Roberto Lamantea, “Uno strappo bianco”, per un percorso poetico “educato all’indipendenza”.

tre domande, tre poesie

Con uno sguardo disilluso e strenuamente innamorato del mondo, Roberto Lamantea consegna un libro di quieta potenza, un canto consapevole, come riporta nella prefazione Giovanni Fierro, “di chi sa che la poesia vive di fiducia nella parola e di intensità di vivere”. “Poeta lontano da ogni moda contemporanea”, scrive nella nota finale Umberto Piersanti, per sottolineare come il percorso poetico di Lamantea sia educato all’indipendenza, alle parole scelte con la cura di chi sa che la bellezza è un inganno «industria/ polline di metallo […] nebula d’acidi arcani» che dà vita a una «poesia geneticamente modificata». Lo sguardo del poeta si rifugia nel «sottovoce di bosco», cerca «l’imo del limo», vuole «rinascere terra», sogna la «neve fantasma» che lo cullava da bambino. Il paesaggio, così caro alla poesia d’ogni luogo, è «volato dove/ non c’è più/ neanche il più». Ma tra cantilena, fiaba, filastrocca, nella danza di rime e assonanze, è ancora possibile trovare tracce di un paesaggio antico, di un canto smarrito nel bosco fatto di «parole piume / parole viandanti» rimaste dall’infanzia a giocare con noi. Anche se la coscienza della storia e di una violenza da sempre identica ci ricorda che «hanno tolto gli occhi / alle parole» e non c’è più il cielo, il sogno non muore, «ostinato a vivere dalla beltà rapito».

In che modo la (tua) vita diventa linguaggio, qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Uno strappo bianco”?

A volte scherzando dico che in una vita precedente devo essere stato una pianta: albero, arbusto, meglio se nell’intrìco del sottobosco, quel groviglio di foglie, rametti, gemme, bocciòli, piccoli fiori che germogliano a pochi centimetri dalla terra, dall’humus, l’imo del limo come lo chiamo nel libro. Verso il mondo vegetale non ho solo amore, ho confidenza, quasi complicità. Io vorrei rinascere terra. E con gli animali vivo amori dolcissimi, arresi: nel libro ci sono tre testi dedicati al mio gatto Ghost, che ora non c’è più (ora con me c’è Emily, tenerissima). In più amo le fiabe, le filastrocche, le cantilene, le ninne nanne, giocolerie fonico-ritmiche. Sulla pagina le due cose si combinano, danzano, diventano scrittura con l’eco di mille poesie, mille altri ritmi e linguaggi, ma anche con la gioia dell’invenzione lessicale e fonica: nel libro ci sono sicuramente echi di Zanzotto e Pascoli, ma anche Dante, Montale, perfino Carducci. Un altro elemento del libro è la storia: è la violenza che sembra il tessuto stesso dell’essere umano, come se la nostra trama e il nostro ordito fossero l’odio, la crudeltà, non solo fisica (la guerra) ma anche psicologica: l’esclusione, l’emarginazione, di chi la massa bolla come diverso. La violenza mi ossessiona: la cronaca dei giornali e la nostra vita quotidiana sono un continuo urlo. Io amo il silenzio e anche il silenzio è cancellato con violenza. Il libro nasce da questo contrasto.

Riporteresti una poesia (di altro autore) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti, rivelandoci cosa muove la tua preferenza?

C’è un testo che rileggo da decenni ed è la poesia che più di ogni altra parla di un tema antico per me dolcissimo e dilaniante, la nostalgia, capire che siamo stati felici ma non lo sapevamo. Ed è volata via la giovinezza come un vento, vorremmo essere anche solo ancora una volta in quel «tempo che non esiste più / che non ha più alcun luogo». È “Camposanto degli Inglesi” di Franco Fortini, scritta nel 1947 e pubblicata in Poesia e errore, libro del 1959 (prima edizione Feltrinelli, poi lo stampò Mondadori nello “Specchio” nel 1969). È scritta come una sinfonia d’archi:

Ancora, quando fa sera, d’ottobre,
e pei viali ai platani la nebbia,
ma leggera, fa velo, come a quei nostri
tempi, fra i muri d’edera e i cipressi
del Camposanto degli Inglesi, i custodi
bruciano sterpi e lauri secchi.
Verde
il fumo delle frasche
come quello dei carbonai nei boschi
di montagna.

Morivano
quelle sere con dolce strazio a noi
già un poco fredde. Allora m’era caro
cercarti il polso e accarezzarlo. Poi
erano i lumi incerti, le grandi ombre
dei giardini, la ghiaia, il tuo passo pieno e calmo
e lungo i muri delle cancellate
la pietra aveva, dicevi, odore d’ottobre e il fumo
sapeva di campagna e di vendemmia.
Si apriva la cara tua bocca rotonda nel buio
lenta e docile uva.

Ora è passato
molto tempo, non so dove sei, forse vedendoti
non riconoscerei la tua figura. Sei certo
viva e pensi talvolta a quanto amore
fu, quegli anni, tra noi, a quanta vita
è passata. E talvolta al ricordare
tuo, come al mio che ora ti parla, vana
ti geme, e insostenibile, una pena;
una pena di ritornare, quale
han forse i poveri morti, di vivere
là, ancora una volta, rivedere
quella che tu sei stata andare ancora
per quelle sere di un tempo che non esiste più,
che non ha più alcun luogo.

Anche se scendo a volte per questi viali
di Firenze dove ai platani la nebbia,
ma leggera, fa velo e nei giardini
bruciano i malinconici fuochi d’alloro.

Per concludere ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo libro Uno strappo bianco, InternoLibri, 2021.

Le liane dell’alba
hanno le ginocchia nude
le foglie di nerospino
il sangue bambino

(2005)

*

danza danza scarpina di vetro
al tintinnio del carillon
danza alla cetra all’arpa
al cedro maestoso e tetro
che pallido nel bosco
fosco fa ogni fiore
e pietre e archi di ginepro
e bacca e spina e gheriglio
e mordo del giallo corolla
che incipria e nebbia
ampolla polla amaro
ai denti fuoco e gioco
m’imbavo e rinasco baco
nel nido di terra nudo
nel nudo di terra nido
m’imbivo e bibo bulbo
e ovulo e ibisco e fiele
in vischio m’innesto e miele
in ameba in ovulo
a rinascere terra

a rinascere terra

(2015-2021)

*

Arrivare in treno verso sera
con il cielo che accenna al viola
e le scaglie di luce sul mare
quando chi è solo accenna una preghiera

La strada a piedi fino a casa
l’aria tiepida di primavera
d’Imperia lasciando la scogliera
le agavi e i pruni sulla terra rasa

E il silenzio m’avvolge come un manto
con l’odore del legno e della cera

(2021)

 

Roberto Lamantea è nato a Padova nel 1955. Figlio di un pugliese e una friulana con radici in Austria, ha trascorso infanzia e adolescenza tra Gorizia, Udine, Imperia. Vive a Mirano (Venezia). Ha pubblicato: “Eucaliptus” (Rebellato 1975); “Ibis azzurro” (1979); “Xilofonie” (1994); “Nel vetro del cielo” (Amos 2006); “Verde notte” (Amos 2009); “Delle vocali l’azzurrità” (Manni 2013), il racconto in prosa lirica “Il bambino di seta” (Amos 2020). Ha pubblicato saggi, poesie e racconti su riviste web e in diverse antologie.

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