Luca Bonaguidi, Ritratto su sottobicchere per birra, di Danièl Nicolàs Schiraldi
Luca Buonaguidi, Ritratto su sottobicchere per birra, di Danièl Nicolàs Schiraldi

 Parola d’Autore

 
 
“La rosa è senza perché; fiorisce poiché fiorisce,
a se stessa non bada, che tu la guardi non chiede”
Angelus Silesius

 

 Questo testo vedrà la pubblicazione dopo più di un anno dalla sua ultimazione. In questo intervallo di tempo ho avuto la fortuna di vivere alcune esperienze, in particolare un viaggio semestrale nel subcontinente indiano, che hanno profondamente cambiato la mia persona, e non secondariamente la mia poetica. Ciò nonostante, se la mia opera d’esordio I giorni del vino e delle rose era la testimonianza ingenua del mio apprendistato poetico, un rimuginare poetico, Ho parlato alle parole, a partire da un titolo che forse apparirà presuntuoso, che si pone invece come un più maturo pensare poetico, è un’opera che ha come oggetto una consapevolezza che oggi ho ancora qualche ragione di introdurre, ossia quel percorso di implicita sottrazione esistenziale e poetica che ho intrapreso lungo il corso dell’opera, reso necessario da un’epoca in cui invero vige la legge fin troppo esplicita dell’accumulazione autistica. Il debito estetico di tale percorso è la mia tesi di laurea (che sto ampliando e rivisitando per abilitarla a una pubblicazione che non risulti innocua) che mi ha portato a vivere per mesi fianco a fianco con le intuizioni più brillanti di eminenti studiosi e poeti di ogni epoca, con oggetto quel legame, quella storia, quell’incontro antico e oggi trascurato tra poesia e psiche che tanto mi ossessionava e che oggi sto ricomponendo con tutte le mie forze.



“La mia arca canta nel sole
Alla fine dell’estate benedetta da Dio
E il diluvio, ora, fiorisce”
Dylan Thomas

 

Tutto è iniziato da un verso di Vittorio Reta, un’autentica folgorazione: “So che al mio silenzio non ho avuto risposta perché non miravo mai al centro”. A partire da ciò, l’uomo alle porte che compariva per me al termine di quell’età in cui è lecito e propizio chiamarsi “ragazzi”, si è posto su una dolente prua con coscienza di se stessa ma non dell’approdo verso cui si votava, cibandosi di tanti istanti apolidi e invocando un lamento ultimo per quei poeti (Carnevali, Rilke, Rimbaud) dalla cui soggezione mi stavo affrancando per la ricerca di un percorso che corrispondesse di più a me stesso, e dunque alla navigazione dei miei bordi, limiti e confini poetici. Da lì, e stimolato da letture a tema che mi stavano tanto affascinando, ho seguito il solco di quel dubbio che Franco Loi esprime con chiarezza ineguagliabile: “Se io parlo non so chi è il parlare”. Stupidamente, mi sono sorpreso di nuovo nudo e solo, ma finalmente al cospetto di un mistero poetico che corrispondesse al mio sentire e che non fosse la bieca emulazione di altri abusati modelli. “Venivo accolto dove non c’era più nulla” scrive Roberto Carifi, ed è entro quel luogo che ho abitato per mesi il mio daimon (“vocazione dell’anima” secondo Hillman), seguendolo passo per passo in uno sviluppo poetico che oggi ritengo compiuto e che mi auguro possa esser apprezzato, oltre a una maturazione esistenziale che mi ha portato prima a vivere quel luogo che è prima che un paese  un’esperienza, l’India, e poi a vivere in una dimensione più autentica, incontaminata e raccolta, che per me oggi è rappresentata dall’Appennino Tosco-Emiliano, in cui “una rosa basta” come si chiedeva Piero Bigongiari.

 

“Io non so se sognai
o se con occhi desti
vidi l’alata Psiche”
John Keats

 

Dalla prima poesia composta alla mia opera d’esordio ho sempre inseguito le parole. Conscio di una frattura, non facevo però niente per ricomporla: da una parte la mia individualità, dall’altra la poesia. Questo libro racconta invece l’avvicinamento di quel tempo in cui ci si sorprende fianco a fianco delle parole, poiché si sta finalmente imparando a smettere di cercarle affannosamente e non si assaltano più senza posa, ma le si iniziano misteriosamente ad abitare. Da qui è nato un dialogo più disinvolto con le parole stesse, e poi un libro che ritengo ancora più omogeneo nei temi pur nella persistente difformità di soluzioni stilistiche, ed è il libro che vi sto presentando. Di esso, credo possa incuriosire il carattere ambivalente dell’Io poetante, il cui esito è un verso lattescente e impalpabile pur nella esplicitazione completa dei temi. Non occupandomi di critica poetica per formazione e/o professione e formandomi autonomamente come appassionato di letteratura e poesia dall’adolescenza, più che letterato e poeta (epiteti che lascio  volentieri autoapporre a chi si trova in condizioni di perenne deficit egotico) è per me complesso, se non propriamente fuoriluogo addentrarmi in avventure dialettiche circa gli stili e le modalità del mio poetare. Questi spesso trascurano che sia comunque una quanto più peculiare mimesis personale a determinare la qualità della propria opera poetica, che per me corrisponde all’acuta e profonda sentenza “tutto il nostro abbracciare è una domanda”, di cui ora mi sfugge l’autore. È in questa consapevolezza della sensibilità profonda di ogni atto umano che si ripone la mia cieca fiducia nel linguaggio poetico. Ma in cosa si traduce nella pratica poetica questa coscienziosa esposizione? I temi dei miei testi sono i reciproci delle mie stesse esperienze, satelliti saturnini di ciò che vorrei sapere e si perderà non detto, citando un celebre passo di Pier Paolo Pasolini.



“E il silenzio
E il canto dentro il silenzio”

David Maria Turoldo

 

Luca Bonaguidi, wecOggi l’istanza più sincera della mia tensione poetica non risiede più nell’ostinato e testardo fondamento di una memoria collettiva dei non detti. Non che non lo abbia più a cuore, ma oggi sono più interessato a quel canto nel silenzio, complici le esperienze che mi separano da quella costellazione di Luca che hanno composto Ho parlato alle parole, ed è per ciò che questo libro assume un’importanza fondamentale all’interno della mia esperienza di essere umano, e se poi il lettore ne avrà occasione, della propria: un dialogo irriflesso con quel fantasma che ci cammina accanto, la cronaca generosa di un avvicinamento al silenzio, un tenace e intenzionalmente involuto bramare un ritorno alla pagina bianca, o più concretamente, una nuova forma di poesia che annulli le precedenti (e che il quadro in copertina del pittore belga Pol Bonduelle, che ha curato la grafica dell’edizione, vuole testimoniare). Invero mi auguro di aver già trovato ciò, presentandola nuovamente alla comunità dei lettori di poesia con la mia terza opera (un diario di viaggio in versi, India – Complice il silenzio, appunto), cui mi sento oggi anagraficamente più vicino. Ma se la mia intera attività poetica ad oggi fosse un albero, non avrei dubbi a considerare questo testo come il fusto che mancava e che sosterrà ogni fronda, ramo e foglia della mia futura esperienza della poesia.



“E tacermi, tacere
sotto la certezza della furia”
Laureano Albán
 

 

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