“Scienza d’amore” di Marilina Giaquinta, la nuova silloge «di luce e d’infinito», oggi al Catania Book Festival.

Amore come «il restare profondo/ che si sente/ quando niente corrisponde/ alla forma del dire». Amore come «un frattale». Amore come «un’implicita vocazione all’eterno». Amore come «forza di battito centripeto». Amore come «rombo di vento/ che scuote e freme e strugge». Amore «come la luce d’inverno/ quando aspetta di diventare estate». Da questo «tempo impreciso/ che si muove fermo», Marilina Giaquinta, fissa attentamente le stelle, desidera, e distende la sua polisemica “Scienza d’amore”, silloge «di luce e d’infinito» edita da “Ensemble”. “Scienza d’amore” sarà presentato oggi, con Maria Antonietta Ferraloro, al “Catania Book Festival” (ore 10, “Le Ciminiere” – sala “Venere”).

Cosa sottende il titolo “Scienza d’amore”?

Lo spiego nella prefazione del libro, che ho intitolato “Siamo animali amorosi”. Cito Aristotele e Darwin perché hanno intuito e dimostrato che l’uomo è un animale sociale. Non ci siamo estinti proprio perché siamo animali sociali. Il nostro cervello è sociale: condividiamo intenzioni verso obiettivi comuni, siamo progettati per collaborare, e, i più intelligenti tra noi, sono quelli più capaci di comprendere gli altri. Scienza d’Amore è il tentativo ambizioso di coniugare le scienze col dialogo amoroso: perché il sentimento sociale continuerà a salvarci dall’estinzione. La scienza ha dimostrato la fallacia della visione antropocentrista (come dimostrano i bellissimi libri di Barbara Mazzolai sui “plantoidi” o il recentissimo libro di Emanuele Coccia “Metamorfosi”: “È la stessa vita che anima il pianeta, a sua volta nato, sfuggito da un corpo preesistente – il Sole – e generato dalla sua materia per metamorfosi 4,5 miliardi di anni fa. Siamo tutti una particella, una scheggia di luce. Energia, materia solare che tenta di vivere diversamente…”; e più avanti “…ogni vita è un atlante che si dispiega: non abita un territorio, ma incarna in sé la mappa del territorio.”; e ancora: “… ogni essere vivente è necessariamente coscienza del mondo”), dell’esasperato individualismo su cui si fonda il sistema produttivo mondiale (l’“homo comsumens” di Bauman) che sta portando l’equilibro ecologico del pianeta al collasso. “L’espulsione dell’altro” (per dirla col filosofo Byung-Chul Han), porterà, se perseguita con toni e modi sempre più subdolamente violenti, a una serialità “robotica” in cui tutto ciò che non è somigliante verrà eliminato come negativo, e in questa “dialettica” mondiale, come sempre, è destinato a soccombere chi è più debole. Perché il dialogo amoroso? Perché abbiamo perso la capacità di provare il sentimento amoroso: l’“homo consumens” consuma l’oggetto amoroso come un qualunque prodotto di mercato che serve a soddisfare il proprio piacere. E, quando non gli serve più, lo elimina. Antonio Damasio ha dimostrato che il nostro cervello ha bisogno del sentimento per poter comprendere e comprendersi: più semplicemente, per funzionare. Il soggetto di Scienza d’Amore è un “homo amans” o una “femina amans”, a chi crede nel genere amoroso. Perché bisogna rifondare i rapporti, e, per farlo, occorre cominciare dalla relazione binomica: l’unico rimedio per uscire dal collasso sociale. Devo dire che neanche in questo sono originale: lo ha detto prima di me Theodore Zeldin, in un libro bellissimo “Ventotto domande per affrontare il futuro”. Ma non l’ha detto in poesia. E per dirlo in poesia, in questo tempo, ci vuole una buona dose di coraggio perché, ben che vada, si finisce coll’essere derisi. Io tuttavia penso che, se non siamo nati per vivere soli, non siamo nati per morire soli.

Cosa può la poesia per il nostro essere “amore senza saperlo”?

La poesia è allo stesso tempo solitaria e inclusiva, non può esistere senza “l’altro”, sente e percepisce il proprio tempo ma è allo stesso tempo predittiva, profetica, la poesia è fiaba e tragedia, la poesia è umiltà e “sprezzatura” (quella di cui parla Cristina Campo ne “Gli imperdonabili”), la poesia è necessaria e libera (lo aveva capito la Russia stalinista che perseguitava e suicidava i suoi poeti), la poesia è unica per ognuno di noi, come le nostre impronte digitali, ed è universale, la poesia è parola che diventa musica e immagine ma è anche storia, narrazione, la poesia è il coraggio del dolore (quello che  farmaceuticamente cerchiamo di eliminare dalle nostre vite) ma è anche ricerca del piacere, la poesia è il rischio dell’amore e il rigore della ragione, la poesia è disagio è tormento è rovello ma è anche quiete e calma e sogno, la poesia è svelamento è visione onirica è follia è gioco è rivoluzione è bellezza è caduta è disperazione è “solitudine dell’uomo globale” è respiro è voluttà è impegno è leggerezza è verità e menzogna è materia oscura è stella di neutrini è perdizione d’infinito è caos è entanglement è gravità è tutto quello di cui siamo fatti, perché siamo fatti della stessa materia delle stelle e la poesia ci fa brillare.  

“Si dice che l’amore arrivi/ in prossimità di un cambiamento/ proprio come la luce d’inverno/ quando aspetta di diventare estate”, ancora i tuoi versi per chiederti in quali prossimità giunge la poesia?

Ti rispondo con Giorgio Manganelli. Nel recentissimo “Altre concupiscenze”, curato da Nigro, scrive: “Chi scrive ha anche una grande quantità di “amore”, e l’amore eccita il genio, gli fa fare prodezze.” Ecco la poesia è questo: è l’amore che fa fare prodezze. La poesia è prossimità in re ipsa, la prossimità che tende alle cose all’infinito, quell’infinito cui dobbiamo ricorrere per dar forma a noi stessi.  E, scusami se uso ancora le parole di Manganelli, ma lui è di certo più bravo di me: “… quell’“impossibilità”, quell’adynaton che è la poesia. Il poeta non può non sapere, forse clandestinamente a se stesso, che ciò che scrive è carmen, vale a dire incantesimo, evocazione, formula magica. Egli ha a che fare con ritmi, suoni, echi, ambiguità, insensatezze, errori, rigorose scansioni, imperativi ciclifonici. Nella poesia la parola consegue la massima imprecisione e la massima pertinenza; appunto, è un impossibile.” Ma forse tu volevi sapere della mia poesia. Allora ti faccio una confidenza: mi capita spesso che molti, dopo aver letto i miei “accapo”, mi raggiungano e mi raccontino la loro vita, aprendosi e parlandomi del loro dolore oppure mi dicano “questa l’hai scritta per me” oppure ancora “mi hai letto nel pensiero”, oppure “mi tocchi il cuore”. Ecco vorrei che i miei “accapo” esprimessero non solo me stessa, ma lo smarrimento del vivere questo tempo. Una volta lessi su Il sole 24 ore una riflessione di Nigro che mi piacque così tanto che l’appuntai: “Ci vuole molta pratica per smarrirsi, ha detto qualcuno. Ma nessuno vuole più coltivarla. E invece smarrirsi è dell’uomo, perché le strade sono fatte per le macchine”. D’altra parte, la parola pianeta viene dal verbo greco planaomai che significa “errare, smarrirsi”.

“Ma davvero/ siamo parti/ di un insieme/ che va scomposto/ per essere capito?”. Con i tuoi versi interrogativi per chiederti qual è stato ad oggi, nella tua vita, il quesito risolto dal sopravvento della poesia?

La poesia mi ha sempre salvata e risanata dagli affanni. Bufalino diceva che scrivere è terapeutico, ed è vero. Mariella Mehr rispondeva, in un’intervista rilasciata durante il Festival di Mantova, “la poesia mi viene naturale” e a me succede la stessa cosa con i miei “accapo”. Ho letto tanti libri di neuroscienza sulla creatività, compreso “Genio e follia” che Karl Jaspers, filosofo e psichiatra, dedicò allo studio di Strindberg e Van Gogh o il bellissimo “I geni della creatività” di Simon Baron-Cohen, o quello del premio Nobel per la medicina Kandel “Arte e neuroscienze”, ma la conclusione che ne ho tratta è che nessuno ne conosce l’origine ma soprattutto ha mai capito perché alcuni siano “creativi” e altri no. Il professor Barenghi una volta ha scritto, a me che gli chiedevo, che la creatività è “un eccesso di neuroni”. Ho pensato alle mie sinapsi che, invece, con l’età “si smiliardano” e mi sono angosciata al pensiero di non riuscire più a scrivere. Ho pensato che non avrei avuto più senso. Scrivere poesia è per me un atto di resistenza. Mi è accaduto quando dirigevo i servizi di ordine pubblico in occasione di quelli che comunemente si chiamano “sbarchi”, e cioè quando approdavano al porto le navi che avevano, nei giorni precedenti, effettuato il salvataggio dei naufraghi al largo delle coste libiche. Era così forte il terremoto emotivo che sentivo dentro di me nell’ascoltare le storie drammatiche e terribili di coloro che erano scampati alla morte che arrivata a casa sentivo l’urgenza di scrivere quello che avevo provato. Così mi sono salvata, capisci? Ho potuto continuare a vivere con quelle storie dentro. Così è nato “Il futuro è straniero”: ogni volta che ho letto quelle poesie in pubblico, non ho potuto trattenere le lacrime, facendo anche delle pessime figure, tra l’altro. Ancora oggi, non riesco a leggerle senza piangere. C’erano madri, capisci, come me, e mentre ero al porto mi arrivavano i messaggi di Carlotta che, preoccupata, mi chiedeva se stavo bene, se avevo mangiato e quando sarei tornata a casa, perché i servizi cominciavano la mattina e si protraevano spesso fino a notte fonda. E io mi sentivo fortunata, capisci, e in colpa perché mi rendevo conto che quello rappresentava il nostro disastro, la fine dell’Umanità. Chi scrive forse non sa di avere un grande privilegio: quello che Ungaretti diceva della poesia, riuscire a camminare in bilico sul baratro della vita.

Qual è la tua attuale definizione di poesia?

Questa volta prendo in prestito le parole di Agamben che ho letto nel suo bellissimo “Il fuoco e il racconto”: “Occorre concepire il soggetto non come una sostanza, ma come un vortice nel flusso dell’essere” e, più avanti, “E il poeta è colui che s’immerge in questo vortice… Egli deve riprendere una a una le parole significanti dal flusso del discorso e gettarle nel gorgo…”. Quest’immagine mi piace tantissimo e, se ci fai caso, ci riporta alla vertigine di cui parlavamo prima. E ti cito una poetessa, grande studiosa della poesia greca, Ann Carson che, nell’“Economia dell’imperduto”, scrive: “Il poeta non solo adopera la memoria, la incarna.” E, più avanti, “… la più profonda delle esperienze poetiche: quella di non vedere ciò che invece c’è” e, ancora, parlando della poesia di Celan: “la poesia diviene in me un ritratto della condizione del poeta: la sua solitudine, la sua marginalità, la sua percezione del rapporto tra visibile e invisibile, la sua capacità di resistere – attraverso la catastrofe fino alla metafora, al denominare, al pregare. E, certo, anche la sua lucida veglia”. E ancora: “Il compito del poeta è quello di purificare le parole e di salvare  quanto è purificato”. E ancora: “Un poeta è anche una sorta di cardine. Attraverso canti di lode determina una continuità tra la vita mortale e quella immortale”. E citando Celan, la Carson scrive “Paul Celan una volta descrisse il compito del poeta come l’arte di “misurare lo spazio di ciò che è dato ed è possibile”. E, ancora, su Celan “… l’incontro misterioso tra “io” e “tu” che dà vita a una poesia…”. E possiamo dire anche che la poesia è “il potere di vedere la differenza tra ciò che è noto e ciò che è ignoto” che la Carson attribuisce alla sapienza, ma, se la poesia è intuizione al pari della scienza – la neuroscienza ha dimostrato che la stragrande maggioranza delle nostre decisioni sono irriflesse e istintuali e che quasi la totalità  dei nostri atti è inconscia, cioè non riesce a raggiungere la nostra consapevolezza –  intuizione che genera ed è generata dalla nostra costituzione, dalla nostra “Gestalt” mi chiedo perché la poesia non possa essere anche sapienza. Tutto questo per dire che la poesia, se ha un ruolo, ne ha così tanti che è difficile elencarli tutti. Ma avere un ruolo significa anche avere un fine (se cerchi sul Treccani trovi questa definizione di “ruolo”: “fig. La parte, la funzione, il peso di qualcuno o di qualcosa nell’attuarsi di un fatto o di una situazione”) e io non credo che quando si scrive si voglia raggiungere uno scopo. Scrivere è maieutico, è come quelle piattaforme di perforazione che si vedono all’orizzonte in mezzo al mare e che ne scandagliano gli abissi in cerca di tracce di idrocarburi. La poesia è come i robot da cucina: possono fare tutto: dipende dall’uso che ne fai”.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori a scegliere una tua poesia dal tuo “Scienza d’amore” e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Ho scelto questa poesia perché credo che dimostri che si possa parlare della passione amorosa usando la scienza come metafora, anche se sembra, prima facie, un modo poetico ossimorico e poi perché è esemplificativa del senso della raccolta. I miei “accapo” nascono quasi sempre da una frase che mi gira in testa per lungo tempo, anche contro la mia volontà. Finisco sempre per pensare a quella frase, anche se sto cucinando o se faccio la doccia. Io dico sempre che si scrive anche quando non ci si trova davanti a un foglio di carta o a una tastiera. La nostra mente continua a riflettere, a ruminare intorno ad alcuni pensieri, anche quando non ce ne accorgiamo, fino a quando poi questi non diventano parole. Il mio labor limae non è tormentato. È più tormentata la mia riflessione, quella che precede le parole.

Sei come il suono tu
storci tutte le mie direzioni
per essermi frequenza
sei gravità di vuoto
che attrae ed elimina
ogni forza du senso.
Sei onda che vibra
e che prende forma
dentro il mio spazio:
e io che ti sento
quiete d’aria silenzio tenue
e tu che cerchi
relazione fra i numeri
e divisibili devono essere
per averne memoria
dici, come noi
che a separarci
abbiamo abitudine.

La materia genera
sempre dolore.

Catanese di nascita e di vita, laureata in Giurisprudenza e in Scienze della P.A., è dirigente superiore della Polizia di Stato in quiescenza. Dopo aver collaborato, come borsista, con il professore Massimo D’Antona, allora titolare della cattedra di Diritto del Lavoro, ha superato il concorso per Commissario, occupandosi, per più di venti anni, di immigrazione, dirigendo i servizi degli sbarchi lunghe le coste etnee (tra questi, i 918 curdi della nave “Monica”) e dirigendo, da ultimo, i servizi disposti in occasione dell’arrivo al Porto di Catania delle navi con a bordo gli immigrati salvati da naufragio al largo delle coste libiche. Ha tenuto corsi e conferenze in materia di immigrazione, anche in sedi universitarie. Per questi motivi le è stata conferita dapprima l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica e poi di Ufficiale della Repubblica. Per meriti di servizio è stata altresì insignita del Premio Livatino. Ha partecipato al progetto della Fondazione Treccani, tenendo laboratori di poesia per i ragazzi dell’Istituto Penale per Minorenni di Acireale. Pur essendo la scrittura una passione risalente, ha cominciato a pubblicare solo nel 2014, esordendo con una raccolta di poesie. Da allora, ha pubblicato sei libri, tre raccolte di poesia, due di racconti (l’ultima delle quali è stata tradotta in Germania) e un romanzo. Ha partecipato a diverse antologie con poesie e con racconti. Ha collaborato con il magazine del quotidiano La Sicilia, tenendo rubriche di racconti, e ha condotto per alcune radio programmi sulla poesia e la letteratura. Sue poesie sono state pubblicate su “Dedalus”, sulle riviste “Achab”, “Frequenze Poetiche”, su “il Verri” e nella rubrica “La bottega della poesia” del quotidiano “la Repubblica”. Negli ultimi anni è stata invitata a interpretare performance poetiche in giro per l’Italia, accompagnata da musicisti jazz. Nel 2020 ha vinto il premio Anna Maria Ortese. Nel 2021 ha vinto: il premio Vittoria Aganoor Pompilj nell’ambito del Festival delle Corrispondenze, il premio Nabokov per la poesia edita, il premio Antica Pyrgos per la poesia inedita, il premio “Città di Sarzana” per la poesia inedita e per il romanzo edito. Si e classificata terza al premio Sygla ed è stata finalista per la poesia inedita al premio Zeno. Fa parte della giuria del premio “Ercole Patti”, del premio “Jacopo da Lentini” e del Premio Nazionale Elio Pagliarani.

Bibliografia:

  • “Il passo svelto dell’amore”, Il Girasole edizioni (2014)
  • “L’amore non sta in piedi”, Melino Nerella edizioni (2015)
  • “Malanotte”, Coazinzola Press (2017)
  • “Stimmen in der Nacht”, Launenweber (2018)
  • “Addimora”, Manni Editori (2018)
  • “Non rompere niente” Euno edizioni (2020)
  • “Scienza d’amore”, Ensemble (2022)

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