die wissen wollten, was der „Professare“ dort vorhabe oder zu welchem Land es ginge (…), einen der seltsamsten Tage zugebracht, an die ich mich erinnere. Seit ich weiß, daß Giuseppe Ungaretti nie krank war, (weder) weiß, was Kopfschmerzen sind, noch Leiden, wie alle gewöhnlichen Menschen sie haben, kommt es mir noch viel sonderbarer vor, daß er allein bemerkt hat, daß ich vor Schmerzen nicht mehr ein und aus wußte und daß er dort geblieben ist, bis dieses verdammte Flugzeug endlich doch abgeflogen ist./ Seit damals reise und lebe ich mit vier Glücksbringern, den portafortuna, die er mir an dem Tag gegeben hat, und wenn ich sie jetzt nicht mehr alle brauche, sondern nur noch freundlich ansehe und sie sogar zuhause lasse, dann fällt mir doch immer ein, daß er mich gegen etwas schützen wollte, und weil ich nie mehr in Fiumicino umkomme vor Schmerzen und weil mein Haus geschützt ist, jedes Zimmer von einem Glücksbringer, kommt es mir nicht mehr so zufällig und seltsam vor, daß ich diesem Mann begegnet bin./ Wenn auch die Achtung und die Ehrfurcht es verbieten – wenn die Schönheit eines verdienten Gesichts es verbietet, so meine ich doch, wie man sich erlaubt, manchmal einen Stern anzuschauen, und meint, von seinem Licht angestrahlt zu werden, daß mich etwas angestrahlt hat und mich beschützt, und wenn (es) auch immer zerbrechlicher wird, wie das Licht, von dem er in seinen letzten Gedichten schreibt, so ist es stark genug, daß ich (es) in seiner größten Zerbrechlichkeit und Fernheit auf mir haben werde./ Er hat mir gesagt, schreiben Sie nicht, daß Sie mich für einen großen Dichter halten, und das habe ich ihm versprochen, schreiben Sie, daß ich ein ragazzino bin, das ist ein einfacher Gefallen, den man jemand tun kann./ Aber die großen Männer – was sind sie, man trifft sie sehr selten, (sie) sind sehr einfach, sie lachen wunderbar, sie sind streng, ohne es denen zu zeigen, die von Strenge nichts verstehen (aber ich hoffe, ich habe die seine verstanden), und sie sind nicht furchtbar, sondern sie sind etwas mitleidiger als die anderen, etwas großzügiger, etwas kindlicher, sehr viel reifer, und am Ende berührt sich die Weisheit mit der Kindlichkeit, mit der einmal die Götter, die es nicht mehr gibt, ihre Lieblinge zu sich geholt haben./ Ich kenne die Götter Ungarettis nicht, ich glaube nicht, daß er je gehört (hat) Dasein ist Pflicht, denn die Pflicht heißt hier „dovere“, und müssen ist ein tragisches Geschenk, dessen Heiterkeit nie in Frage gestellt ist, man muß leben, man muß seine Arbeit tun, dann kommen den helfenden Händen die hilfreichen entgegen./ Ich glaube nicht, daß Giuseppe Ungaretti je gemeint hat, er müsse mir oder jemand helfen, ich hoffe vielmehr, er hat es für wichtiger gehalten, einen Satz zu schreiben oder Blakes Hölle zu beschreiben, sein Leben und nichts als sein Leben zu leben. Es ist hilfreicher als die Hilfen vieler./ Wie die Glücksbringer umstehen dann die Sätze jemand, und das ist die Hilfe./ Wenn ein alter Mann fähig ist, Freude zu erzeugen, dann ist er sich nie untreu gewesen, wenn er zuerst allegria geschrieben hat./ Es ist aber die Freude der Schiffbrüche./ Sie zu erlernen, die Fahrt wie (ein) alter Seelöwe wiederaufzunehmen, ders eben nicht lassen kann, das ist nicht Dasein ist Pflicht, sondern das herrliche Laster des Lebens, und zu leben und zu leben. Und wer es nicht kann, wird auch nie schreiben können, da Dasein keine Pflicht ist, sondern ein Laster, aber wer viel versteht, wird auch ein wenig verstehen, (… / Die Huldigung, die einem großen Dichter sicher ist, ist geringer als die Bewunderung für ein Leben, das von Verlusten, Erniedrigungen, Kränkungen, Schmerzen und der immerwährenden Infamie, der ein Schriftsteller ausgesetzt ist, der seine vier Wände doch verläßt, wie jeder andere, einen Triumph hat, der in etwas Immensem besteht, im illumino, und ich sehe es so zusammen, den Mann, den ich heute verlassen habe in einem Taxi an einer beliebigen Straße in Rom, und der mir seine Feder geschenkt hat oder sein Lachen, in dem es heißt, ich habe alles verstanden, aber es geht vorüber./ Es ist das Geheimnis der großen Männer, daß sie uns mit einem Gelächter entlassen. Nella mia traduzione ho cercato di riempire le lacune tranne una, con beneficio d’inventario.
[15] FÜR IMMER// Ganz ohne Ungeduld werde ich träumen,/ Ich werde mich an die Arbeit machen,/ Die nie enden kann,/ Und nach und nach, gegen Ende,/ Kommen Arme den Armen entgegen,/ Öffnen sich wieder hilfreiche Hände,/ Licht geben die wiederauflebenden Augen/ In ihren Höhlen,/ Und du, plötzlich unversehrt,/ Wirst auferstehen, nochmals/ Wird deine Stimme mir Lenkerin sein,/ Für immer seh ich dich wieder. L’originale suona: “PER SEMPRE// Senza niuna impazienza sognerò,/ Mi piegherò al lavoro/ Che non può mai finire,/ E a poco a poco in cima/ Alle braccia rinate/ Si riapriranno mani soccorrevoli,/ Nelle cavità loro/ Riapparsi gli occhi, ridaranno luce,/ E, d’improvviso intatta/ Sarai risorta, mi farà da guida/ Di nuovo la tua voce,/ Per sempre ti rivedo”.
[16] P. Celan, Microliti, a cura di D. Borso, Mondadori, Milano 2020, p. 53 (corsivo dell’autore), immediatamente preceduta da: “La poesia s’intende col suo stesso autore solo per la durata del suo farsi – e congeda subito anche lui”.