«L’amore si può moltiplicare:/ nelle mani che sgranano la curiosità/ nelle ombre che precedono altro sole/ nel passo incerto prima del cammino/ nella palla che sa aspettare il gioco/ nella speranza che la vita sia gentile/ con i giocatori», versi di Raffaele Gueli per introdurre la lettura di un volume intriso di spiritualità precorritrice, “L’equinozio dal punto di vista di una foglia di basilico (le poesie del ritorno)”, pubblicato dalle raffinate edizioni “ilglomerulodisale” di Gaetano Giuseppe Magro (con una gustosa nota di Andrea G.G. Parasiliti). L’amore, un «passo prima della capitolazione/ delle parole». L’amore, «possibile ovunque», tra equazioni di luce e buio, cielo e terra, dal «chiasso di babele/ alla geografia del suo silenzio», senza mai perdere «il fiato del vedere», alza una invocazione «spasmodica» come l’attenzione per la vita. L’amore, per «spiegare al grano/ la pazienza della spiga». L’amore che commuove, scompone «le certezze dei confini». L’amore, che appicca semi, un “Alfabeto futuristico” che chiama alla pace, al disarmo, alla doverosa uguaglianza.
Pariamo dal titolo (perché questo titolo) e qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “L’equinozio dal punto di vista di uno foglia di basilico (le poesie del ritorno)”, meglio: in che modo la (tua) vita diventa linguaggio?
Le parole non bastano, né alla poesia né alle persone in generale. Le parole sono le fondamenta, su questo non c’è dubbio. Oggi, però, si ha un’idea semplificata di linguaggio. Troppo spesso il linguaggio è ridotto all’essenziale, impoverito, o addirittura confinato esclusivamente alle immagini. Stiamo perdendo complessità. Io attingo dalla complessità. Un linguaggio complesso, emotivo, dotato di respiro, razionale, con un sistema motorio che lo muove. Perché non bastano le parole: servono parole intere, che pescano nel calamaio della complessità. Parole che narrano. Non solo razionali, ma piene. Parole che costruiscono ponti di significato. Eppure, a fare la poesia è qualcosa di profondamente intimo e inconoscibile nel suo atto. È come se le parole fossero una locomotiva che trasporta qualcosa di urgente, da recapitare alla scrittura in un dato momento. Ma la poesia non vive solo della locomotiva: servono i binari, la stazione, le fermate, i paesaggi visti dal finestrino. Servono tutte queste cose, che sono esperienza. Sono dimestichezza con l’esperienza. Una volta mi chiesero come nasce la mia ispirazione. Risposi al pubblico raccontando un piccolo dettaglio che avevo notato durante l’aperitivo informale, prima della presentazione. Rimasero stupiti. E così mi fu più facile parlare di meraviglia. Continuai rispondendo meglio alla domanda. L’ispirazione nasce dall’interesse per le cose della vita, per le persone, per i luoghi. E questa non è una risposta presuntuosa: molti vivono questo interesse. Però bisogna ammettere che moltissimi altri no. Altrimenti non esisterebbe la grande piaga del XX secolo: l’indifferenza. La poesia, con il suo linguaggio, ruba continuamente alla vita una narrazione, trasformandola in traccia. Una traccia che diventa l’espressione di un modo particolare di esistere attraverso le parole, all’inizio. E poi i suoni, le immagini, i ritmi e, infine, anche l’indicibile.
Ad oggi, dove sei stato condotto dalla poesia, qual è stato l’insegnamento?
La poesia, ad oggi, mi ha condotto a una profonda considerazione, che esprimo con il beneficio di un postulato: la poesia è un sintomo della ragione.
Non alla maniera di Freud, Jung o del pensiero psicoanalitico del primo Novecento, che vede nella sublimazione un modo per trasformare pulsioni profonde in espressioni più accettabili. Nemmeno secondo la visione di Brentano, che definiva la poesia come “sorella buona della follia”, in riferimento a una riformulazione delle modalità distruttive in creative e positive. No, è qualcosa di diverso. Senza questi “sintomi”, la ragione rischia di funzionare in maniera riduzionistica e deterministica. L’arte, la musica, la scrittura, la religione, e persino il modo in cui interpretiamo il lavoro o le relazioni, possono essere esempi di questo “sintomo”. Perché allora usare questa parola, “sintomo”? Non tutti i sintomi sono negativi. Esistono anche sintomi buoni, positivi. Jovanotti ce lo ricorda in una sua canzone: “Dottore, che sintomi ha la felicità?”. La poesia è proprio un sintomo buono. Essa attinge ai valori, al simbolico, ai luoghi dove attribuiamo significato al mondo e alle persone. Oggi, però, è sempre più evidente che, quanto più funzioniamo in maniera deterministica – secondo le regole della fisica classica – tanto meno possiamo sperimentare la bellezza e la pienezza del libero arbitrio, della libertà. La poesia, invece, opera secondo i principi della fisica quantistica: è più libera, più aperta alle possibilità. La poesia è libertà. Per questo penso che la poesia sia un sintomo buono. È innocua, ma al tempo stesso fornisce notizie preziose su ciò che accade negli abissi dell’essere umano. E, perché no, anche su ciò che succede nelle spiagge più tranquille. Ma va ricordato che ama nuotare negli abissi. Tuttavia, la poesia si muove tendenzialmente nei luoghi di profondissimo contatto, un po’ come i sogni. Ecco perché si dice che tutti potrebbero scrivere poesie: è qualcosa che accomuna l’essere umano. Se poi il “fare poesia” diventa così importante da definire una persona come poeta, tanto meglio. Non è accaduto nulla di eclatante: quella persona ha semplicemente trovato un contatto profondo con la propria libertà percorrendo questa strada. Ma non solo. Potrebbe esplorarne molte altre. Certo, se la libertà venisse trovata esclusivamente nella poesia, allora sì che si potrebbe parlare di un sintomo negativo. Ogni volta che incontriamo il riduzionismo, c’è un pericolo. Dunque, la poesia è libertà. È a questo punto che sono arrivato oggi. Certo, il cammino continua e non so dove mi condurrà ancora la poesia. Sono d’accordo con Patrizia Cavalli: “La poesia non salverà il mondo”. Tuttavia, penso che la poesia possa prendersi cura del mondo. Forse non lo salverà, ma sicuramente saprà prendersene cura nel migliore dei modi. Theodor Adorno affermò che, dopo Auschwitz, scrivere una poesia sarebbe stato barbaro. Eppure, come mi ha suggerito un verso di una mia poesia: ad Auschwitz nacquero anche poesie. Proprio durante una delle vicende più terribili dell’umanità, la poesia ha saputo legare vita e speranza in un luogo creato per negare entrambe. Questo è un fatto profondamente emozionante per l’essere umano: la poesia è riuscita a prendersi cura del mondo persino nel luogo più tragico della sua storia. Detto ciò, affermo ancora – e infine – che la poesia è il luogo sacro dell’attenzione alle cose tutte. Per questo è libera. Per questo riesce a fare ciò che sembra incredibile, come nei casi sopra citati. Ecco, sono arrivato qui. A questo punto mi ha condotto la poesia.
“domani canterò parole scandite forte/ e allora sarai canto del mio canto”, con i tuoi versi per chiedere: le parole bastano alla poesia, la poesia è un destino?
Come dicevo prima le parole non bastano alla poesia. Mi piace riflettere su questa considerazione: la parola è una parte della verità; il sogno è tutto il significato della verità; la poesia è il luogo dove nasce tutto il significato della verità. Detto questo è evidente che le sole parole non bastano alla poesia. Continuando con l’input sul destino mi chiedo: Destino? Chissà! Destinazione sicuramente. Si, una destinazione ogni volta. L’equinozio dal punto di vista di una foglia di basilico è la parte inconoscibile. E la lascio tale. Non voglia essere il mio uno snobismo patetico. Non serve dare per forza un volto a qualcosa che volto non deve avere. Poesie del ritorno è la cosa da destinare. Di questo parlo. C’è bisogno di un ritorno alla narrazione, al contatto profondo con la natura, all’alleanza tra le persone e gli stati che ci contengono. Non è un retorico ritorno nostalgico al vintage. È una impellenza. Bisogna risentirlo tra le mani il profumo di basilico non attraverso il pensiero riduzionistico e semplificato. Devono ritornare i riti. Qualcosa che scandisca il corso del tempo. Deve assolutamente esserci la poesia che fa da ponte e tiene insieme tutto questo scollamento individualistico e impaurito. Ci deve essere una poesia che rassicura. Una poesia che sveli il bluff di Nietzsche. Dico in una poesia: Dio non è morto. Siamo noi a non essere ancora risorti dall’idea di essere al di sopra di ogni cosa. Siamo meno, molto meno. Per questo dico in un’altra poesia che attingo dalla polvere della poesia. C’è bisogno di un gran bell’equinozio per l’umanità. Devono cambiare molte cose. Dunque, la poesia non è un destino ma ogni volta una destinazione. Bhe! Spesso è anche la destinazione di un destino. Va detto questo.
Scelte per voi
2*
Mi diletto agli impatti
i patti erano quelli di inarcare
imbarcare acqua per dissetare
svuotare liberare maree
sale tenere a galla
non dissestare smontare
galleggiare non svanire
parlare non urlare
poi l’ugola si dispiace
perde il tono ricostruire
il perdono l’umore
poi il cuore sbatte
non fa più parte
arto fantasma ad arte
per pendere meno dalle labbra
e appendere all’aria
coraggio aperte porte
era ora di arare tornare
soppiantare un tarlo con un urlo
spiegare al grano
la pazienza della spiga.
—
“Potevano non esserci tante cose”
Potevano non esserci tante cose
ma aria, mare, respiro che apre le
braccia -queste si, ci sarebbero state
ugualmente
Potevano non esserci tante cose
ma la farina si
le mani che la impastano anche.
Poteva non esserci l’acqua per qualche
giorno
ma il sudore non poteva non esserci
e quello basta per impastare a pane.
Poteva non esserci il forno
ma il sole e il cuore si, quelli per forza
bastano all’aria lievito
per colorare a crosta dorata
la tavola luna piena.
Potevano non esserci le parole
ma le storie delle mie spalle
della mia pelle, della mia fronte
quelle ci sono per forza.
Ci saranno sempre anche senza saperlo
e basteranno
per tutte le cose che potrebbero non esserci.
—
23*
Mi rimane la sera
tra i tralicci insicuri
le poltrone affogate nell’aria.
Sono le solite forchette
a dire la verità sugli avanzi.
Sono i piatti fondi
a contenere gli orizzonti.
Mi rimane la sera
qualche spicciolo di luce
certe mollette in attesa
uno scolapasta che setaccia alcuni
dubbi.
(la versione ridotta di questa recensione-intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 23.03.2025, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).