cop leggodico tricomi lIl nome del nulla di Paola Tricomi
(A&B)

Il nome del Nulla raccoglie le liriche scritte dal 2007 al 2013 e si presenta come raccolta di scenari di un cammino, di una ricerca: ricercare l’essenza, il senso, il seme dell’esistenza e della vita nel tessere oscuro delle stelle. Vita tratteggiata appena e sfumata che emerge nell’etereo, impalpabile e prepotente sentire, dove il bianco è sempre più parola idonea del cielo sopra noi e di quello dentro noi. Dare forma al fumo, sempre sul filo della via, attraverso il tango tra detto e taciuto che ha in sé nucleo dell’essere. Il fumo, l’inutile, il nulla base di ogni nostro vivere e tempo. Sfiorarlo per poter sfiorare l’altro, indicarne segno sotto il nome di poesia. “C’è una non comune maturità aperta di pensiero nei versi di questa giovanissima, nell’acutezza vitale eppure mai consolatoria della sua intelligenza – scrive nella prefazione il poeta Maurizio Cucchi. Una poesia di pensiero, appunto, e di ininterrotta riflessione sul senso dell’esserci, sul suo disagio e sulla quotidiana meraviglia, che danno l’idea di una solida tempra morale, di una capacità di visione del mondo e dell’esistere che sa andare ben oltre la propria personale condizione. Una lirica verticale, dunque, ma senza la minima concessione ai turbamenti dell’io; e senza il minimo orpello stilistico, senza ricerca alcuna di effetti speciali. Paola Tricomi vuole infatti praticare la parola essenziale e asciutta, che sappia nutriris, s’intende, del grande respiro della meditazione antica, della tradizione classica che evidentemente le è cara”. “Nella poesia di Paola – aggiunge in postfazione il prof. Giuseppe Savoca -, non ci sono parole superflue. Essa vive anche nella pronuncia delle parole più semplici e più normali, come sono, ad esempio, gli avverbi e ancora, che servono inizialmente a situare il soggetto parlante di questi versi in un luogo preciso e in un tempo storico, ma finiscono per caricarsi del significato di una totalità di vita e di un’attesa ineludibile di salvezza per sé e per tutti”.

 
leggodico l'odore della carta“L’odore della carta” di Ian Sansom
(Tea)

Immaginiamo per un momento che la carta stia per scomparire. Che cosa andrebbe perduto? La risposta è semplice: tutto. La carta è tutt’intorno a noi. E non pensiamo soltanto ai libri, alle lettere, ai quotidiani; pensiamo ai certificati, alle carte da gioco, ai tovagliolini, ai biglietti da visita, agli imballi dei telefoni cellulari e alle bustine del tè. Siamo gente di carta. Tuttavia, si dice, l’epoca della carta è al tramonto: si vendono più ebook che libri cartacei, i biglietti elettronici hanno rimpiazzato quelli tradizionali, gli archivi vengono digitalizzati. Il mondo in cui viviamo è stato costruito con la carta, nondimeno ovunque guardiamo la carta sta scomparendo e stiamo entrando in un nuovo mondo, senza carta. In questo libro, Ian Sansom esplora tutti i paradossi di questo eccezionale materiale inventato dall’uomo e la sua presenza, silenziosa e ininterrotta, dietro ogni aspetto della nostra vita. Un’opera divertente e stracolma di curiosità e informazioni, una riflessione di straordinaria attualità. “Il presente volume – leggiamo nell’introduzione -, è concepito in parte come una storia della tecnica e dei materiali, ma è soprattutto una storia dei simboli, o una storia simbolica di come la carta possa assurgere al sacro e divenire oggetto di venerazione, degli spazi di libertà che è in grado di offrirci e degli evidenti limiti che c’impone. […] La carta può assumere un tal numero di forme e tipi che ho dovuto necessariamente lasciarmene scivolare via molti tra le dita. Basti pensare al Giappone, terra in cui esistono centinaia di tesori nascosti, tesori – ovviamente – di carta: gli hiki-awase, usati come imbottiture dei pettorali delle corazze […] E poi il suono dei diversi tipi di carta, e gli odori, come l’odore di ammoniaca che emana dalle grosse stampanti da ufficio. E la serie non finisce qui, anzi: è appena cominciata”.

 

cop leggodico macchiaInterporto est di Annalisa Macchia
(Moretti & Vitali)

Interporto est di Annalisa Macchia è – scrive nell’introduzione Paolo Lagazzi -, una specie di trepido e commosso romanzo per flash, sovrapposizioni, contrappunti, rapidi accostamenti memoriali, cammini e soste, fughe e risalite dal presente al passato e viceversa. Tornare dove si è vissuta la stagione mitica dell’infanzia (una frazione della campagna livornese) significa osservare tutto quanto si è perso e continua a perdersi, a sfarinarsi, a sgretolarsi come il cimitero assediato dall’interporto o la chiesa la cui campana fu messa in vendita, come i terreni invasi dai container o da “alberi scheletrici”, come il ricordo stesso delle chiacchiere femminili en plein air che un tempo innervavano i giorni. Adesso persino gli spazi domestici soffocano: “sospeso anche il respiro / brancolano corpo e mente…”. Eppure negli abitanti del paese avviati al declino resiste un “non so che di fiero”, mentre il lento spegnersi della madre ha lasciato in dono all’autrice di questi versi un fuoco segreto, un “filo / incurante di morte e saccheggi”, “un nodo più forte d’ogni male”. Così misurarsi col passato è per lei “una lotta continua” tra il bisogno di resistere al dolore e quello di accettarlo, fra il desiderio di “spogliare” le forme, gli oggetti e le tracce del tempo e quello di riscoprirne la “piccola anima”. Intrecciando (come osserva Luigi Fontanella nella postfazione) la lucidità dello sguardo con il respiro onirico delle visioni, Annalisa Macchia sembra cercare un “regno” diverso, un luogo intermedio tra il reale e i fantasmi in cui smarrendosi e ritrovandosi, in cui socchiudendo gli occhi per rivedere le lucciole delle estati perdute e aprendoli per fissare con coraggio il “sole” accecante della morte sia possibile riconoscere le linee vere del proprio destino, il proprio essere “anello / di una imperscrutabile collana” lucente di strazio e bellezza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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