Marco Plebani e il suo “Decimo dan”, un “diario lirico” composto in ventidue anni.

tre domande, tre poesie

 

Nato a Jesi (AN), classe ’78, Marco Plebani ha trascorso la sua vita a Montefano, Corridonia e Macerata, dove attualmente vive con la sua compagna e suo figlio. Insegna Lettere alla Scuola Media “Enrico Fermi” di Macerata (MC). Con il precedente lavoro intitolato “Un giorno qualsiasi” (Ed. OTMA, Milano, 2011) si è classificato secondo al premio A.U.P.I. (Albo Ufficiale Poeti Italiani).

“Il libro che vi sottopongo “Decimo Dan” è una silloge che raccoglie le liriche composte in un arco temporale di oltre 2 decenni (1999-2021). Il titolo scelto fa riferimento al massimo grado delle arti marziali; un’ovvia metafora che si addice alla mia idea di poesia, per me espressione al massimo grado della consapevolezza che si raggiunge con l’ispirazione e la scrittura. L’idea di fondo è stata disporre, nel tempo, i componimenti in una sorta di concept, un po’ come gli LP musicali che dipanano un tema in sezioni e lo risolvono con l’ultimo brano. Le metriche che ho usato sono varie: dal sonetto, al verso libero, al madrigale, fino alla còbbola provenzale; il tutto all’insegna di un prepotente andamento allitterante che non disdegna, però, anche l’uso delle figure semantiche più ad effetto, arrivando persino al calembour. I versi sono per lo più endecasillabi e/o versi sillabicamente dispari”.

Qual è stata la scintilla che ha portato al tuo “Decimo Dan”, meglio: in che modo la (tua) vita diventa linguaggio?

La poesia non ha rappresentato una scintilla, ma un approdo e neanche tanto precoce poiché ho iniziato a comporre versi solo dopo i vent’anni. Il primo linguaggio, infatti, che ha stregato la mia vita è stato il cinema e successivamente la musica, soprattutto quella rock; dal primo ho voluto trarre le immagini, le microsceneggiature e le piccole narrazioni, mentre dalla seconda le catene sillabiche, le allitterazioni e i trucchi del ritmo che mi avrebbero portato in un secondo momento alla lirica. Il “Decimo Dan” che tento di raggiungere è il parto di un “diario lirico” composto in ventidue anni (1999-2021) e ripartito in tre macrosezioni: “antimeridiano” (l’infanzia), “pomeriggio e sera” (giovinezza adolescenza), “notte” (maturità). Esso va da prima della mia nascita e giunge al compimento con l’attesa di una nuova vita, quella di mio figlio. In mezzo vengono levigate le affastellate facce di un unico poliledro irregolare che può prevedere disparate forme metriche e prosodiche: frammenti, versi liberi sciolti, sonetti, madrigali, ballate e còbbole provenzali. Questi contenitori metrici sono abitati da versi classici come gli endecasillabi o comunque sillabicamente dispari che vogliono “dialogare” con i poeti che ho sempre ammirato: i lirici greci, Foscolo, Leopardi, Ungaretti, solo per citare le influenze più rintracciabili del libro, ma che non tento di emulare in quanto paradigmi ineguagliabili. E’ una tradizione che, per mia ammissione, non tiene conto della poesia degli ultimi sessant’anni, ovvero quella che va dalla Neoavanguardia in poi, un territorio sconosciuto e su cui dovrò mettere il naso, ma che, finora, non mi ha ancora emozionato poiché la ritengo (almeno per quel pochissimo che ho potuto leggere finora…) troppo asserragliata dietro alcuni dettami critico-filosofico-letterari che non mi entusiasmano molto: “grado zero” della scrittura, abolizione dell’assertività, negazione dell’io lirico, linguaggio oggettivato che pur tenta di raggiungere nuovi significati etc…; tutto questo è l’esatto contrario della mia zona comfort di scrittura. Sono un lirico “fuori tempo massimo” come molti e che non cerca a tutti costi una scrittura originale, ma solo che suoni bene. Non è detto, tuttavia, che in futuro non mi cimenti con quest’altro tipo di poesia, potrebbe rappresentare una bella sfida per sporcare altri fogli bianchi, ma prima dovrò documentarmi a dovere per essere credibile.

La poesia è un destino?

Secondo me no, ma sarebbe bello vederla così, in maniera novalisiana, il poeta come un eletto invasato che si fa portavoce di messaggi divini e una parte di me lo crede, ma le parole destino e divino risultano troppo ingombranti. Per me la poesia è, invece, una “guerra contro i fantasmi” e per vincerla mi occorre trovare le melodie con le quali dare volto e corpo a questi “fantasmi”, ma con obiettivi di volta in volta differenti: neutralizzare i traumi, ricordare i momenti pregnanti oppure aprire una breccia verso un futuro approssimante. Mi percepisco come un cacciatore di sonorità terapeutiche più che un poeta che immagina destini.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo libro; e di queste scegline una  per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere (nel contesto del libro che l’accoglie).

Ne sceglierò una per ogni sezione. La prima, che servirà per andare a ritroso nel tempo, s’intitola “Chernobyl” e rievoca alcuni momenti della mia infanzia mescolati con un passato più recente.

CHERNOBYL

Non ho pianto quando Chernobyl
sotto forma di nube al cancro
rubò i miei giochi esposti
in terrazzo.
Né quando mia madre
la serenità perse e non fece finta di nulla.
Né quando mio padre si è sigillato,
chiuso per sempre nel suo dolore
e nel trafitto silenzio: “Addio fratelli dispersi”.
Né quando,
per giorni, mia sorella si è sentita
completamente sola
sotto un sole ripieno di sorrisi.
Né soprattutto sopr’ogni cosa,
quando nell’87 gli infermieri mi hanno chiesto
di “gonfiare un palloncino”
in una sala operatoria.

Anestesia totale.

Mi svegliai burattino nei legni dolente.

Ho pianto ogni volta che qualcuno è morto
ed una parte di me ha camminato
per sempre nei cortei funebri.

Troppo preziose e troppo rare le lacrime di un uomo.

VALE DI PIÙ

Essere innamorato di te fa male
e vale di più della
crisi nervosa che attanagliante
ricopre mio corpo nudo tremolante,
di plumbee giornate in cui sfortuna
accanisce incisiva,
della vigna che prepara il vino
per la tua bocca,
di chi è passato e ha lasciato
strisce di sangue pubico,
del sanguine di Cristo
e dell’ideal marxista-leninista,
del tuo volto che s’asconde ancora
alla mia sessualità erettile,
inopportuna ed ansiogena.
Essere innamorato di te è un
Mistero conficcato nel palpito.

REPORTAGE OGGETTIVO DI UN SOGNO FATTO A DICEMBRE

Fuori lugubra ululante vento,
dentro alle coperte il mio cervello
impasta sogni all’alba fornaia
uccidendo periodi ipotetici.
Al buio abituato ed inutile
il cervello dei poeti sonnecchia
chiassoso.

Fa il suo falso effetto:
ti ho davanti gli occhi,
ma sei fuori retina.

Una “esse” sibila tra i miei denti
di ferro e sorridiamo unisoni
riavvolti in un rosso sussurro.

Non sono stato abbastanza forte
da trattenerti e via sei soffiata.

Agita il vento la stella sopra la fornace di Montefano,
stella di Leningrado.

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