“La vita in dissolvenza” di Lucianna Argentino, “percorso quasi dantesco, attraversamento dei propri inferni interiori verso la purificazione”.

In questi componimenti, Lucianna Argentino (nella foto di foto Mel Carrara) si assume in pieno la responsabilità poetica dell’analisi autoptica e dell’esplorazione del discidium tragico per eccellenza, quello che separa pena e colpa verso se stessi, impulso e rigetto di vivere, auto riconoscimento e scoperta dell’altro-da-sé, in una parola, dell’indecidibile baratro che divide io e mondo. Argentino diviene una specie di detective che opera i propri rilievi sulle suppellettili della caverna di Platone e che, percependo le ombre di cinque personalità simbolicamente importanti riflesse sulle pareti interne del proprio cuore, scova le prove di un delitto di lesa maestà interiore, vi si cala profondamente e vi ritrova il filo estetico e logico di un dirsi che è anche un darsi definitivo all’universo e ai posteri, ovvero a coloro che rimangono e che, per questo loro rimanere e permanere, possono trarre spunto, catarsi, insegnamento da codeste historiae etimologicamente intese come vere e proprie “testimonianze”. In effetti, questi quattro monologhi non fanno che condensare simbolicamente quattro archetipi letterari che si fanno carne e sangue: la Madre, ovvero la forma uterina dell’accudimento salvifico che accoglie e plasma la vita combattendo la morte; la Morte, ovvero la scelta suprema dell’abbandono e dell’autoannullamento; l’Infanzia, ovvero la scoperta e la percezione del sé; e la Guerra, una guerra che è, contemporaneamente, interiore, personale, ed esteriore, trapassata nel contesto tremendamente antideterministico di un’epoca impazzita e senza controllo. La predilezione verso la forma monologica è, ancora una volta tragicamente, ovvero (anche) teatralmente, intesa a volte come un disvelamento della pena del vivere la propria solitudine, altrove come expositio dell’esistenza stessa intesa come viatico verso la mondazione da qualsiasi colpa ancestrale, non foss’altro che, leopardiamente, quella di essere nati. Si tratta, quindi, di un percorso quasi dantesco, di un attraversamento dei propri inferni interiori verso la progressiva purificazione, in cui a emergere man mano è la crosta scabra della ferita.

(dall’introduzione di Sonia Caporossi)

 

Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “La vita in dissolvenza”?

La scintilla è sempre la stessa, quella che dà l’avvio a tutta la mia poesia ossia la volontà di indagare l’umano e non solo l’umano, ma la vita intera in tutte le sue espressioni.  Di scendere nelle profondità del mistero che avvolge e sostiene l’esistenza del mondo e in particolare degli esseri umani. Per quanto riguarda “La vita in dissolvenza” è stato anche per via di un coinvolgimento empatico molto profondo con le storie delle donne di cui racconto. Storie vere che mi hanno molto colpita, vite a cui ho voluto dare voce perché emblematiche dello stretto rapporto tra vita e morte, tra libertà e necessità. Ho usato la forma del monologo proprio per esprimere questa immedesimazione e anche perché mi dava la possibilità di poter usare un linguaggio vicino a quello poetico che a mio avviso è maggiormente in grado di scendere nelle profondità del mistero e dell’infinitezza dell’anima umana.

In che modo la (tua) vita diventa linguaggio?

La vita è linguaggio, è un continuo scambio di informazioni a partire dagli atomi, dal nostro stesso DNA. Diventa linguaggio, e qui intendo linguaggio poetico, quando ha a lungo sostato nel silenzio e, detto per inciso, sostare nel silenzio farebbe bene anche al linguaggio che usiamo quotidianamente, credo che ne gioverebbe molto la nostra relazione con gli altri e con noi stessi. Comunque il silenzio è fondamentale per il fare poesia, fondamentale è la sosta delle esperienze, delle informazioni che riceviamo da ciò che è visibile e da ciò che è invisibile, nella nostra interiorità che è il laboratorio in cui queste trasmutano in poesia.

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

Certamente! Si scrive poesia anche per sbirciare oltre l’orizzonte dell’esistenza, per attraversare il limite imposto alla nostra visione delle cose, al loro ascolto e dunque alla comprensione di ciò che esse ci dicono. L’invalicabile è parte della condizione umana, direi anzi che ne è il fondamento. Tutti abbiamo esperienza dell’indicibile. Ogni poesia ci spinge un po’ più in là, un po’ più a fondo, ogni poesia è un gradino in più, un tassello in più per scalfire almeno un poco il muro che ci separa dalla verità.

La poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta?

Direi che la poesia è proprio l’espressione della pensosa solitudine del poeta e non la colma no, perché pur essendo la poesia lingua dell’invalicabile, la solitudine è condizione esistenziale comune e inalienabile. Naturalmente intendo la solitudine interiore quella che spesso cerchiamo solo di colmare (così come facciamo con il silenzio) perché ci fa paura, mentre dovremmo imparare a farne un campo fertile dove coltivare ciò che siamo nel senso del bene e dell’umanità. La poesia fa sentire al poeta la pienezza e la bellezza della sua solitudine, ma certamente la poesia quando la leggiamo, quando l’ascoltiamo ci fa sentire meno soli.

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica? E il “suono”?

Come penso sia per tutti i poeti per me la forma ha molta importanza ed altrettanto ne ha il suono anche se credo che siano strettamente legati perché in fondo una poesia è simile ha una partitura musicale dove ogni parola, come ogni nota, è al posto giusto o dovrebbe essere al posto giusto, non necessariamente per creare armonia ma anche, se occorre o se si inserisce nel contenuto del testo per creare delle cacofonie. La forma è fondamentale, è ciò che a mio avviso dà dignità al contenuto, spesso si leggono poesie il cui contenuto è pregevole, ma scritte con una forma sciatta e banale che svilisce anche il contenuto. È dunque la forma a dare il reale valore poetico al contenuto. Io poi rileggo sempre ciò che scrivo ad alta voce per sentire se suona bene.

Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?

Al primo posto metterei l’ascolto e dunque il silenzio. La capacità di abitare il silenzio come un luogo in cui ascoltare sé stessi e le voci che ci arrivano dal mondo. E poi il coraggio, il coraggio di scavare dentro sé stessi, di non temere di lottare con le ombre che offuscano la verità, né di lottare con la verità stessa sempre difficile da guardare in volto, da riportare sulla pagina. Se non in frammenti, in lampi.

“La vita in dissolvenza” – Lucianna Argentino (Samuele Editore 2022, collana Scilla, prefazione di Sonia Caporossi)

Per concludere, salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere tre tue poesie dal tuo “La vita in dissolvenza” e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che le ha viste nascere.

A questa domanda ho in parte risposto rispondendo alla prima domanda. Devo aggiungere che la scrittura dei monologhi di “La vita in dissolvenza” risale a circa quindici anni fa. Li ho scritti infatti tra il 2008 e il 2010. Come ho già detto sono storie vere e per quanto riguarda “Madre” e “Gestazione dell’addio” sono storie di cui sono venuta a conoscenza tramite i mass media e a cui ho sentito la necessità di dare una voce diversa da quella della mera cronaca, una voce più vera che rendesse giustizia al portato umano ed esistenziale della vita di queste donne. “1941” è invece dedicato a due scrittrici che amo molto: Virginia Woolf e Marina Cvetaeva, morte entrambe suicide in quell’anno. L’ultimo, “Aurora/Sara”, mi è stato ispirato dalla storia di una compagna delle elementari di mia figlia Arianna ed è un doveroso omaggio all’infanzia violata non, in questo caso, da abusi fisici, ma dallo sguardo disattento e superficiale degli adulti. È stata dunque una immersione nelle vite di queste persone nel tentativo, spero riuscito, di riportarne ameno un frammento della loro essenza.

scelti per voi

 

MADRE

La sento, sai la sento la forza che ci plasma
plasmare te nel mio utero
fatto di nuovo nido, fatto culla d’acqua
e tu, grappolo di vita, mora succosa,
aggrappato alla mia carne
fatta falda di sangue per le tue radici. Radice io pure
eppure io albero da frutto, ponte da te edificato
dalla tua voce chimica inturgidita.
In me ti seppellisci, in me sprofondi
e mi faccio pasto, focaccia
per il tuo crescermi negli abiti, nei cromosomi,
per il tuo somigliare a tutti quelli della tua misura.
E tu fai me fuori misura, me donna sempre in fuoriuscita,
in spargimento di qua da te,
a prepararti un nome, a scavarti un luogo.

(…)

Stamattina sedevo presso la finestra e guardavo fuori,
senza pensieri. Il cielo era coperto,
ma poi da dietro una nuvola è spuntato il sole.
Ho chiuso gli occhi e ho sentito
la luce fendere il buio, il calore colarmi sulla pelle
come una carezza, scrosciarmi dentro
e sussurrarmi: “sei viva sei viva”,
mentre un vento leggero traduceva per me il silenzio delle cose.

Ti partorisco in misericordia, nel luogo degli opposti
nel nove difettivo a dirci in perfezione
e tu mi partorisci nel coraggio di vedere più chiaro
sotto la luce radente del mio volerti qui mentre mi congedo
e vado via a passi ritrosi che mi sembrava non finito
il mio compito terreno e invece no, forse è questo il limite
e altro e ancora e di più non posso.

(…)

Tu figlio bello e benedetto,
figlio dell’obbedienza alla legge che regola l’umano.
Tu nato al mio principio di vita nuova
al mio transito in un silenzio leggero verso la parola giusta,
tu mia ultima parola, mio tutto è compiuto
perché nessuno ha amore più grande di questo:
dare la vita per i propri amici.
E’ questo il canto che vi lascio,
la fede che rammenda lo strappo
perché mai e poi mai sentiate l’abbandono
ma solo e sempre l’abbondanza del dono.
(…)

 

GESTAZIONE DELL’ADDIO

Trovarla nella caduta perpendicolare
del sangue la parola giusta
che mi raschi dalla pelle tutto il male,
che mi scavi le ossa e mi faccia cava
per galleggiare almeno in quest’aria
che non riesco più a respirare.
Trovarla negli otto minuti di travaglio
della luce ora che sto come il cielo
dismesso dalle rondini,
la verità dimenticata dall’ombra,
le lenzuola sui davanzali, al mattino,
prostrate in un rigurgito di buio.
Trovarla la parola giusta e difficile
ora che il mondo è tutto e solo visibile,
la parola che è segreto e mistero di te ed io,
quella che dice l’amore
quella che m’è rimasta dentro muta
perché non ho più un te
e nemmeno un io e sono metallo gelido
campana che suona
tamburo che rimbomba.

Non sanno che non è solo il corpo
che m’ hanno profanato
ma tutta tutta intera la vita
che il corpo ricco di messi e bello lo sentivo
e adesso non è più mio e mi sta addosso
come una guerra, come un conflitto mai pacificato.
Corpo estirpato, corpo incolto,
concesso alla mancanza
e se Dio esiste in me non sento più il suo alito
e sono polvere alla polvere già ritornata.

(…)

Lo dicono danno biologico, danno esistenziale
la mescolatura d’ossa, di muscoli
di bile e cartilagini, di tendini tagliati
pestati nel mortaio del mio cuore
caduto dalla tasca del tempo
ansima come qualcosa di ammutolito
che non torna a farsi suono, parola
ma batte, batte nell’amen degli agnelli.

(…)

Perdono chiedo a voi che m’avete amata – perdono!
ma la mia anima lacerata più nulla trattiene
da tutto è trapassata – assolvetemi!
come io mi assolvo nella morte ch’è di tutti.
E perdono chiedo pure a questa corda
alle sue fibre vegetali strette strette
legate per legare, ne snaturo l’uso
me ne orno per slegarmi
ne faccio scandalo, inciampo nella mia fine
e non c’è riparo a questo né riparazione.

1941

(Virginia Woolf)

Ho conosciuto la bellezza quando è unita alla verità,
ho assistito al loro casto amplesso,
al lampo della loro combustione
abbaglio felice nel cerchio perfetto dell’occhio.
Ho sentito il nostro essere posti tra la meraviglia
e il pericolo, pregni dello stupore dell’incarnazione,
del suo essere peso sull’intera ossatura dell’esistenza,
su noi ponti intimoriti aggrappati a un’unica sponda.
La realtà è troppo forte
e per tutta la vita l’ho sentita addosso
ne ho sopportato ciò che nelle mani
trova la misura per la nostra sopportazione,
il deposito delle ali per il cammino terreno del respiro,
incalcolabile e attonito,
così vicino alla quotidiana agonia del mondo.
Tutto è troppo umano, questa è la tragedia,
ora che mi esonda in petto la storia
e l’aria odora dell’irreparabile.
Tutto è perso, è freddo, fame, bombe, miseria,
tutto è disordine e pure il cielo è genuflesso
sul mio cuore sbeffeggiato dal male
in bilico sull’abisso aperto nella dissimmetria tra la cassa toracica
e l’orbita infinita che il cuore compie attorno ai corpi terrestri
umanamente dediti all’infelicità.

(…)

(Marina Cvetaeva)

Mi hanno chiamata Marina
ma è la montagna che ho amato
di marino ho avuto il cuore: le sue maree,
le mareggiate, la sua vita di oscuri fondali.
Ero una vetta eppure m’infrangevo sugli altri
– getto d’acqua inesauribile – eppure
roccia solitaria, picco e rupe scoscesa – io e la mia parola.
Quando l’amore era nido e stella,
quando la poesia sgorgava da tutto il creato
e con questa condanna, con questa forza
credevo di poter controllare qualunque essere vivente,
il vibrare silenzioso delle cose, ma non il ferro no, non il fuoco!
Non questa guerra, questo orrore:
la fame, le sirene, i battelli sul fiume pieni di feriti,
gli sfollati, sfollata io nell’insignificante
coi miei miseri gomitoli di lana francese
i loro inutili colori contro tutto il grigio,
tutta la miseria, il dolore, la morte.
Dov’è? dov’è lo spirito? che venga! che mi aiuti, mi salvi!
Mi renda di nuovo necessaria la vita
e me necessaria a qualcuno!
Sfrondi i rami dell’anima carichi di pena,
venga in me come coloro che vanno nella casa di un defunto
a raccoglierne gli abiti, gli oggetti per una nuova distribuzione
di tutto ciò che va e viene tra la terra e il cielo.
La frazione in exstenso di chi resta.

(…)

 

AURORA/SARA

L’infanzia è un regno immenso
dove si impartiscono lezioni di volo al vento
dove tutto respira e ha occhi e un’anima
dove è un solo popolo, una sola lingua,
una sola sostanza tra le cose, gli animali e
gli esseri piccoli che lo abitano.

Non ho mai avuto un regno
tutto s’è fatto subito mondo, un mondo verticale
da arrivarci con sforzo, in punta di piedi
dove io sono una cordicella tesa di fibre spaventate,
in piena di sgomento.
Solo otto gli anni miei e poco più
compresi i mesi nel ventre di mia madre. Mi voleva, eppure andava in motorino, non mi badava
ad altri ha raccontato che è stato un calcio di mio padre
ma questo io non lo so, non lo devo sapere!
A me hanno detto che è stata una buca nell’asfalto
e poi i dolori al ventre.

(…)

Mia madre dice che sono matta
sempre con quella bambola orba
che non sapevo che significa
e le dicevo non è orba è Aurora!
Lei non capisce, non sa che il silenzio di quello sguardo
è l’abbraccio a cui lei manca,
è mammella con cui nutro la mia fame.
Aurora è la guardiana per la paura
di non esistere, di non sapere chi sono,
di non farcela a convivere con l’assenza.

(…)

E sto nella vertigine dei ciuffi d’erba tra le tegole,
nello sforzo della borraccina tra i mattoni di un muro,
io nella crescita orizzontale dei cani e dei gatti
avanzo raccogliendo avanzi,
briciole cadute dai miei sogni e pietre aguzze
mi conducono fuori da questo giardino
di cui abito la prossimità al muro.
Pure la mia infanzia è nata fuori stagione e maturata a terra
in una serra dove il cuore batte di battiti intraducibili
impazienti al ritmo della nostalgia
che non so com’è sentirsi uno con un altro.

 

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