I pescatori sanno che il mare è pericoloso e le tempeste terribili, ma non hanno mai considerato quei pericoli ragioni sufficienti per rimanere a terra. Piace introdurvi alla lettura del libro “L’indice delle distanze”, nuova silloge di Loretto Rafanelli (edita da Jaca Book, collana “I Poeti” a cura di Roberto Mussapi), con una riflessione di Vincent van Gogh che, “nella veloce geometria dei ricordi”, crediamo possa fungere da segnale luminoso, faro come figura di “bambino che corre / sull’orlo della stretta via dei padri / sfuocati nel crepuscolo / che solca il cerchio di questa stanza”.
Quali i ricordi legati alla tua prima poesia?
“Ricordi lontani, confusi. Forse un cavallo bianco che divenne, per me bambino, l’immagine per le mie prime parole, diciamo, pallidamente creative. Cose infantili, le cose che si mettono insieme da piccoli e poi si perdono, quindi rimane solo il gesto, poi la continuità del gesto, che via via si struttura e diviene necessità. Quelle iniziali scritture hanno importanza solo come annuncio, come parte di una possibile visione, come un insieme di suoni che si fanno poi parola. La poesia nasce dopo, quando tutto si fa consapevole passaggio, complessità emotiva e teorica, determinazione e condizione di vita. Eppure rimane sempre quel senso di tenerezza per quei primi passaggi. Perché in fondo la poesia che è stupore, sangue, cuore, slancio inusitato deve sempre essere intrisa di quella innocente meraviglia”.
Quali i poeti dell’anima (per quali ragioni, con quali legami) e, più in generale, quali le letture significative per la tua formazione?
“Difficile dire, tanti sono i poeti che mi hanno formato, così come le varie letture che mi hanno impresso la loro complessa profondità. Un elenco che non si può raccontare (e in parte anche scomparso dalla mia memoria), se non facendo omissioni. Peraltro letture diversificate che includono non solo la letteratura ma pure la storia, l’economia, il diritto, la filosofia, l’arte, un panorama vasto, eppure sempre insufficiente e ancora oggi mi ritrovo a leggere o a rileggere i classici, a colmare dei vuoti come taluna letteratura straniera, ad esempio quella in lingua spagnola che pochissimo avevo frequentato nel passato e che oggi invece leggo con attenzione, anche per via di una recente attività di traduzione che presto sfocerà nella pubblicazione presso la siciliana Algra di una antologia di giovani poeti dell’America Latina. Credo, tuttavia, che, volendo rimanere al Novecento poetico italiano, non possa non citare Ungaretti e Montale (Magrelli dice: i poeti italiani contemporanei sono tutti necessariamente montaliani), per tutti i motivi che conosciamo, in particolare l’uno per quella genialità assoluta fatta di bagliori improvvisi e profondità inenarrabili, oltre che per quel legame con la grande poesia lirica europea che permise un rinnovamento sostanziale della poesia nazionale, l’altro, per quella capacità di sapere esprimere una rara misura nel verso, che a me pare assolutamente perfetta, soprattutto nelle prime tre raccolte. Quindi due poeti che mi sono molto cari, che ho frequentato e considero i miei immediati maestri: Luzi e Bigongiari, per quel canto sublime fatto di profondità e armonia, per quella capacità unica di usare la parola (e per Bigongiari si tratta di dire che fu ingenerosa la scelta di Mengaldo di non includerlo nella sua famosa antologia, considerato erroneamente poeta manierista), nella magnificenza di una toscanità che mi è molto cara”.
Due poesie – una tua, una di altri – alle quali sei più affezionato?
“Difficile dare risposte così secche, io sono sempre in ansia quando c’è da dare giudizi precisi in poesia, questo perché la poesia è labirintica e misteriosa per natura, quindi sfugge a facili classificazioni o sistemazioni, una difficoltà, peraltro, che proviene anche da una amore complessivo per i poeti, da un amore che passa attraverso mille e mille versi che si sono scolpiti nel mio libro ideale. I tanti poeti che hanno accompagnato le nostre giornate e grazie ai quali ancora scriviamo e mostriamo l’affetto verso loro, proprio riprendendoli, in qualche modo, attraverso le nostre poesie. Allora potrei fare un lungo elenco oppure estrapolare versi e versi e costruire una poesia arbitraria che ingloba il senso infinito della bellezza poetica. Ma come dimenticare del Novecento alcune poesie divenute, credo, patrimonio comune e conosciute anche al di là della stretta comunità degli affezionati per via del loro inserimento nelle antologie scolastiche: ‘La casa dei doganieri’ di Montale, ‘I fiumi’ di Ungaretti, ‘Viaggio a Montevideo’ di Campana, ‘Non sa più nulla, è alto sulle ali’ di Sereni, ‘Alle fronde dei salici’ di Quasimodo, ‘Rovine 1945’ di Betocchi, ‘Presso il Bisenzio’ di Luzi, ‘Pescia-Lucca’ di Bigongiari, per dirne solo alcune. Delle mie poesie, sono tante quelle che mi coinvolgono ancora, però dovendo scegliere, direi ‘Nella corsia delle madri’, una poesia di un libro del 2007, Il tempo dell’attesa, un dolente canto sulla morte vicina alle anziane donne in una corsia d’ospedale, una poesia che raramente ho letto perché quasi mi si strozza in gola, tanto mi fa calare nel tempo della fine, che fu poi anche quello di mia madre”.
Ti senti poeta? Fosse un sì, sapresti descriverlo questo “sentire”?
“Non è una condizione particolare quella del poeta, c’è solo una necessità che preme: quella di scrivere in un certo modo, che nel mio caso si trascina fin dall’infanzia. Ma non penso ci sia un sentire diverso tra il poeta e qualsiasi altra persona, in effetti i poeti in più hanno solo la capacità di usare le parole e dire ciò che molti sentono ma non sanno mettere in scrittura, ma non credo che di fronte agli eventi della vita, alla condizione che viviamo, agli eventi tragici della storia, ci sia una sensibilità esclusiva del poeta. Il poeta ha solo la capacità (o dovrebbe avere) di andare oltre al contingente o alla perenne condizione che l’uomo vive. Una capacità direi di osservare. E per dirla con Carlo Bo: “il poeta ha una misura di coscienza in un esame che ha i limiti della nostra vita ma è inesauribile come un movimento di verità”. Un sentire che oltrepassa le ragioni della vita, che si fa poi moto tellurico, che si inoltra in noi come un fiume carsico (l’immagine è di Oreste Macrì) che si insinua dapprima in insenature sotterranee, sconosciute, per piombare poi in un flusso copioso. Allora il poeta prende il materiale che proviene da una dimensione inusitata (Benn dice che la poesia prima esiste poi il poeta ne prende coscienza), e ne fa traccia, traccia profonda, una solennità che fa scrivere ogni parte, ogni parola, come fosse un ordine che proviene dal più alto degli obblighi, come fosse sangue scritto sui muri, come fosse l’ultimo mattino della primavera. La poesia segna chiunque la voglia accanto e nel suo vento fuggitivo si alimentano i cuori di una sazietà irrinunciabile”.
Per Umberto Saba la poesia “è un momento di felicità, uno stato di grazia improvviso che fa ritrovare all’uomo il senso dell’umanità, della fraternità e dell’ottimismo, beni insostituibili che l’asprezza della vita gli aveva fatto dimenticare. Egli allora ritrova se stesso, i più veri e profondi valori della vita, il calore degli affetti, la serenità”, per Loretto Rafanelli?
“Forse queste considerazioni vanno oltre gli stessi versi del poeta triestino e ci paiono un poco al di là della versione poetica dei più, credo, tuttavia, che la poesia, pur nell’asprezza che a volte la connota, sia predisposta, per una sua naturale conformazione, a rendere più sopportabili i momenti dell’esistenza, proprio perché quell’oltre che è il terreno della grande poesia, ci consegna una parola che va ulteriormente nella direzione della verità, la quale, per quanto difficile, nominandola, come nel caso della morte, ce la rende più accettabile, più comprensibile e forse più accogliente. Conforta certamente la memoria, ma i fatti che accompagnano la nostra esistenza, e per via anche di una certa cultura tipica dell’Occidente, si fanno spesso feroci, così come l’intera vita. Ritrovare certi valori allora può sollevare il poeta, e ridefinire una dimensione coscienziale, uno slancio etico. Ma quanto buio ancora afferra il nostro cammino, senza essere in grado di superarlo”.
“Per amare la cultura occorre una forte vitalità. Perché la cultura – in senso specifico o, meglio, classista – è un possesso: e niente necessita di una più accanita e matta energia che il desiderio di possesso”. Un pensiero imperituro di Pier Paolo Pasolini per chiederti: oggigiorno quale dovrebbe essere la funzione della poesia e in che modo potremmo (o dovremmo) muoverci (tra tutte le difficoltà che conosciamo) per preservare il valore autentico della cultura?
“Dico alcune cose non da esperto di questioni sociologiche o politiche, seppure abbia fatto studi di questo tipo, ma solo da cittadino che vede crollare tante cose, specie una tradizione culturale che ho sentito forte e ricca. Pasolini possedeva una indubbia vitalità e la mostrava in tutte le sue molteplici attività, e nelle sue forti polemiche, forse la cosa che gli riusciva meglio, c’era in lui una sorta di lettura del mondo che sconfinava nella preveggenza. Basterebbe forse una parte di questa vitalità agli uomini di oggi per salvare la cultura e il mondo. Io insisto nella mia poesia a parlare di Occidente, nel senso di una grande civiltà (certo anche guerrafondaia e imperialista) in declino, così che una identità secolare si va sfaldando rovinosamente, e poco contano i tentativi economici e finanziari predisposti in questi anni dalle autorità europee. D’altronde, la nostra identità culturale, fatta di somma letteratura, di raffinata arte, di grande architettura, di scienza, non è più compresa e raccolta con gioia e attenzione dai più, così come non esiste cura per il paesaggio, anche nelle sue minute eppure fondamentali appendici, come la non dispersione dei rifiuti. Allora vedo che il tempo che ci sta di fronte è difficile da interpretare e un certo sconforto prende il posto della vitalità. Eppure noi che rivendichiamo la verità della parola poetica e la necessità della bellezza, non possiamo abbandonarci al nichilismo. Neppure al vittimismo che pure contraddistingue le più esigue minoranze, quindi la comunità dei poeti – ricordiamo ad esempio Le poète assassiné, di Apollinaire, la prosa allegorica dell’assassinio che gli stati compiono contro tutti i poeti (anche perché non tutti i poeti sono poeti). Che fare allora? Percorrere seriamente il nostro cammino, leggendo e scrivendo, parlando della necessità della poesia, che non può salvare il mondo ma regalare un brandello di verità sì, ricordando ai più le parole dello scienziato astrofisico e matematico inglese J. D. Barrow: Il mondo è molto più complesso di quanto qualsiasi formula ci possa dire. Non esistono formule che possano spiegare la verità, l’armonia, la semplicità del mondo. Nessuna descrizione non poetica della realtà potrà essere mai completa”.
“L’indice delle distanze”. Perché questo titolo?
“Quante volte i titoli dei libri di poesia hanno portato il lettore più lontano anziché nel cuore del libro, è un fatto che spesso il titolo è un labirinto come la poesia stessa, altre volte no, illustra un preciso percorso, a volte è qualcosa di puramente casuale. Indice delle distanze è innanzitutto un verso che compare in una poesia. Diciamo, paradossalmente, che prima è nato il titolo poi la ‘coscienza’ di un tale titolo, che però si calava perfettamente nella versificazione realizzata, dove si dice di una distanza dall’abitare una determinata ‘dimora’ che, qualora si avvicini, in verità si allontana. Quella distanza che crea la possibilità di dischiudere delicatamente il mondo alla persona, ma che è pure uno spazio del pensiero e che ci consente di contemplare, mentre si avverte l’impossibilità di possedere, di appropriarsi delle cose. Quindi si deve procedere nella comprensione, ritardando in tal modo la presenza, come diceva Derrida, a favore di uno sguardo originario. La distanza è quella che ci pone vigili e lontani dalla vita degli altri, dalla figura dell’altro, che non conosciamo o allontaniamo, solleciti sempre a distanziare chi ci parla, chi ci guarda, finanche chi ci sorride, o addirittura chi ci ama. Come diceva Henry James nel bellissimo racconto La belva nella giungla, che spesso ho citato: egli narra l’incredibile distanza che intercorre tra il protagonista e la sua donna, nel magmatico sodalizio cristalizzato in una infinita attesa, quella dell’amore. Quell’attesa che ci consuma nella negazione di uno slancio, di una parola caritatevole verso chi, pur accanto, in verità non conosciamo o non vogliamo vedere. Quella necessaria via che dobbiamo seguire, se non vogliamo che tutto sia inghiottito nella buia notte. Allora è bene nominare le persone, i luoghi, le stesse distanze prima che tutto cali nel nulla, nella più assoluta dimenticanza”.
Leggendo questi versi si respira, come “nel chiuso cortile della vita”, il desiderio inappagato di “sapere del giorno e della notte”. La poesia è il (possibile) grimaldello del reale?
“Non so se Mandel’štam avesse ragione quando rimproverava alla lirica moderna, aggiungo la grande lirica moderna, di disinteressarsi del reale (dice Friedrich: “la lirica è diventata il linguaggio di un mondo creato quasi esclusivamente dalla fantasia, che balza al di là della realtà o la annienta”) cosa che cercò di colmare con il suo movimento acmeista. Non so se la ‘vuota idealità’ è la caratteristica della lirica moderna come afferma ancora Friederich, qualcosa che accompagna realmente la poesia dell‘Ottocento e del Novecento, so per certo che ho sentito la forte necessità interiore di scrivere dei fatti della vita, siano essi le cronache dell’oggi (dagli atti terroristici, alla fine della civiltà industriale, ecc.) o alcune vicende storiche del recente passato come la shoah. Ho sentito come indispensabile parlare delle tante vittime della ferocia della storia, di nominare chi non può più dire e di cui nessuno può o non vuole più dire, come è il caso delle giovani donne in cinta sventrate a S. Anna di Stazzema il 12 agosto del 1944 dai nazisti. La mia, tuttavia, non è una poesia politica, è stata definita civile, ma io credo che ogni poesia abbia questo connotato, per ciò che essa implica nella vita di chi la fa e di chi la legge. L’attenzione alla realtà peraltro necessita paradossalmente di allontanarsi da essa, ci deve essere una lontananza indispensabile dagli eventi, dalla cronaca, un distacco che permetta di guardare con spirito caritatevole ciò che incontriamo nelle strade del mondo. So anche che questa versione può dare spazio a delle critiche e non dimentico ciò che diceva il grande poeta spagnolo Pedro Salinas: la poesia deve essere alleggerita al massimo relativamente a cose e temi, perché ciò può andare a compromettere la parte creativa del poeta. Ma ci siamo tanto abituati a non chiedere più senso alla poesia, osserva Giancarlo Pontiggia, che qualora questo senso ci sia provoca addirittura quasi inquietudine, imbarazzo. Certamente però non tutta la poesia rivolta al reale ha valore, perché il poeta mentre raccoglie la cronaca e gli eventi della vita deve sapere inoltrarli in una categoria superiore, in una visione che possa divenire verità ulteriore, assoluta, eterna, come seppe fare innanzitutto Dante, quindi cosa ardua, difficilissima. So per certo che ho sentito il bisogno di staccarmi da una interiorità invadente, da una auto-referenzialità ossessionante, quell’intimità che si imprime come una marea senza freni. Questo dico non per muovere una critica alla poesia più intima, domestica: so bene che un tale approccio poetico è stato ed è un percorso tipico ed essenziale della poesia di tutti i tempi, quasi un ‘abito’ naturale che costruisce il verso, so bene che tale poesia è pure in grado di comprendere al meglio l’essenza dell’uomo, la sua natura umana. C’è tuttavia l’esigenza, come diceva Lacan, di assumere una distanza “dalla pressione immaginativa del proprio io”, quindi proprio questa “de-compressione della soggettività”, può dare una parola nuova, un’apertura ulteriore alle nostre immagini creative”.
Senza la poesia la vita avrebbe ancora il “suono del mare”?
“Forse sì, forse no, nel senso che la vita è scorsa sempre e comunque con o senza cantori. Lo dico con rincrescimento perché il “suono del mare” dovrebbe essere l’incanto che ci sorregge nel percorso di vita. E fa tenerezza l’affondo inquieto del grande poeta greco Ghiannis Ritsos quando si chiede: “Come fanno gli uomini a vivere senza poesia?”. Tenerezza e rabbia, perché il suo dire disperato ci avverte del pericolo mortale che vive una comunità pericolosamente affacciata sull’abisso, senza la forza cruciale della poesia, a cui aggiungerei pure quella della spiritualità e della coscienza del bene e del male. Certo è difficile pensare che qualcuno sappia raccontare la vita meglio dei poeti. E deprime e indigna sentir dire dai più che quando una immagine giunge diretta al cuore o al centro delle cose della vita, allora l’immagine ha una valenza poetica, è, si dice in modo enfatico: ‘quella è poesia’. La poesia intesa quindi come un’appendice creativa, come un lume che a volte brilla, ma che rimane, quasi per tutti, qualcosa di urtante, distante dalle più fondamentali istanze, senza una sua decisiva, alta, autorevolezza, anzi senza nessuna dignità, contrariamente a quanto storicamente è stata. Eppure ci sono piccole cose che fanno sussultare e fanno ‘sentire’ che il “suono del mare” non è così abbandonato: a Managua, la capitale del povero Nicaragua, nel grande atrio del nuovo aeroporto, ci sono solo due enormi immagini, quella di Augusto César Sandino, il famoso rivoluzionario che combatté i Contras americani e il dittatore Somoza e fu ucciso nel 1934 e quella di Rubén Darío, l’immenso poeta nicaraguense i cui versi sono conosciuti anche dai poverissimi e semianalfabeti contadini di quella terra, ritenuto, quindi, al pari di Sandino, grande padre della patria”.
Un ultimo interrogativo con i tuoi versi: “Forse il sottile filo che insiste / è la dimensione / di una vicinanza. O questa stagione / vivrà solo nelle assenze?”
“Difficile spiegarvi qualcosa che non si può spiegare? Questi versi sono ormai scorsi e fuggiti dalle mie mani, sono qualcosa che infine appartiene ad altri, forse al lettore più che al poeta, la poesia, come diceva Eliot, è un ‘oggetto’ indipendente che sta tra il poeta e il lettore, che vive una nuova stagione di significati, che trascendono la stessa visione dell’autore, il quale con la sua lettura più che avviare una azione di comprensione del testo, avvia una operazione che possiamo definire un ri-poetare, come fosse un nuovo canto, che, udito dal poeta, potrebbe fargli vedere di una luce nuova ciò che ha scritto, o sentirlo estraneo. Come senz’altro capita con la critica, finanche quella feroce o poco generosa. Ma per tornare al verso, le stagioni vissute nelle assenze sono ciò che con più certezza abbiamo di fronte. L’assenza, comunque la si voglia interpretare, rimane qualcosa di sospeso, è qualcosa di perduto, perché le assenze di cui si può dire sono proprio le nostre, che ci allontaniamo sempre più da tutto, dalle persone, dai luoghi, dagli affetti, dalle cose che afferriamo e perdiamo continuamente e popolano il nostro immaginario, la nostra vita. Le assenze sono proprio la nostra dimensione quotidiana, il nostro scorrere doloroso o anonimo o distratto in questo mondo. Il dolore della perdita nasce innanzitutto dalla nostra assenza”.
Ti invito a scegliere, riportandola, una tua poesia (spiegandoci perché l’hai scelta) per salutare i nostri lettori.
“Quella che riporto è la poesia che apre la sezione, Persone, e non ha titolo, si pone come indicazione di un percorso. È un discorso aperto al lettore, una poesia che nasce come l’esigenza di dire come le vittime di tante violenze, se si dimenticano, se non si nominano, si cacciano in una fossa anonima, senza più volto e senza amore. Richiama ad un dovere, quello di raccogliere la solitudine universale delle vittime, che è pure la nostra solitudine. E ci scava la vita”.
Devi pensare all’acqua che turbina precisa nel suo corso, che raccoglie la brina, il fuoco, il cuore, che lava le radure e il fogliame. Devi pensare alle cose nel solco del loro solco, agli orti delle stagioni morte, ai palpiti sfioriti nelle carezze, ai giorni che battono i rintocchi. Allora dici: persone. E puoi dire ancora: persone. E le ombre che gravano, le togli dal fondo che confonde il mare. Un crocevia di sguardi, un fragile sentiero ventoso. Indizi. Ma sui pozzi limacciosi il malfermo pane devi conservare.