Luigi Palazzo, “Bar Samarcanda”, in versi il senso di precarietà dell’esistere.

tre domande, tre poesie

Avvocato e docente a contratto di materie giuridiche, Luigi Palazzo ha firmato testi e regie teatrali. Ha pubblicato le raccolte di poesie “Non raccontarmi il cielo” (Manni, 2019) e “Bar Samarcanda” (Transeuropa, 2021). Alcuni brani poetici sono apparsi su La Repubblica (nella rubrica a cura di Vittorino Curci) e su blog letterari tra cui Atelier, Inverso, Il Visionario, L’Altrove, Leggere Poesia, Salento Poesia e sono stati tradotti in spagnolo a cura del Centro Cultural Tina Modotti.

In che modo la (tua) vita diventa linguaggio, qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Bar Samarcanda”?

“Bar Samarcanda” nasce dalla voglia di raccontare in versi un senso di precarietà dell’esistere e di farlo da una prospettiva popolare, dal punto di vista di chi vive e s’incontra e, magari, non avverte il problema di spiegare o spiegarsi il senso di precarietà dell’esistere né di come ciò possa essere raccontato o presentato tramite dei versi.
Filo rosso della raccolta è una domanda semplice: “che ne sarà di tutto?”, che chiude il brano iniziale (in rima, che volevo fosse una sorta di abracadabra, l’apertura di un sipario) ed apre uno dei due brani conclusivi della raccolta.
In mezzo, la vita, le vite di personaggi di una realtà di provincia (che si sgretola) che si ritrovano, più o meno casualmente, in un bar e fanno i conti col tempo, chi con le delusioni del passato, chi con un presente più o meno stretto, chi con un futuro più o meno accessibile.
Il parametro che mi sono dato nella scrittura della raccolta – che mi piace possa arrivare nella sua interezza, come mosaico di poesie – è l’efficacia; dunque, la strumentalità della parola e, poi, del verso rispetto al personaggio.
Ho provato a misurarmi con l’eterogeneità.
Nella strutturazione del progetto letterario, mi è piaciuto attingere al mondo del cinema ed a quello della musica.
I personaggi nella prima sezione (intitolata, “Piano sequenza”, per l’appunto) sono presentati in terza persona, nella sezione successiva (intitolata “Soggettive”), invece, raccontano direttamente di se stessi, in prima persona. Il tutto mentre le casse del bar passano un po’ di bella musica (spesso citata nei vari brani).

Riporteresti una poesia (di altro autore) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti, rivelandoci cosa “muove” la tua preferenza?

Qui non vorrei morire dove vivere
mi tocca, mio paese,
così sgradito da doverti amare;
lento piano dove la luce pare
di carne cruda
e il nespolo va e viene fra noi e l’inverno.

Pigro
come una mezzaluna nel sole di maggio,
la tazza di caffè, le parole perdute,
vivo ormai nelle cose che i miei occhi guardano:
divento ulivo e ruota d’un lento carro,
siepe di fichi d’India, terra amara
dove cresce il tabacco.
Ma tu, mortale e torbida, così mia,
così sola,
dici che non è vero, che non è tutto.
Triste invidia di vivere,
in tutta questa pianura
non c’è un ramo su cui tu voglia posarti.
(Vittorio Bodini)

*

Vittorio Bodini è stato il primo autore dalla cui poesia mi sono lasciato sedurre e che ho amato ed amo profondamente, dai tempi del liceo.
Con Bodini ho capito che la poesia non ha bisogno di epica e può nascondersi anche nel quotidiano della periferia, nel più profondo sud, a casa mia.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo libro, “Bar Samarcanda”; di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

L’UOMO COL PANAMA

Entra nel bar
o alla posta o dal medico
ed è sempre
buonasera o buongiorno
anche quando lo scirocco addensa il midollo
o perde lu Lecce
o gli casca la pastiglia nella ciotola del cane.

Ai presenti, agli assenti, ai distratti,
al sudore, al dieci novembre, a Santu Frangiscu,
all’aria che sa di paese.

L’universo che si smarca
in un saluto.

DEBORA

Da quando non ci sei
sei ovunque

e vago
senza meta

per trovarti

e sfuggirti.

POMPEI

Come se accadesse davvero
ciò che sta accadendo
ed il fischio che c’era non c’era,
l’abbaglio che c’è e non c’è
avvolgessero l’adesso di altrove

in un frastuono d’eterno,
in un rigurgito d’inferno
nel battito di ciglia che apre e chiude il mondo
e serra l’essenza
e deflagra l’attesa.

Tumulto nel tumulto.

Caos chiama caos.

Sconquasso che divora.

Piombo fuso e moltitudini d’annientamento.

In questo magma smolecolante
di gente al contrario lamiere d’ombra e fuoco d’argento
frantumi dell’esistere
tra smembra e segmenti d’oltre
e sangue misto a sangue e polvere e rottami
e un Dio c’è stato per ogni brandello.

Caso chiama caso.

Vita che si ripiega
su un tempo che implode.

Sul bancone, in piedi,
una bottiglia d’universo
in decomposizione.

Il brano “Pompei” è quello che ha più risentito della evoluzione del libro nel corso della scrittura, sebbene fosse tra i primi ad essere venuto fuori.
È il terz’ultimo dei brani ed è uno di quelli che tengono insieme la raccolta, che non raccontano un personaggio, ma spostano l’occhio della macchina da presa sull’insieme. In una sceneggiatura rappresenterebbe il climax. Caso chiama caso. // Vita che si ripiega / su un tempo che implode”: è ciò che lega le vite che passano dal piccolo universo del Bar Samarcanda. Se un cuoco distratto lasciasse aperta la bombola del gas (ne parlo in uno dei brani della prima sezione, dal titolo “Playlist”, una miscellanea di situazioni, gesti, sguardi e citazioni musicali) tutti i dubbi, le aspirazioni e le miserie di ciascuno sarebbero in un istante vanificate. Inizialmente “Pompei” aveva una connotazione più sociale, quasi politica. Ad implodere era la società, non il tempo.
Ma poi i personaggi mi hanno condotto su una via più esistenzialistica.

Ringrazio L’Estroverso, la sua Direttrice e la Redazione per questa piacevole occasione di confronto con i lettori, che spero saranno incuriositi dal mio lavoro.
Viva la poesia!

Potrebbero interessarti