Non vi è il faccia a faccia con l’ineffabile: tutto può essere detto e va detto; l’altro (chi è dall’altra parte della pagina; ma anche della strada, del confine, del pianeta) non è un avversario ma una persona disposta all’ascolto. E va accolto lungo le vie di un’interlocuzione che, scartando ogni pronuncia che sorga dalle scaturigini del linguaggio, scorre irrefrenabilmente tra le persone viventi, tra i vivi e i non più, tra i nascituri e i postumi (Klee), tra i terragni e i superni (numerosi sono i richiami cristologici). Solo che questa ininterrotta pronuncia, nemica d’ineffabile, si rivolge all’altro con un’affabilità disperata perché piegata sotto il peso delle figure che germinano ininterrotte e rapide si accumulano: qualcosa che somiglia a una nevrosi d’ansia del bene, a un overload d’intenzioni, a una cecità da abbagliamento, si interpone tra i dialoganti. Ed è forse il destino di buona parte della poesia che non sceglie le scorciatoie del bozzettismo, dello sfogo sentimentale, dell’indottrinamento sentenzioso e del canto fine a sé stesso. Il libro, nel suo insieme coeso, è articolato in sette parti o capitoli, ciascuno a suo modo tematico. Flauto d’aule è un resoconto scolastico (Strommillo insegna filosofia) che si risolve in una sacralizzazione dell’adolescenza, intesa come fase dell’esistenza umana di massima incandescenza, esaltazione, pericolo: il rito relazionale docente-discente, che a lampi si colora delle tinte sanguigne del sacrificio, trova qui un duplice altare nel banco e nella cattedra. La seconda parte, Parola mattutina, presenta parole che si animano, interloquendo con colui che le usa. Questo capitolo normalizza lo straniamento sistematizzandolo, un po’ alla maniera del Paz surrealista. Lo prendiamo alla stregua di un manualetto di micropoetica. Segue la terza parte eponima, che si svolge tra irritazione percettiva e smania del riposo. L’andirivieni febbrile tra i luoghi di una città si fa correlativo dell’incontro tra i vivi e i morti: lungo gl’impraticabili tragitti, fatiche e figure si coagulano, e tutto si fa simbolo. Un passo dalla prefazione di Eugenio Lucrezi per introdurre la nostra intervista.
Qual è la scintilla che ha portato il tuo “I chiodi dell’acqua”, Samuele Editore, meglio: in che modo la (tua) vita diventa linguaggio?
La scintilla de “I chiodi dell’acqua” è antica, risale ai tempi in cui, studente, frequentavo il Liceo. Erano gli anni Settanta, gli anni di piombo. Nelle scuole ed università si oscillava tra la cultura dell’analisi e un violento scontro ideologico. Tra i miei docenti allora prevaleva un mutismo scettico, una rabbia, un sottile nichilismo. Io sentivo un peso, un “chiodo” nel cuore. Avevo una sete straziante di bellezza e di senso che non trovava “forma”, non trovava linguaggio. Poi… in questa strana sospensione, un giorno entra in classe la nuova professoressa d’italiano. Senza spiegazioni pregresse, ex-abrupto, dice: “Ascoltate ragazzi, sentite che bello…”. Cosa fa? Apre un libro e comincia a leggere meravigliosamente una poesia. In seguito avrei scoperto si trattasse della poesia di Montale “A Dora Markus”. Fui investito dalla musica e dal ritmo di quei versi. Le parole nella voce della mia insegnante diventavano carne. Splendevano. Fui travolto, non capii tutto, ma fui “compreso” (cum-prendo) da quell’onda sonora. Dopo cinquanta anni lo sono ancora. Anche quando mi sono ammalato seriamente agli occhi, con il rischio di perdere la vista, le pupille sonore dei versi mi hanno sostenuto nella cicatrice della carne che cerca sempre la gioia. Soffriamo tanto perché siamo fatti per la gioia. I chiodi nel tempo diventano più spessi, più pesanti, ma attraverso essi passa un’acqua misteriosa che irrora il cuore della vita. La prima sezione de “I chiodi dell’acqua” non a caso è intitolata “Flauto d’aule”. Nasce nelle aule scolastiche. Come docente di filosofia prima al Liceo e poi in Università ho sempre insistito (è quasi un’ossessione) che i docenti non possano e non debbano usare le parole del “didattichese”, del linguaggio burocratico- bancario. Con gli studenti termini in voga come “debito”, “credito scolastico o formativo”, “saldare il debito” sono una mostruosità linguistica che tradisce la vocazione scientifica, artistica e poetica del nostro lavoro. I nostri studenti non sono i nostri “clienti”. La prima grande resistenza civile si attua con le parole. Le parole diceva Santa Caterina preparano l’anima alla tenerezza verso le cose. Noi docenti abbiamo una responsabilità poetica sulle parole che usiamo. Nelle aule è la libertà di un rapporto tra uomini che può accadere. La poesia se è precisa impone uno stile, un accento, un ritmo matematico. Come dice Antonella Anedda “La poesia che m’interessa leggere vive di realtà ma mette in discussione le apparenze, intensifica la vita”. Riporto qui una prima poesia dedicata a uno dei miei maestri, don Lorenzo Milani. L’attenzione alla lingua che ebbe don Milani è la contestazione a ogni sistema di potere, di clonazione statala. È amore alla singolarità, all’ unicità di ogni essere.
Per prima cosa comprasti una tomba,
accordasti il colore del moscerino
con l’occhio del campanile bambino.
Così spezzasti il pane della clonazione
statale con quella sottigliezza che
amò da pazzi i tuoi ragazzi.
Ora piove sulla tua tomba
sotto la costernazione della luna
mentre tu passi attraverso la cruna.
La poesia è un destino?
La poesia è un destino nel senso che è “destinata” a sorprendere un incontro. La poesia è incontro. Il primo grande incontro è il dono della nascita. Occorre riscoprire continuamente il “senso della nascita”. Solo così si potrà non censurare la morte. Forse si potrà scoprire che morire può essere dolcissimo, un nuovo inizio, un parto, una nuova gestazione. “Nella mia fine è il mio inizio”, dice T. S. Eliot. Abbiamo forse dimenticato che all’inizio della nostra tradizione poetica c’è il cantico di S. Francesco con la sua visione rivoluzionaria di “sorella morte” e il grido poetico di Jacopone da Todi: “Amore, amore, omne cosa conclama”. I Chiodi della cultura contemporanea sono assetati di un’acqua così. Se non riscopriamo queste sorgenti, anche la vita biologica della terra prima si ribellerà, poi distruggerà ogni cosa. Occorre una “forma nuova” del pensiero. Ma come nasce il pensiero? Qual è l’origine del pensiero? Occorre un modello di conoscenza non più fondato sul dominio, ma su una passività ricettiva, su una nuova maternità. Nella mia raccolta, l’ultima sezione è intitolata: “La frontiera delle madri”. (Sullo sfondo ci sono grandi filosofe del novecento: E. Stein, Maria Zambrano, Etty Hillesum, H. Arendt). Le Beatrici del Novecento.
Propongo qui una seconda poesia.
Dove vissero le tue mani dementi
che lasciavano vivi i ciclamini
nella scossa del vento e dei bambini
ti ho amata nella rete del tuo sangue
catturato luccicante nel sole.
Ho cercato ogni giorno
dietro le tue spalle
la sorgente della sete.
Dove io dormii in te
lì mi svegliai pensiero.
Scegli una poesia per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere (nel contesto del libro che l’accoglie).
Per un certo periodo ho accompagnato una mia amica ammalata di tumore alla fermata del bus che l’avrebbe portata al centro Pasquale di Napoli che cura i tumori. Lì vedevo altre giovani donne che salivano per le cure, spesso accompagnate dai bambini nei passeggini o dalle loro anziane madri. Non mancava qualche volta neppure qualche animale domestico: un cane, un gatto. Io non volevo scrivere nulla, ma mi veniva sempre incontro, anche nel sonno, l’immagine, di quelle giovani donne che perdevano i capelli. Il primo nucleo della poesia è il verso: “il nodo / del sole nel fazzoletto”. È come se da quei capelli perduti veniva fuori un sole, il sole della pazienza, dell’umiltà, del dolore che scava il cuore ingrandendolo, del piombo che diventa oro, del chiodo che diventa acqua e disseta perfino gli animali.
Le giovani donne del Pascale[1].
E le vedo salire con il nodo
del sole nel fazzoletto
dietro la nuca
dove sbuca il mare,
quel nodo docile
che sfila i capelli accanto al rossetto.
Le guardo appoggiare la testa
al mare dei finestrini
sfiniti
nei grandi bus che oscillano
infiniti;
trasformare la rabbia che resta
nella sabbia
dei sandaletti bambini
quando tornano dal mare
tra capricci e passeggini,
le fisso
brucare ogni sbadiglio nei loro enormi
occhi di coniglio,
nella lingua del cane assetato,
nella saliva del neonato sempre sveglio,
nel capezzolo avvizzito della vecchia
madre che si accascia
che chiama.
E le ascolto trasformare lo scroscio
segreto del male
in sale.
Concludo queste mie breve note ringraziando l’amico ed editore poeta Alessandro Canzian. Senza di lui non avrei pubblicato il mio libro. In tanti scriviamo, ma chi legge? Nell’attuale panorama narcisistico contemporaneo, l’esistenza di editori poeti come Canzian è un dono grande perché esercitano una paternità sulla scrittura e custodiscono con un lavoro umile e continuo la passione poetica.
Marcello Strommillo è nato a Salerno nel 1961. È collaboratore universitario e docente ordinario di filosofia e storia nei Licei. Ha pubblicato i volumi di saggi: Le spalle di Enea. Aspetti e momenti del dibattito pedagogico italiano (Napoli, Tecnodid,2007); Il brusio dell’aula (Napoli, Tecnodid 2011). L’armadio della didattica (Roma, Armando, 2014). Ha partecipato ai volumi: Educazione e libertà in Gino Corallo, a cura di Giuseppe Zanniello (Roma, Armando, 2005) La pedagogia della libertà, a cura di C. Nanni, M. Teresa Moscato (Roma, Armando, 2012); Realtà fra virgolette? Nuovo realismo e pedagogia, a cura di E. Corbi, S. Olivierio (Lecce-Brescia, 2013).Ha pubblicato articoli scientifici su varie riviste, in particolare: Studi cattolici e Nuova Secondaria. Ha contribuito al volume: Dostoevskij, Abitare il mistero, 2017, ADUSC, Roma. Ha pubblicato i romanzi: La Tomba del tuffatore, Aletti, 2018, (secondo Premio al Concorso Internazionale Salvatore Quasimodo, sezione inediti) e Il viaggio dell’alba, Storia di Giambattista e dei suoi amici, Il giovane Holden edizioni, 2020 (finalista premio Giovane Holden). Per la poesia ha pubblicato le raccolte: Napoli è acquafresca, Ed. Cusl Salerno, 1999; La Rosa e il pigiama, Fondazione Mario Luzi Editore 2018; La mappa della festa, edizioni Rosso pietra 2020. Autore premiato al concorso di poesia Guido Gozzano. Suoi testi poetici sono pubblicati nell’Enciclopedia della poesia italiana contemporanea del premio internazionale Mario Luzi, 2016; altri sono stati scelti, segnalati e pubblicati dal poeta Elio Pecora nella rivista internazionale Poeti e poesia. Ha pubblicato per la casa editrice Samuele il libro di poesie: I chiodi dell’acqua, 2023. Email: m.strommillo@virgilio.it
[1] Il Pascale è a Napoli un centro medico oncologico.