“La lingua della poesia è la lingua dell’impegno umano e dell’attenzione”. Simone Biundo e il suo “Le anime elementari”

tre domande, tre poesie

 

Simone Biundo nasce nel 1990 a Genova, dove insegna in una scuola secondaria. È editor della rivista «VP Plus» ed è ricercatore indipendente di storia dell’editoria e della letteratura. Ha studiato Biagio Marin, Vanni Scheiwiller, Francesco Biamonti e Juan Rulfo. Ha scritto poesie apparse su «Neutopia», «Margutte», «Poesia del nostro tempo», «Poesia Inverso», «Medium Poesia», «Nuovi Argomenti», «Tre Sequenze». Per Interno Poesia è uscito il suo primo libro, Le anime elementari (2020). Nello stesso anno, per Festa Mobile, ha tradotto con Paola Fossa una selezione di poesie di Louis Brauquier: Approdi. Vivremo fino al mattino. Con il poeta Damiano Sinfonico e l’attrice e linguista Sara Sorrentino cura la rassegna di poesia contemporanea, poet. – nella libreria Falso Demetrio di Genova.

Qual è o quale dovrebbe essere (dal tuo punto di vista) la lingua ideale della poesia, la forma quanto incide sull’essenzialità della parola poetica e in che modo la vita diventa linguaggio?

La lingua della poesia, per me, è la lingua dell’impegno umano e dell’attenzione.
Mi piacerebbe una lingua capace di assumere su di sé il carico dell’alterità, della parola detta e non detta, della chiarezza e della ragione, dei processi logici ed espressivi, una lingua che prova ad additare l’invisibile. Date queste premesse, o meglio, questi desideri, la forma determina ed è determinata dalla pratica poetica che agisce nel momento stesso in cui dà voce all’esperienza.
Il mio compito, trovate quelle immagini e quelle parole che mi sembrano le più adeguate, è di chiarirne la collocazione in rapporto al tutto e di levare, a poco a poco, ciò che non è necessario, di modo che la parola, la proposizione, la frase e il verso diventino come acqua o vetro o, ancor meglio, come terra.
Mi piacerebbe che la lingua, anche solo in superficie, mostrasse la sua morfologia, la sua stratificazione impastata di storia, diversità, movimento. Per me l’evento poetico è transito in atto che si fa luogo e parola. E dinamismo, e lotta.

La poesia è tale se diventa portatrice di una visione che non è individuale (bensì sovraindividuale), qual è la tua opinione in merito?
In questo caso sono parzialmente d’accordo. Non credo che la poesia necessariamente debba essere sovraindividuale. Trovo però che lo sia quella memorabile o, più semplicemente, lo è quella che studio e che leggo.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo “Le anime elementari” – Interno Poesia 2020 – (perché questo titolo?); di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Ringraziandoti per lo spazio che mi hai dato su «l’EstroVerso», parto dal titolo che è cataforico. Le anime elementari rinvia al campo semantico della raccolta, cioè alla rivelazione di presenze che transitano e si ricompongono, classificandosi e conservando le tracce del reale, come in una sorta di tavola di Mendeleev. Damiano Sinfonico, nell’introduzione, scrive che questo «libro non è solo un registro animato, un archivio dove sfarfallano i cimeli, ma è anche una mappa che ricostruisce nello spazio gli andirivieni tra luoghi abitati, visitati o attraversati, e non per interesse documentario, ma per il piacere di scrivere sulla pagina ciò che i nostri spostamenti hanno scritto sull’acqua». Per esemplificare queste parole, ho scelto tre poesie che raccontano l’accadere secondo tre motivi differenti.

 

 

 

 

*

non ha sofferto
è andata via
meglio così

le badanti gridano
quando le nonne muoiono
non hanno dignità
le urla silenziose
di chi perde il lavoro
all’improvviso

*

Monte Marsicano

Leggera è la farfalla
che abbiamo adottato
succhiava dalle nostre mani
arrotolava e srotolava
la spiritromba come nelle teche
del fiore, aveva il torace celeste
e le antenne striate, passava
su un dito e su un altro

il tuo pollice
non era mai stato
una casa per farfalle
il tuo palmo un giardino
leggera è la farfalla
che abbiamo lasciato
è stata per poco con noi
come si conviene a un’effimera

*

Terrasanta

Tra il Vallone dei Vergini e dei Girolamini
nella salita del Rione Sanità, non a destra come indica
la voce ma a sinistra, Cimitero delle Fontanelle
enorme cavità.
Cammino tra gli ordinati, tibie, femori e crani
e poi umido e sudore, polvere e monete, denti e ragni.
I fiori sono finti, non sopravvivono veri
se si mettono sui morti. I lumini brillano, i rosari sono stinti.
40.000 persone
stipate in stato d’abbandono
moltiplicati per 4
metri di profondità
altri morti sminuzzati
sotto il calpestio. In una navata
non degli appestati o dei pezzentielli
è acefala la statua di San Vincenzo, il monacone.

Ci sono luoghi che si ricordano comunque
ma noi non c’entriamo proprio niente
è come starci appena nati
non conosciamo una parola
e le conosciamo tutte: Materdei. È detto
che esondarono in un giorno e che le acque
li abbiano lavati ma gli uomini, questi uomini di ossa
li abbiano nascosti sottoterra
ancora nel ventre che li ha espulsi
e sistemati Per Grazia Ricevuta nelle cave di tufo
scavate per i vivi, nel ticchettare delle gocce
che si aggrumano nel pianto e nel tempo.

Lì dentro
per quei casi che non sai
ho incontrato delle facce conosciute.
Stavano con Pluto, il loro cagnolino.
Anche loro volevano adottare.
L’avevano trovato e scelto, il figlio
e con cura e con lo straccio il cranio
gli avevano pulito e messo una monetina sulla testa.
Uno loro non l’avrebbero mai fatto
era qualcosa che c’entrava con i teschi
e con quella luce che illuminava la basilica.
C’entrava coi lucchetti, le teche, la fossa e la famiglia.
Si sono allontanati tra le ossa verso il fondo
ma prima ci siamo ripromessi di vederci
ancora al buio. Non sono rimasto lì a lungo
sentivo freddo, la gola mi pulsava
e non volevo fare coda
per la pizza da Starita. Avevo tanta fame.
E che vuoi fare, all’una, non mangiare?

 

Parlo solo brevemente della prima, senza titolo. Qui, i sussurri privati percepiti nel tempo della morte, si sono ordinati per ridefinirsi nel dramma sociale di chi, d’improvviso, è indegno rispetto agli altri. Di chi, improvvisamente, diventa secondario. La precarietà gridata è l’unica certezza: il verso si spezza di conseguenza ma diventa l’occasione per pronunciarsi e combattere la solitudine e l’invisibilità. Per ricomporsi, grazie all’ascolto e attraverso gli scarti.

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