tre domande, tre poesie
Valentina Proietti Muzi è nata a Roma (1981) dove risiede. Ha pubblicato per Amos edizioni (collana A27) la sua prima opera di poesia, “Il mondo che fa per me”. Nel 2020 la breve raccolta inedita “Grand tour” è arrivata seconda al premio Renato Giorgi. Sempre nel 2020 la raccolta inedita “Exit” è arrivata finalista al “Premio Bologna in lettere – VI edizione”. Nel 2021, tre inediti sono apparsi sulla rivista online l’EstroVerso, a cura di Grazia Calanna. Un suo recente racconto, Risvegli, è apparso in podcast nell’ambito del progetto “Amore fai presto”.
Qual è o quale dovrebbe essere (dal tuo punto di vista) la lingua ideale della poesia, la forma quanto incide sull’essenzialità della parola poetica e in che modo la vita diventa linguaggio?
Lingua e forma della poesia hanno in comune la tensione verso un mondo di confine, in grado di farci percepire il fondo ultimo della realtà – che non è detto sia afferrabile e che potremmo anche chiamare apeiron, con Anassimandro. Questo fondo ultimo conserva un mistero, un enigma – e la poesia non è chiamata, secondo me, a decifrare l’enigma, ma solo a renderlo visibile, a farlo affiorare in superficie e a creare quella frattura nel reale che ci consenta di coglierne l’esistenza. Al riguardo, la forma della poesia per come la intendo io deve essere “ridotta all’osso”: è solo eliminando dal testo tutto ciò che è superfluo che la poesia può diventare anche strumento di conoscenza e di libertà, in grado di unificare i dati dispersi e confusi della realtà esterna e la vita dell’individuo.
Ed è proprio interpretando in questo modo la poesia che la vita diventa linguaggio, perché attraverso la parola liminare l’individuo (il poeta) nasce via via lungo la propria esistenza, ma (come diceva Maria Zambrano) “non in solitudine, bensì con la responsabilità di vedere e di essere visto”.
La poesia è tale se diventa portatrice di una visione che non è individuale (bensì sovraindividuale); qual è la tua opinione in merito?
Attraverso la parola poetica e all’interno stesso della parola, l’individuo si scopre a se stesso, si presenta – crea il presente vero, reale. La poesia più di altre forme letterarie, secondo me, riesce a restituire quell’attualizzazione del tempo che sempre la Zambrano chiama “presente perfetto”, in grado cioè di svelare la realtà del soggetto in cui il tempo multiplo si fa uno: ma questa realtà unificata non ha nulla a che fare con l’immobilismo di un’integrazione compiuta. L’unità rimanda a un centro, ma al centro si può arrivare per molte vie – soprattutto, attraverso la visione che si dà agli altri di sé e che noi abbiamo degli altri. E questo movimento dall’io al tu – e viceversa – rende la poesia sovraindividuale, il medium della nostra libertà come individui e della nostra responsabilità come essere sociali.
Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo “Il mondo che fa per me” (perché questo titolo?); di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
Il titolo ha preso le mosse da una raccolta di poesie di Ingeborg Bachmann, “Non conosco mondo migliore”: ricordo che quando iniziai a leggere i testi di quest’opera, carichi di angoscia e dolore (spirituale, ma anche e soprattutto fisico, lacerante), mi sono chiesta quale fosse invece il mio mondo, quello che mi apparteneva davvero. Da queste riflessioni germinali è derivato poi il titolo della raccolta, che è una sorta di viaggio iniziatico – il viaggio di una giovane donna in cerca della sua identità e del suo affrancamento dall’essere figlia (il percorso, infatti, replica un po’ le tre tappe dei misteri eleusini, in cui l’iniziando faceva esperienza della morte catartica e poi ritornava alla vita, e questi misteri erano dedicati al mito di Demetra e Persefone).
Ecco i tre testi che ho scelto, prendendone uno da ciascuna delle tre sezioni-tappe:
Punti di vista
Uno sguardo alle ultime cose vive
ci sono insetti creature di vetro
centinaia di corpi ti assalgono
e potrei continuare
ma le ombre calcolano il percorso
ti trovano ovunque
dovresti spostarti più spesso
ottenere distanza
perché anche loro sbiadiscano
allora perché siete tornate?
A bocca aperta
Mi sono svegliata
con l’idea di succhiare radici
perché ho il ventre secco
che non è più tempo di nutrire
mi salgono dalle ossa
fili spezzati
con dentro il peso
e ombre intorno
in quanto alla sequenza
bocca nome distanza
si può tornare
dove va cosa
dove non ci sono incendi
e non mi aspetta futuro
Conservazione. martìri
E poi la testa e gli occhi
molto vuoti tra le palpebre
ma prima che ti vengano incontro
si allacciano i polsi
e le dita comunicano
poche ravvicinate costruiscono percorsi
riaprono ferite
ma passati i corpi
tieni dietro alle ombre
vale a dire che sei morta prima
La seconda poesia che ho riportato, A bocca aperta, riprende temi personali molto profondi, che mi hanno accompagnato prima durante e dopo la stesura di questa opera, vale a dire il rapporto con il corpo – il mio corpo di donna – spesso conflittuale, in continua tensione fra il desiderio di sentirmi donna e la paura di esserlo, per tornare in un guscio che mi mantenesse in un tempo sospeso. L’idea di un’identità ancora acerba e sempre sul confine fra vita e morte – o fra vivi e morti – è la visione fondante questo libro e A bocca aperta ne rimanda la carica viscerale più di altre.