Luigia Sorrentino, “Piazzale senza nome”, poesia che conduce verso “luoghi” reali.

Versi correnti di Luigia Sorrentino, «la luce divora gli infermi/ il tempo è una goccia d’inverno/ divelta// brucia il cuore di carta/ al grido inaudito», scelti per introdurre la lettura del nuovo libro, “Piazzale senza nome”, pubblicato da “Samuele Editore”, nella collana “Gialla Oro”. La Sorrentino, fedele “cronachista”, narra il magma del mondo, affonda il “corpo incandescente della vita”, coglie il “silenzio di tutte le parole”, incede fino alla “deserta vetta del cuore”, fino alla “sconosciuta profondità del vedere”. Muove lungo all’asse di un “tempo murato e silenzioso” che “prende tutto l’amore”. Le parole sono “imprigionate nel petto”, sono parole “d’affetto”, parole rubate, imperfette, passate “di bocca in bocca”, presenti eppure “perdute” come “il riflesso scuro/ di una notte piantata in un’altra notte”.

Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Piazzale senza nome”?

“Piazzale senza nome” è il frammento di un libro che cominciato a scrivere a 13 anni e che probabilmente non smetterò mai di scrivere. In quegli anni vivevo in una città di provincia al sud di Napoli con la mia famiglia. La strada che percorrevo a piedi portava al porto. Sulla banchina i miei occhi si perdevano nel colore del mare e del cielo dalle mille sfumature d’azzurro… e poi le isole disseminate nell’acqua: Capri, Procida, Ischia.  Ma alle spalle incombeva una minaccia: l’ombra scurissima del vulcano, la montagna, che d’inverno appariva in una luce temporalesca e livida. In questo luogo dalle tinte contrastanti, c’era un divario molto evidente tra i ragazzi che provenivano da famiglie povere e quelli che vivevano in famiglie benestanti.  I miei primi amici sono stati ragazzi che vivevano un disagio sociale che poi si è trasformato in una dipendenza, fisica, psicologica, affettiva. Potrei definire “Piazzale senza nome” il poema di chi non dimentica. Il poema di una persona che sta parlando sotto l’incidenza del piano della propria esistenza.

Ad oggi, dove sei stata condotta dalla poesia?  

La poesia mi conduce sempre in un luogo reale. Il luogo è il poema che si scrive dentro di me, e da lì comincia la storia, ma anche l’indugio su ogni singolo verso fino a quando non arriva la lingua, in tutta la sua presenza. “Piazzale senza nome” è un libro invernale, freddo, respingente. Tutto è già accaduto, la giovinezza è perduta, è stata violata da un amore tossico, da una dipendenza fisica e psicologica e, in parallelo, c’è una morte solitaria, la morte di un vecchio uomo che si scoprirà alla fine, ha coltivato la vita come un giardino.

In che modo la vita diventa linguaggio?

La vita diventa lingua della poesia quando ci si allontana dall’esperienza individuale, personale, per incontrare gli altri. Quando il particolare si sposta nell’ universale e ti fa entrare nell’esperienza di altre persone che si riconoscono nel poema. Non sempre la lingua della poesia è accogliente, perché il poeta vuole esprimersi nella totalità dell’esperienza e senza limiti. Pensi a Simon Weil. Nel 1943 scrive una serie di saggi nei suoi ultimi mesi di vita. Siamo nella Seconda Guerra. La Weil si rivolge a un’Europa caduta in una voragine, qualcosa di simile a quello che si sta verificando oggi con la guerra in Ucraina. La Weil è una giovane donna che decide di affrontare un discorso istituzionale: la convivenza fra i popoli, l’uguaglianza, i diritti civili, la giustizia. “Piazzale senza nome” esprime una condizione istituzionale, perché lì dove manca l’istituzione comincia il degrado.

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

In poesia è molto importante la lingua. La lingua veicola un’esperienza, un’attitudine, un pensiero, una condizione. Spesso la poesia costringe a vedere al di là del proprio personale confine e in questo senso porta il lettore a una dimensione invalicabile. A volte la poesia sembra invalicabile, perché il poeta si esprime con una lingua fuori da qualsiasi canone prestabilito, in una lingua instabile, precaria, che diventa l’espressione di un disagio, di un’esperienza incomunicabile. Si pensi alla poesia di Paul Celan. La sua lingua diventa quasi illeggibile, soprattutto nelle ultime opere, perché il suo io è compresso dal “trauma” e quindi la lingua diventa l’espressione di una sofferenza estrema.  Il disagio Celan lo esprime in tedesco, la lingua dell’oppressore; ad esempio, con il refrein del “nero latte” e la fuga della morte nei forni crematori, consegna al lettore una poesia che diventa una marcia funebre e percuote il tempo musicale della fuga. Ecco: la lingua di Celan è sicuramente invalicabile: penetra il cristallo del suo mondo interiore e esprime una frattura insanabile, non traducibile.
 

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica?

La forma secondo me non condiziona la verità della poesia, ma la porta in più direzioni. Per Paul Celan, la verità della poesia “è come un meridiano: una linea a un tempo verissima e inesistente che indica una direzione attraverso molti territori”. Penso poi ai poeti del passato che hanno scritto in una forma metrica perfetta. Dante, il poeta per eccellenza, con i suoi endecasillabi ha raccontato verità inconfessabili e lo ha fatto nella forma del sonetto. Oggi in Italia ci sono poeti che scrivono una poesia narrativa, dal verso lungo, altri poeti si esprimono invece in una forma più “mossa”, e sono definiti lirici. Diciamo che oggi un poeta che scrive versi in una forma libera, può lasciarsi trasportare da una metrica mista: endecasillabi, settenari, ottonari, novenari, decasillabi. Questa fusione nella lettura produce comunque una musica dodecafonica.  

Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?

Non darei delle istruzioni. Sarebbe mortificante per chi ha scritto una poesia o intende scriverla. L’apprendimento è la scrittura stessa. Per questo non credo nelle scuole di scrittura, ma in quelle di lettura, che è una cosa completamente diversa. Prima è necessario imparare a leggere la poesia, poi la si può sperimentare tenendo ben presente che la poesia è un talento che si ha oppure non si ha.

Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia

La capacità di scrivere poesia è per me un dono. Credo sia questo il valore più prezioso ricevuto dalla poesia.

Può la poesia ricolmare di luce la “deserta vetta del cuore”? “il riflesso scuro/ di una notte piantata in un’altra notte”?

Ti ringrazio per aver citato dei versi tratti da “Piazzale senza nome”. La poesia può tutto. La poesia come la vita ti espone alla ferita, alla frana, al fallimento, ma può anche condurre a una serenità consapevole dei propri fallimenti. Se si cade, ci si può rialzare, altri rimangono giù, nei sotterranei della propria esistenza, in una dimensione di buio, di dipendenza che porta a compiere gesti compulsivi, ripetitivi senza mai colmare il vuoto d’affetto che è in ognuno di noi. In “Piazzale senza nome” i ragazzi muoiono di eccessi, altri muoiono dentro di loro. Diversa è la condizione del vecchio. La sua lunga vita di consapevolezza approda al porto.

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal libro “Piazzale senza nome” – (riportala gentilmente) – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Da: La notte dei falò

ha fame di bosco
la forma tornata dalla cenere,
l’abbraccio acceso
ha annerito il suo volto
non ha cancellato la differenza

il grembo della voce si spegne
reclama il buio
la cupa processione della negazione
nomina un paese morto

evapora nella piazza
il sacrificio dell’adolescenza

chiuso il sudore
la vita di campagna
chiusa la straduccia
i gusci morti

Questa poesia chiude la sezione La notte dei falò collocata quasi alla fine del libro. Il poemetto risponde al rito arcaico dei fuochi accesi sui sagrati delle chiese la notte della vigilia, nella speranza che almeno per una notte, tutti siano uguali, senza differenze. Tutti hanno diritto a assistere e partecipare a un atto propiziatorio, benevolo. Chiunque può avvicinarsi al falò per portare a casa un pezzetto di brace ardente in segno di uguaglianza. I versi di questa poesia sono maturati senza troppe modifiche. Ma se l’intenzione iniziale era quella di “cancellare le differenze” alla fine prevale, “la differenza”, quindi c’è un fallimento, ed è il fallimento di un’istituzione che non ha saputo difendere i propri figli, ecco perché “la forma tornata dalla cenere” nomina un paese morto.

 

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 23.03.2022, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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