Fernando Botero, Gente del circo con elefante, 2007 ANNA VASTA
Fernando Botero, Gente del circo con elefante, 2007

L’estate è la stagione dei premi letterari. Maturano e lasciano cadere i loro frutti, non sempre di prima qualità, con scadenza fissa. Piccoli e grandi, più o meno autorevoli e qualificati, essi mettono in moto interessi, aspirazioni, aspettative, ambizioni, emozioni, frustrazioni in un gioco delle parti che si svolge secondo schemi e rituali ripetitivi, prevedibili, persino scontati. Tanto da chiedersi perché ci si agiti a tanto rumore, quando il nulla di tanto rumore preesiste allo stesso rumore. Ma così va il mondo (il circo barnum delle italiche Lettere), e non è facile sottrarvisi, per quanta consapevolezza si abbia di codesta fiera delle vanità, a cui si partecipa, sia in ruoli di primo piano, sia di comparse, con serietà e convinta prosopopea, scacciando come mosche moleste gli avvertimenti, i segnali che simili a rumori di fondo interferiscono con la messa in scena. Anche la poesia, ospite di poco riguardo del Convivio letterario, ha i suoi premi e le sue vanità. Bistrattata da case editrici grandi, medie e piccole, come genere non redditizio che non ha mercato, non produce profitti, non fa cassetta, coltivata con cura in qualche isolata nicchia di fedeli d’amore, fa la sua parte, o meglio sta al gioco. Per non morire. I premi di poesia non sono così numerosi come quelli di narrativa e a ragione. ciascuno il suo. Visto il ristretto pubblico e le idiosincrasie nei suoi confronti degli stessi editori che la pubblicano, spesso per forza d’inerzia – con maggiore convinzione le medie e piccole edizioni – alla poesia non resta che entrare nel bailamme dei premi, per vivere qualche effimero momento di gloria. Grossi editori di poesia (Mondadori, Einaudi) e medi, ma di prestigio, che solitamente storcono il naso, se si propone loro un testo di poesia, si danno un gran da fare quando si tratta di piazzare ai primi posti nelle classifiche dei premi quegli stessi autori, che per il resto dell’anno abbandonano ad un opaco destino di umbratile marginalità. A parte qualche recensione d’ufficio che cade come un sassolino nelle acque stagnanti della critica, a promuovere le proprie opere ci pensano i poeti che come madonne pellegrine portano in giro i loro libretti nelle fiere, nei festival, nei meeting, dove si leggono e si ascoltano l’un l’altro, dinnanzi a spettatori distratti e annoiati. La poesia – altro luogo comune – è elitaria, e i poeti si parlano addosso, non si fanno capire, sono strani soggetti, che dissipano il loro tempo a elucubrare sui principi primi e frastornare la gente con le proprie paturnie, mentre invece potrebbero fare sul serio e dilettare i lettori con un bel romanzo di genere, di quelli che fanno tendenza, thriller, pulp, mistery, etc. Il senso comune della poesia la vince sulla poesia, anche tra gli addetti ai lavori. Ma quando torna la bella stagione, quella dei premi, è tutto un tramestìo, un agitarsi di potentati editoriali e di critici poeti, anche di giornalisti poeti (la poesia, checché se ne dica, è la ciliegina sulla torta a cui non si vuole rinunciare per dare un tocco di peregrinità alla propria produzione) -inutili del resto, perché le giurie dei premi sono prone alla noblesse oblige e non si periterebbero mai di premiare un signor nessuno, anche se un bravo poeta, ne andrebbe del prestigio del premio. Restano i premi locali, ma anche lì bisogna arrabattarsi, e se non hai la vocazione al lecchinaggio, si rischia di essere tagliati fuori anche da questi. Tempi duri per la poesia e i poeti. A meno che non si tratti di un critico con lo sfizio di scrivere versi, o qualche accademico che le strade giuste per pubblicare le trova sempre, non solo l’editoria chiude le porte in faccia a chi si ostina a fare poesia, ma anche i premi, roccaforti di potere editoriale, di strapotere di conventicole di critici, spesso improvvisati con poca dimestichezza col linguaggio poetico, ma che esercitano impunemente la facoltà di conferire allori ai toccati dalla grazia (di rado quella poetica). La poesia resta relegata a una condizione di esilio, di esclusione, che finisce col diventare una scelta, una vocazione. Meglio dunque tenersi fuori da simili competizioni, così distanti dalle gare e i tornei di quell’età dell’oro che fu della poesia, quando ci si laureava poeti sul campo e la poesia parlava al cuore e alle menti degli ascoltatori, senza mediazioni di sorta. Il suo è il linguaggio delle origini, dell’oralità, dell’immediatezza di immagini e di suoni. Essa ha una fisicità diretta, irriflessa, poco conciliabile con una intenzionale meccanica del comporre. A chi continua a scrivere poesia, malgrado i pesci in faccia di editori-imprenditori, dediti principalmente ai profitti, nonostante la difficoltà di farsi ascoltare, di oltrepassare la conventio ad excludendum di consorterie di poeti laureati che/ simuovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati, va tutta la considerazione di chi ama “le strade che riescono agli /erbosi fossi […] le viuzze che seguono i ciglioni,/discendono tra i ciuffi delle canne/e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni” (Montale).

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