Roberto Deidier, foto di Dino Ignani


Parola d’Autore


Non ricordo come è iniziata, neppure se c’è stato un vero e proprio inizio. Per carattere sono incline alla sorpresa, quindi non amo progetti, strategie, prospettive, e resto alieno dai traffici. C’è una bellissima poesia di Kavafis che parla di questo, di non disperdere la propria vita nei traffici e nei commerci: non è stato difficile prenderla sul serio. Ricordo le letture, quelle sì, piuttosto precoci e un po’ azzardate (a volte si incontrano maestri lungimiranti): Calvino, gli antenati e le cosmicomiche; Pascoli e Ungaretti (i classici dei vecchi sussidiari); e una lunga (allora, per me) e curiosa poesia di Prevert, che si intitola Per fare il ritratto di un uccello, anche questa tra le pagine dei libri di scuola. La sfida, naturalmente, era impararla a memoria, ma io ci riuscivo per breve tempo, poi dovevo tornare a ripassarla. Si doveva disegnare una gabbia, poi l’uccello, infine cancellare la gabbia. Per un bambino una metafora è solo la fatica di un paradosso. Con questo piccolo bagaglio ho cominciato le mie esplorazioni, portando tra le mura della casa un po’ di esotismo, ma credo che questo sia un tratto comune a tutti i bambini: certamente a quelli della mia generazione. La televisione di quegli anni trasmetteva in orari limitati, documentari e sceneggiati ambientati in Africa, e ancora Tarzan e storie di naufraghi (Robinson incombeva) e i giochi – già allora – procedevano per imitazione. Disegnavo sul retro dei libri le prime lettere (sì, le disegnavo: scrivere era qualcosa che riguardava la scuola, il dettato, non i giochi del pomeriggio) copiandole dai titoli di coda delle trasmissioni. Soprattutto disegnavo cupole, cupole orientali. Una Samarcanda da lunapark. Oppure pensavo alle steppe del nord, a tronchi chiari in una luce obliqua. Nei disegni dell’Oriente era sempre notte; in quelli dei boschi di betulle il sole non tramontava mai, ma ancora non lo sapevo. In quella geografia casalinga ogni parete era un’occasione. I primi pensieri riguardavano la vita segreta dei muri: tubi, fili, scrosci d’acqua. La casa era un grande corpo che m’ingoiava, ma ne ero felice. Poi il lungo silenzio dell’adolescenza, l’età che brucia. E la riscoperta della poesia alla fine del liceo (altre presenze lungimiranti, che deviarono la mia passione per l’architettura verso un altro tipo di scienza del costruire: parole al posto di mattoni). Mi ritrovai su Foscolo e Leopardi, ma già prima c’erano stati gli umanisti, e i rovelli, le antitesi, le oscillazioni di Petrarca. Nelle aule della «Sapienza», dove mi iscrissi a Lettere, avvennero altri incontri importanti: Montale e la poesia del Novecento, Baudelaire e i simbolisti. Nuovi spazi, nuove geografie. Il mare come immagine condivisa, la libertà e l’altrove, il rischio e il pericolo. La poesia stessa: nei versi che ricominciavo a scrivere il mare c’era quasi sempre, ma era diventato una metafora, e non me ne accorgevo. Al mare si sarebbe sostituita la città, l’orizzonte di Roma, mentre l’insegnamento mi avrebbe portato verso un’altra città, ma anche verso un altro mare. Di questi passaggi la mia scrittura è divenuta anzitutto la compagna, la testimone: ogni parola è il segno, la traccia di un legame con il passato e di un invito al futuro. Mi ha seguito senza imporsi, e anche io ho cercato di aspettare che qualcosa, come dice Dante, dettasse da dentro. Alla poesia non va chiesto nulla. Dai poeti, dagli artisti non si può pretendere. Ogni linguaggio deve potermi giungere ancora come una sorpresa. Le poetiche da tavolino le sento estranee, imprigionanti, chiuse. La pagina è sempre un mare aperto. Esplorare, ecco, senza cedere neppure al facile mito dell’ispirazione: cercare di tenere la rotta, e ogni tanto perdersi felicemente, anche pagando con il silenzio. solstizio deidierNon mi ha mai spaventato, il silenzio: Solstizio vede la luce dopo più di dieci anni e credo che mi somigli. Ha molto dei miei chiaroscuri ma anche molto delle mie invenzioni. Inventare, in poesia, non significa necessariamente barare o mentire: in fondo, quale che sia il nostro genere, non facciamo che scrivere di pagina in pagina il libro della nostra vita, come sostiene Joyce. Ma in poesia il rischio di perdersi è più alto, perché un mondo continuamente si affaccia sulle macerie della nostra realtà; forse per questo, a un certo punto, il ritmo s’interrompe e sentiamo il bisogno di tornare indietro, di scendere a capo. Così ogni singolo verso ha in sé le tracce del mio esplorare, del mio fare i conti con i dintorni, con il paesaggio mutevole del mio tempo. Anche per questo non credo alle etichette che di volta in volta si sostituiscono alla poesia, che puntualmente le rifiuta come rifiuta ogni aggettivo: poesia civile, per esempio. Ciò che lascerebbe presupporre il suo contrario: e dov’è, cos’è la poesia incivile, se ogni atto di poesia, nel nostro presente, è senza dubbio un atto di civiltà? Nel circo quotidiano a cui siamo involontariamente ammessi, senza neppure pagare il biglietto, la poesia, creatura del linguaggio, è vera, e noi, di carne, siamo terribilmente finti.

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