A proposito della carta e della penna e della paura degli Accademici della Crusca per la scrittura digitale.

-Ma, professore! “Risquotere” non è con la C?
Spiegavo una lezione di storia, l’egemonia di Atene sulle città della lega di Delo, costrette ad essere sue alleate nelle guerre e a pagare cospicue tasse, che Atene, appunto, “risquoteva” per creare la sua potente flotta. E così, sullo schermo touch della lavagna interattiva multimediale avevo tracciato col dito quell’empietà ortografica. Gli alunni, in prima ora, si sforzavano di seguire, in un silenzio semiaddormentato che tentavo invano di animare facendo dei paralleli con l’attualità, con l’egemonia degli USA sui paesi della NATO. Ma quello che aveva improvvisamente svegliato la mia alunna non era stato un brivido per il nostro fragile scenario geopolitico bipolare, su cui si addensano le nubi della guerra, ma era stato invece quel mio errore ortografico. Guardo la lavagna imbarazzato.
-Sì, professore: come percuotere, scuotere…
Certo, penso dopo un attimo di esitazione, mentre già sentivo il rossore intiepidire le mie guance. Certo: le parole capricciose della filastrocca di Rodari, quella degli indiani Cu-Cu: “se le scrivi con la Q ride tutta la tribù”. L’avevo usata tante volte per spiegare le regole dell’ortografia, e ancora oggi la maestra la usa con mia figlia. Ringrazio la mia alunna, già del tutto sveglia, e mi precipito a correggere. Ma il rossore della vergogna rimane per il resto della lezione, a denunciare una sicurezza e indifferenza soltanto simulate.
Eppure, l’incidente è molto più serio di quanto possa sembrare a prima vista. Ogni giorno, poco prima dell’alba, in quella fatidica cerniera tra il giorno e la notte, quando tutta la casa ancora dorme, ho il mio appuntamento segreto con scrittura, rigorosamente a penna e sui fogli bianchi d’un quaderno. Inoltre, una curiosità onnivora mi spinge a leggere di tutto, diversi libri ogni mese: i libri li ho conosciuti da piccolo, aperti ogni sera nelle mani di mio padre e letti dalla sua voce.

Eppure, è bastato un attimo perché dimenticassi come si scrive una parola. Cosa è successo, esattamente? Forse la stanchezza? Forse il fatto di scrivere e parlare al tempo stesso? Forse l’insonnia della sera prima? No: è qualcosa di più banale. La parola riscuotere è un termine lontanissimo dai temi e dal lessico che uso di solito, è una parola che non scrivo quasi mai. Per questo motivo, l’avevo dimenticata, semplicemente.
Così, faccio una scoperta sconcertante: le parole si possono dimenticare con una facilità tremenda, se non le si scrivono spesso. Le parole possono, per nostra incuria, perdersi per sempre nella nostra memoria.

I miei alunni di oggi sono i giovani che vengono definiti Millenials: i ragazzi nati dopo il Duemila. Sono diversi da me, nato alla fine di un flusso storico che ancora conservava il sapore delle contrapposizioni ideologiche, l’eco delle lotte degli anni Settanta, e in cui era ancora lecito pensare ad un progresso sociale, storico ed economico rispetto ai nostri genitori.

Loro, i Millenials, vivono in un eterno presente, privo di qualunque dialettica. Sì, è vero, ogni tanto qualcuno improvvisa una folkloristica contrapposizione tra comunisti e fascisti, ma la verità è che il nostro tempo non offre alcuna vera alternativa, nessuna autentica contrapposizione. Ma un tempo senza dialettica è anche un tempo senza futuro. O piuttosto, un futuro c’è: uno solo, affidato alla certezza che la genetica e la cibernetica ci renderanno sempre più potenti. Il futuro di un preordinato sviluppo tecnico, la sua eterna ritmica ripetizione.

Il futuro è annunciato, ad esempio, da un microchip chiamato Telepathy, un prodotto della Neuralink, azienda di Elon Musk, il profeta dell’implementazione cibernetica della mente umana. Un micro-processore, i cui filamenti nanometrici si collegano alle cellule neuronali dell’area del cervello deputata al linguaggio. Gli impulsi elettrici delle cellule umane vengono captati, tradotti e inviati ad un trasmettitore applicato dietro l’orecchio, che a sua volta invia impulsi a distanza ai più svariati dispositivi: telefonini, tablet o computer. In questo modo, l’attività del linguaggio viene delicatamente prelevata dalla mente proprio sul suo nascere; le parole, appena fiorite nelle ramificazioni del sistema cerebrale, sono raccolte, processate ed espresse dalla macchina.

Ma che tipo di linguaggio potrebbe venire fuori dalle nostre menti in questo modo, una volta che l’intero processo creativo della parola ci venisse sottratto e manipolato? Certo, potrebbe essere un linguaggio unico, universalmente comprensibile in qualunque parte del globo. Senza dubbio sarebbe privo di qualunque possibilità di fraintendimento, perchè modellato sull’uniformità e precisione della macchina. Ma l’appiattimento dei significati in un unico senso possibile decreterebbe la fine del linguaggio stesso, che nasce sempre da un grido o da un canto, da un impulso a dare espressione e senso alla nostra vita interiore. I filamenti nanometrici artificiali respingerebbero la mente umana sempre più all’interno di un buio fatto di istinti primordiali privati della parola: l’uomo si trasformerebbe in un essere inferiore a tutti gli altri animali del creato, di cui finora si era creduto superiore. Che spettacolo sarebbe, vedere uomini dallo sguardo vacuo e opaco collegati a macchine che parlano artificialmente per loro!

Io, oggi, ho dimenticato la grafia di una parola; ma cosa potrà succedere domani ai ragazzi delle nostre scuole, quando lasceranno questi banchi? Tra di loro, soltanto due o tre su centinaia hanno l’abitudine di comprare o chiedere in prestito qualche libro ogni tanto. Il tempo e l’attenzione sono divorati dalle immagini che scrollano compulsivamente sugli schermi dei loro telefonini, divenuti uno scrigno prezioso di vita affettiva, ancore di salvezza dalla paura della solitudine. Al di fuori dei quadernoni scolastici, scrivono soltanto su tablet e smartphone, con programmi di scrittura iperfacilitata e ipercorretta, che rende superflua qualunque fatica ortografica. É il programma che scrive al posto loro.
Quante parole cominceranno a dimenticare a poco a poco, mentre l’inchiostro delle penne dimenticate negli astucci si asciuga e si indurisce? Mentre diventano a poco a poco sempre più poveri delle loro macchine?
Cosa ne sarà di una mente che disimpara a farsi linguaggio e arretra sempre più nel buio degli istinti, degli impulsi?

 

 

in copertina, Writing, Yu Suguwara

 

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